Per non destare sospetti, per non ricevere domande
scomode: ho aspettato che qualcosa andasse storto, o che il
passato tornasse, in qualche modo.
Invece, sono ancora qua. E allora te la racconto adesso,
la mia storia. Tu, amico mio, ne conosci una versione, ma è
quella che ho inventato mentre mi preparavo ad affrontare il
giorno che ha cambiato per sempre la mia vita. E in ogni caso,
anche allora, non è che pensassi così spesso al dopo. O forse
sì? Oh, non importa.
Ho iniziato davvero a prendere coscienza di tutto, dopo
aver trattenuto il fiato, in fila per imbarcarmi in un aeroporto
europeo; era notte fonda e stavo per salire sull’aereo che mi
avrebbe portato via, in maniera definitiva, dalla vita di tutti
i giorni, con la paura opprimente che una telecamera potesse
riprendermi. Per questo stavo a testa china, temendo perfino
di incrociare uno sguardo qualunque, uno sguardo che potesse cogliere la mia colpevolezza.
Perché ero colpevole. Ricercato lo sono ancora, questo lo so,
però colpevole…
Magari se lo sono davvero, me lo dirai tu.
Ecco, potresti prendere il posto della giuria, ascoltare
l’esposizione dei fatti e, senza controinterrogatorio, decidere riguardo alla mia presunta colpevolezza. Certo, probabilmente
ti mancheranno dei riferimenti, ma proverò a fornirteli.
Posso fidarmi di te. Mi sei stato di aiuto e non hai mai
chiesto niente più di quello che, con distrazione calcolata, ti ho detto di me. Adesso, però, è passato quasi un anno
e posso, anzi devo, finalmente raccontare la mia storia a
qualcuno, dopo averla nascosta ed elaborata a lungo. Adesso mi servi,
devo liberarmi di un peso che non sono più
in grado di sostenere: svuotarmi la coscienza, raccontare
a qualcuno cos’è successo davvero quel giorno. Tutto, per
filo e per segno.
Siediti, ti offro qualcosa: mi servono le tue orecchie, una
minima attenzione.
Ok, adesso sono pronto. Non so nemmeno bene come iniziare, potrei addirittura fare una versione corta, cortissima,
di quella che è stata la mia avventura durata un giorno. Ventiquattro ore in cui ho condensato un’intera esistenza.
La mia vita precedente, quella che ora mi sembra una parentesi durata anni.
Sono finito sui giornali, anche in televisione, sai? Le mie
azioni hanno cambiato la vita di alcune persone. Mi sembra
però giusto partire dall’inizio, proprio da quel mattino, perché
rivivere attimo per attimo quel giorno possa in un certo senso
purificarmi. Non so se ho fatto del bene e non sono neanche
sicuro di aver fatto del male. Quaggiù sembra tutto ovattato,
come se i ricordi di quel giorno fossero annidati all’ombra di
un sole perenne. Come un serpente. Eppure non credo siano
pericolosi.
Forse, raccontando a te, mi faranno del male, ma il passato,
oggi ne sono quasi sicuro, non può tornare.
E così, ascoltami. Magari non capirai tutto, non so ancora
se lo capisco bene io, il tutto, ma avrai strumenti a sufficienza
per dire la tua. Ora, dai, mettiti comodo.
Ogni mattina quando mi guardo allo specchio continuo a
vedere la stessa espressione di quella mattina, sai? Come
se un fantasma identico a me nei lineamenti, ma allo stesso
tempo un uomo completamente diverso, mi accompagnasse.
È solo un momento, ma quando accade sento quasi la necessità di ricordare quel giorno, quel giorno che ha cambiato tutto.
Il mio fantasma aveva il viso pallido, ancora più bianco del
solito, illuminato dalla luce gelida di un piccolo neon. Aveva
sotto agli occhi i segni delle occhiaie delle settimane passate
a sviluppare quel proposito forse malsano, un corto pizzetto
fuori moda che iniziava a mostrare qualche filo bianco, i capelli freschi di barbiere. Ricordo che quella mattina esitai un
momento mentre stendevo la crema da barba sul viso. Tagliarmi il pizzetto oppure no? Non potevo permettermi alcuna esitazione, quel giorno, e fu per questo che lo tolsi, prima
di guardare il mio riflesso e vedere quello che dovevo.
Determinazione e sicurezza. Non avevo nemmeno bisogno
di ripassare il piano, non era necessario pensare alle possibilità, alle conversazioni da fare, ai posti dove andare, alle cose
che potevano andare storte. Erano mesi che calcolavo tutto,
la mente un simulatore che elaborava strategie, prevedeva
scenari, mosse e contromosse. A ogni possibilità, trovavo una
risposta. Sapevo di non poter prevedere tutto, certo, ma ero
cosciente del fatto che quel giorno sarei dovuto essere pronto,
scattante, concentrato.
Un torrente di ansia mi travolse quando terminai di radermi. Il mento sporgente era lì come a chiedermi: “Cosa stai
facendo?”. Mi stavo rovinando la vita? Era una possibilità.
Respirai a fondo, cercai di controllare il respiro e poi mi infilai nella doccia. L’acqua lavò quel residuo di preoccupazione;
era troppo tardi per avere dei rimorsi e quella mano invisibile
che mi spingeva ad agire era sempre lì, appoggiata con delicata decisione in mezzo alle scapole, sempre aperta e pronta
a premere con fermezza. Uscii dalla doccia e mi fermai nella camera, al buio. Ascoltai il silenzio dell’appartamento. Gli
unici rumori erano il lieve ticchettio dell’orologio a muro e
un festoso cinguettare all’esterno. Era domenica ed era molto presto. Avevo dormito tre o quattro ore, ma di un sonno
nemmeno agitato. Erano mesi che dormivo poco. Forse erano
anni che dormivo poco, ma non importava più. Nei film fanno
vedere sempre l’azione, di rado i momenti che la precedono:
lunghi, tediosi, agitati come un sonno abitato da incubi.
Scostai le tende della finestra e venni investito dalla luce
del giorno, allora strizzai gli occhi per qualche secondo accogliendo il calore del sole, le braccia aperte e le mani strette
intorno alle tende scure e sottili. Rimasi immobile, ascoltando il suono ritmico dell’orologio, sincronizzando il respiro
al movimento regolare delle lancette, prendendone il ritmo,
quindi spalancai la finestra e un getto di aria fresca mi investì, spazzando via ogni dubbio. Guardai il cielo pulito, l’azzurro limpido di una giornata perfetta per la festa del paese che
cadeva sempre nella terza settimana di settembre, e sorrisi
soddisfatto. I preparativi dell’evento erano stati accompagnati dalla preoccupazione per le condizioni climatiche. Paradossalmente sembrava che l’autunno fosse arrivato all’improvviso: due giorni di pioggia e temperature in picchiata, un
temporale intenso il venerdì, una pioggerellina triste, fine e
autunnale il sabato, e l’ansia meteorologica per la domenica.
C’era preoccupazione per il grande giorno. Sai? Se quella
domenica non ci fosse stato quel bel sole che vedevo splendere dalla finestra di casa, io non sarei qua. Invece, mi specchiai
nel riflesso del vetro illuminato e compresi che era il momento. Di agire, di seguire il piano, di essere pronto, di non avere
paura: eseguire e poi improvvisare.
Indossai i miei jeans preferiti, larghi e con le pinces fuori
moda, ma molto comodi, la maglietta blu con la scritta “Servizio” sul retro, misi le scarpe da tennis bianche, allacciandole
con forza, infilai una felpa grigia, e rilessi il foglio con le cose
da fare. Non era necessario, l’avevo ben impresso in testa, infatti lo strappai in piccoli pezzi e lo buttai nel cestino, poi presi lo zaino, controllando che ci fossero due bottigliette d’acqua, le caramelle e il cellulare, chiusi le finestre e incrociai
di nuovo il mio sguardo sui vetri. Sembravo… No, mi sentivo
tranquillo, sicuro. Era una bella sensazione, nonostante qualcosa di pesante che premeva sotto allo sterno. Un sasso non
digerito. Presi il blister degli ansiolitici e ingoiai una pastiglia, quindi misi lo zaino in spalla, intascai un grosso mazzo di
chiavi dalla ciotola di fianco alla porta e salutai l’appartamento, sicuro che non l’avrei più rivisto.
Sette ore dopo la mia vita sarebbe profondamente cambiata. Sette ore dopo sarei stato la prima notizia al telegiornale:
il tizio che aveva rapito una delle più famose, desiderate e conosciute donne d’Italia.
CAPITOLO 2
L’appuntamento era al bar della piazza. Ci arrivai in pochi
minuti, a piedi, lungo la via principale del paese chiusa al
traffico per il giorno della festa. I primi visitatori mattinieri si mescolavano timidamente alle attività degli espositori
del mercato. Alcuni già operativi, altri intenti a posizionare
la mercanzia sui banchi, a scrivere cartelli che invitavano ad
approfittare di promozioni, scaldare la voce per richiamare
l’attenzione dei passanti.
Entrai nel bar a fatica. Il locale era affollato di signore con
la giacca buona della domenica, anziani abitudinari infastiditi da quel viavai, e un drappello di motociclisti strizzati in
tute di pelle, pronti per il moto-raduno: uno degli eventi collaterali della festa.
Dall’estremità del bancone, un braccio si alzò per richiamare la mia attenzione.
Avevo conosciuto Luca alle superiori, il primo giorno di
scuola: era suonata la campanella della ricreazione ed ero tutto intento a scrivere qualcosa sul diario – provo spesso a ricordare cosa, ma non riesco mai a focalizzare, forse la frase di
una canzone dell’epoca, forse un coro di una squadra di calcio,
non so –; lui si era avvicinato e mi aveva apostrofato spavaldo: «Cosa scrivi, una lettera alla morosa?». Ero avvampato e
lo avevo subito odiato. Dopo due settimane eravamo diventati
compagni di banco, lui con i suoi maglioncini di marca, io in
jeans e felpa, diventando inseparabili per cinque anni. Poi, il
lavoro da elettricista mi aveva scelto perché avevo bisogno di
soldi, nonostante i buoni voti, e Luca era diventato avvocato
nonostante i pessimi voti.
«Pronto per il giorno della marmotta?» mi chiese avvicinandosi.
Era il soprannome che aveva affibbiato alla domenica della
festa. Come quel film, hai presente? Quello in cui il protagonista si sveglia sempre nello stesso giorno alla stessa ora, non
importa cosa sia successo prima. Erano anni che la organizzava, come presidente della Pro Loco. E dopo un lungo corteggiamento era riuscito a convincermi a entrare nel consiglio, a
partecipare.
Era stata una sera di gennaio. Fuori era freddissimo, dentro
al solito bar ci si scaldava con vino rosso e salatini. Mi aveva parlato di come ci fosse bisogno di gente che contribuisse
all’organizzazione e io avevo accettato.
All’epoca non avevo ancora un piano. Col senno di poi, credo che iniziò tutto con lui, con il suo insistere quella sera,
offrendomi una possibilità che poi avrei sfruttato per scopi
personali. Per questo gli sarò sempre grato. Anche perché ha
avuto ragione: quella sera, al terzo bicchiere e con gli occhi
acquosi, mi aveva detto: «Ci divertiremo. E poi, magari, conosci qualche donna…».
Ed effettivamente era andata proprio così: arrivò una donna.
Gli sorrisi.
«Certo» risposi, pur sapendo bene che non sarebbe stato
il solito giorno della marmotta. Prendemmo un caffè e ci separammo. Avevamo compiti ben precisi e il mio era quello di
salire verso il centro storico, aprire la mostra che celebrava
il cinquantesimo anniversario della festa e sostare al suo ingresso a fare da controllore.
Attraversai la piazza: un quadrato perfetto pavimentato con
imperfetti quadrati di porfido su cui si affacciavano due caseggiati di appartamenti. Alte tre piani, con le mura color zabaione e balconi ornati da piccole piante, quelle costruzioni
troneggiavano su ciò che nella quotidianità era un parcheggio
senza strisce. Per pochi giorni all’anno, la piazza si trasformava, diventando il punto di ritrovo dei visitatori, l’accesso alla
festa. La parte centrale era lasciata libera per il passeggio,
mentre ai lati erano sistemati punti di ristoro e stand espositivi.
Percorsi la striscia di cemento nero che tagliava orizzontale
il prato al termine della piazza, per arrivare sul marciapiede
da dove iniziava la pavimentazione del centro storico: una
moquette di sassi provenienti dal fiume che scorreva a est del
paese.
Su quei ciottoli levigati, che sembrano palline da imballaggio durissime, il piede era costretto a adattarsi o soccombere.
Non c’era festa in cui qualche incauta donna, restia a rinunciare ai tacchi, non subisse un trauma o una lieve distorsione
alla caviglia.
E poi eccola, la Rocchetta: il mio palcoscenico per quel giorno.
Come spesso mi capitava, non potevo fare a meno di notare
la sua imponenza. La sua eleganza maestosa mi colpiva sempre. Mi fermai a guardarla per qualche secondo, come per ingraziarmela. Potrei anche aver detto una specie di preghiera,
ma questo non lo ricordo. La fortificazione, costruita a difesa
della popolazione che secoli prima viveva stipata nelle viuzze
del centro storico, era ora il monumento principale, il simbolo e il vanto del paese, oltre che l’immagine riprodotta sulle
poche cartoline che si trovavano in vendita con la scritta “Saluti da…”.
Guarda, ne ho proprio qua una. Un cimelio, un ricordo. Guarda la torre alla sua sinistra, la cosiddetta torre ettagonale, con
sette lati. A me è sempre sembrata la copia in scala cento a
uno del mio pezzo della scacchiera preferito. Oppure una caffettiera. Questa che chiude il lato destro della fortificazione
si chiama “torre levatoia”.
Mi ha sempre ricordato una specie di mostro di pietra incastrato nella costruzione, due occhi tristi al posto delle arcate
superiori dove all’epoca si trovavano gli argani per sollevare il
ponte, la volta dell’ingresso al centro storico come una bocca
spalancata in un grido di orrore. Queste che sembrano finestre, invece, si chiamano “arcate” e stanno sul frontone che
collega le due torri. E qua sotto, ma nella foto non si vede, sotto questo basso e sottile parapetto, c’è un fossato, che mille
anni fa ospitava un corso d’acqua a difesa dell’ingresso; adesso, invece, c’è un lenzuolo verde punteggiato da piccole margherite che scende a strapiombo verso la costruzione.
Sopra, infine, svetta il tetto di tegole di un marrone scuro,
su cui proprio quel giorno notai sparuti ciuffi di erba, come
se fosse una barba sfatta, come se la Rocchetta si fosse stancata di stare lì. Chissà come erano spuntati, là sopra, quei fili
incolti. Non avrebbero dovuto esserci nemmeno le tegole, ma
queste erano un’aggiunta moderna necessaria. Non ci fossero state, avrebbero lasciato la Rocchetta nuda, in balia degli
eventi.
Sapessi quante volte sono entrato in quella bocca, in tutti
gli anni passati al paese. E la riattraversai ancora, dall’ingresso al centro storico. A un lato era appesa la locandina della festa. Una coccarda colorata di oro scintillante vi campeggiava
al centro, la scritta “Cinquantesima edizione” la adornava in
un allegro corsivo. I lembi della coccarda scendevano lungo la
locandina ad abbracciare il disegno dell’emblema del paese,
la rocca medievale, disegnata come fosse uno schizzo a carboncino fatto da un designer, i profili delle guglie appena accennati. Trovai come sempre sgraziato l’accostamento fra la
coccarda che pareva uscita da un numero di Topolino e il disegno troppo futuristico. «Simboleggiano il passato e il futuro»
aveva detto qualcuno. Avevo espresso i miei dubbi tra me e
me, in silenzio, senza dire nulla. Attraversai il cortile interno
dietro alla Rocchetta, uno spiazzo di dieci metri quadrati su
cui si affacciavano le piccole finestre di due case disabitate, e
poi salii per la via lastricata di ciottoli che portava alla parte
superiore del centro storico.
Ai lati della via si alternavano bancarelle di dolciumi e cibarie che spandevano le loro zaffate golose, e spazi dove si mostravano i cosiddetti antichi mestieri: una rappresentazione
della vita contadina di un tempo, un quadro vivente che era
una preziosa risorsa di memoria collettiva, un commovente
“come eravamo” accompagnato dai sorrisi di figuranti over
cinquanta.
Donne con ampie gonne e fazzoletto in testa, uomini con
larghi pantaloni di lana grezza, camicie a quadretti e fazzoletto al collo, ripetevano gesti che non esistevano più. Vidi modellare vasi di terracotta con le mani, cardare la lana a mano,
cuocere pagnotte, lavare mutandoni in tinozze di legno. Udii
il ticchettio dei ferri da maglia che costruivano piccole geometrie per sciarpe di lana grossa, il ritmico colpire di mazze
da fabbro e scalpelli per scultori, lo scalpiccio sugoso di uva
pestata coi piedi e il rumore secco di asce contro pezzi di legno. Il tutto unito da canti che erano inni alla vita contadina
o canzoni di una resistenza quasi dimenticata, le ugole delle
donne vibranti di passione e acuti, gli uomini a fare un controcanto potente. Salii la rampa che conduceva alla sommità
del centro storico con un groppo in gola. Non andava bene.
Un senso di colpa prese a strisciarmi dentro a ogni passo, a
ogni sguardo che incrociavo. Pensai che era un peccato rovinare la festa a quelle persone che gioivano nell’interpretare
lavoratori del passato, ma non avevo altra scelta.
Certo, c’è sempre una scelta. Avrei potuto lasciar perdere
in qualunque momento, godermi la domenica, contribuire
alla festa e continuare la mia vita, ma quella non era più una
scelta possibile, anche se un dubbio sottile mi accompagnava, come un velo di sudore sulla pelle. Insistente, indesiderato. Una domanda retorica, che serviva a rafforzare la mia
convinzione. Avevo bisogno di coltivare il dubbio per non
averne uno.
Era giusto? Sto facendo la cosa giusta? Non mi rispondevo
mai, la risposta era già stata elaborata.
Arrivai in cima alla salita, sulla destra la chiesa, sulla sinistra un’aia, un grande prato al cui limitare svettava una torre:
il guardiano del paese.
Un parallelepipedo che si innalzava austero. Sulla sua sommità, dove ora c’è un orologio, un tempo sostavano guardie
probabilmente annoiate dai lunghi turni, a perlustrare con lo
sguardo i campi intorno al paese, in cerca di nemici in avvicinamento.
Mi fermai a inspirare il profumo dell’erba tagliata.
Alla sinistra della torre c’era il palco che avrebbe ospitato il
cerimoniale del corteo storico, l’evento principale della giornata. Appoggiai le mani sul freddo muro di cinta che stringeva i bordi del centro storico e, come una guardia medievale,
perlustrai l’orizzonte. Le basse colline sullo sfondo, i tetti delle case dove molte persone si stavano svegliando, prendevano
il caffè, si vestivano per andare alla festa. Avrei rovinato la
loro domenica? Chiusi gli occhi, accettando la calda carezza
del sole, cercando di non pensare a niente. E poi, una voce conosciuta.
«Oh, ci sei tu ad aprire?»
Mio zio. Giacca e cravatta marrone, fin troppo elegante per
la sua età, si avvicinò con quello sguardo malizioso che aveva
sempre quando mi incontrava. Nella mano sinistra un quotidiano, nella destra il catalogo della mostra. Era un quadernetto, appena più piccolo di quelli che si usano a scuola, composto da una ventina di pagine.
La copertina era bianca con il titolo color vinaccia e una
piccola foto di un gruppo di volontari di una festa recente; sul
retro un’immagine speculare ma seppiata coi volontari della
prima edizione. All’interno, un’esplosione di colorati loghi di
sponsor introducevano il classico saluto del sindaco, seguito
poi da una breve descrizione della mostra:
Riproponendo immagini scovate negli archivi di ogni casa
o nei cassetti di ogni appartamento, video amatoriali, memorabilia curiose, vorremmo creare un piccolo ma significativo
monumento per omaggiare il cinquantesimo anniversario
della nostra festa con l’obiettivo di fissare la memoria storica
del paese attraverso il suo momento di aggregazione principale.
Alla Rocchetta c’erano la sezione video e le immagini più
recenti, tutte a colori. All’interno della Torre le foto in bianco
e nero ricordavano le edizioni precedenti gli anni Ottanta.
Dal campanile della chiesa udii il rintocco delle nove. Uno
stormo di passeri che becchettava sul prato non si mosse. Lo
zio le edizioni della festa le aveva viste tutte. Adesso si trovava da solo. Mio padre era morto anni prima, mentre da pochi mesi era scomparsa sua moglie. Ci salutammo, poi aprii
la pesante porta di legno e lo feci accomodare. Gli dissi che
poteva anche salire, che la mostra era tutta per lui. Mi rivolse
un sorriso striminzito.
«Sei un bravo ragazzo» sentenziò.
Me lo diceva sempre e sentii un nodo in gola. Non l’avevo
considerato, lo zio: per me era stato un secondo padre. Accesi
la luce della sala al piano terra ed eccolo lì, mio padre.
Appeso alla parete, al centro di una grande foto, se ne stava
in groppa a un asino. Giovane, bello, almeno a me sembrava lo
fosse, sfoggiava una blusa bianca sformata, una calzamaglia
nera e un sorriso di allegra sorpresa mentre si improvvisava
fantino di un asino che – era evidente – non condivideva il
divertimento delle persone intorno a lui. Stava passando in
mezzo a un gruppo di facce sorridenti che applaudivano la sfilata in quello che era noto come “il palio dei ciuchi”, una gara
discretamente competitiva in cui fantini improvvisati facevano il giro del centro storico cercando di far correre, a volte
spingendo, un gruppo di asinelli recalcitranti all’agonismo, in
tempi in cui le associazioni animaliste non erano nemmeno
un’idea.
Nella foto a fianco, l’immagine di un uomo che saltava per
prendere per il collo un’oca appesa a testa in giù. Barbaro, direbbe qualcuno. Altre epoche, dicevo io, come quella contadina, quando nacque la festa che si svolgeva allora unicamente
nella piazza, fra assaggi dei migliori vini prodotti nella zona
e giochi agresti come il palo della cuccagna, il tiro della fune
e la gara per imballare il fieno. Allora quella manifestazione
si chiamava “festa della mietitura” ed era nata per volere del
più ricco latifondista del paese che, per celebrare la fine del
lavoro nei campi, aveva organizzato una serie di eventi per i
suoi braccianti e gli altri abitanti del paese.
La festa era cambiata, nel tempo, aveva seguito le mode e i
corsi della storia. Si era cercato di mantenerla inalterata, ma
era inevitabile che avesse perso qualcosa. Forse la genuinità,
la purezza.
Lo zio si fermò davanti alla foto, mi sorrise e si avviò al
piano di sopra. Aveva provato a sostituire mio padre dopo la
sua morte – non tanto tempo dopo lo scatto di quella foto –
e devo dire che la parte di complicità maschile gli riusciva
piuttosto bene: i lunghi viaggi in macchina per vedere partite di calcio, le battute che rivolgeva a me e ai miei compari
di adolescenza quando ci trovava nei paraggi del bar che frequentava. La parte educativa non era stata proprio nelle sue
corde, invece, troppo intimorito da mia madre che preferiva
occuparsi di quell’aspetto, controllandomi fin troppo. Però
mi era sempre stato simpatico, uno di quei parenti per cui
si è contenti di fare i pranzi in famiglia durante le feste comandate. Ora però provavo un dispiacere anticipato. Inutile
e senza senso.
L’avrei deluso? E insieme a lui, quante altre persone? E poi,
quante domande avrebbe dovuto affrontare lo zio, dopo? Domande che avrebbe voluto evitare, di certo, insieme a sguardi
inopportuni, indagatori e insieme giudicanti.
La vita di paese ti chiudeva in una struttura ben precisa,
dove spesso le colpe ricadevano sui padri o, nel nostro caso,
sui parenti più stretti. Sarebbe diventato “lo zio di quello là,
quello che…”.
Chissà se mi avrebbe sostenuto. Per qualche secondo considerai la possibilità di illustrargli il mio piano, poi abbandonai l’idea, così come avrei voluto abbandonare quel piccolo
mondo fatto di strutture e di cose antiche da celebrare. Certo,
abbandonare. C’erano modi più semplici per farlo, ma il mio
sarebbe stato semplicemente spettacolare.
Il blister delle pastiglie vibrava nella mia tasca, ma presi
forza, aprii una finestra e tornai a immergere lo sguardo fra
le colline lontane. Il morbido profilo si stagliava contro il perfetto azzurro del cielo, riuscendo a placare i pensieri. Passai
la mattinata ad accogliere i visitatori della mostra. E intanto
ripensavo al piano, restavo concentrato. Mi aiutava la seconda locandina della festa, appesa dietro alla mia postazione di
guardiano della torre. Ritraeva l’attrazione della giornata: la
vedette, un’idea di Luca. Aveva ricevuto critiche ma non si
era perso d’animo. «Bisogna festeggiare, bisogna fare la cosa
in grande. Chiamiamo l’attrazione» diceva.
Sosteneva che avrebbe dato lustro all’edizione speciale,
celebrandola con un richiamo di sicura presa anche per le
persone che non conoscevano il paese. Aveva convinto molti, questuato lungo il territorio, trovando nuovi sponsor ingolositi dalla celebrità che poi giocarono al rialzo per apparire nella locandina, insieme a caratteri sbagliati e un senso
di celebrazione eccessiva. Se ci ripenso, lo trovo divertente
adesso, ma l’idea non mi era piaciuta. Pensavo che un volto
noto sminuisse il senso della festa. Sarebbe potuto sembrare, a un forestiero che leggeva di sfuggita, che si facesse festa
perché c’era l’attrazione. In ogni caso non parlai a Luca delle
mie perplessità, già altri avevano criticato l’idea. Nonostante
tutto, però, si era votato e la linea del mio amico aveva vinto.
Ed eccola, appesa a un muro, a guardarmi le spalle in quella mattina dove i minuti erano lunghissimi, stiracchiati
come gatti, nell’attesa della mia azione. La bellissima donna il cui volto sorrideva dal cartellone affisso da settimane
in compagnia del poster ufficiale della manifestazione. La
showgirl.
Il primo giorno in cui vidi la locandina, il mio piano stava
prendendo forma, eppure ebbi paura. Come se vedere quel
volto rendesse i miei intenti fin troppo reali. Per giorni evitai
con cura di incrociare lo sguardo con quegli occhi che riuscivano a essere insieme cordiali e sensuali. Mi soffermavo solo
a osservare i capelli lisci e scuri che incorniciavano quel viso,
per ora solo di carta. Avevo timore del momento in cui sarebbe divenuto tangibile, concreto. Mi immaginavo di sentirmi
addosso i suoi occhi, ma per i motivi sbagliati, e non era una
bella sensazione.
Poi compresi che poteva essermi utile e mi ritrovai a cercarli, quegli occhi. Come un allenamento. Me li sarei trovati davanti quel giorno e avrei dovuto rendere impermeabili
i miei. Per andare avanti. Per agire. Così, per giorni cercai il
suo sguardo di carta. Mentre guidavo, sui cartelloni lungo le
strade, mentre prendevo un caffè al bar, nella locandina sotto
al bancone, nei negozi, sulla copertina del programma della
festa. E anche adesso la guardavo. Mi giravo e la guardavo.
Quasi a sfidarla, anche se lei non sarebbe stata un nemico, ma
un mezzo per il raggiungimento del mio obiettivo.
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