Un fruscio, un leggero e distinto calpestio di foglie secche che venne dal nero cupo del bosco che inghiottiva con gli alberi quell’oscurità, fece girare la testa a Pierluigi, e lo spinse a indagare in quella direzione. Il confine tra l’asfalto illuminato dai lampioni della strada e il buio della boscaglia che la delimitava, era un tappeto di foglie secche. Le mani in tasca, il freddo vento di ottobre che dalle alpi scendeva a soffiargli sulla nuca e il passo svelto, Pier (come lo chiamavano tutti) non cedette al rumore e continuò allo stesso ritmo, deciso verso la sua macchina. Quella natura vicina, celata dietro il manto dell’oscurità, lo respingeva. Si sentiva osservato da piccoli e numerosi occhi.
Erano ormai giorni che si sentiva osservato specie di notte, quasi accerchiato, e quei pensieri erano la prova di quella strana ossessione. Da quando aveva provato la bevanda liquorosa del suo amico Francesco (Frank per lui e tutti i suoi amici), emergevano prepotenti dalle più recondite profondità della sua mente quei pensieri strani. Mentre camminava svelto, si voltò di nuovo verso il bosco per capire se le vedeva ancora: immagini di volti e profili di bestie spaventose che si proiettavano nei suoi occhi, e lui non si spiegava da quale oscuro anfratto del suo cervello provenissero. Erano talmente vividi, da procurargli palpitazioni accelerate, sudore freddo. Quelle fulgide immagini, gli si insinuavano in testa ogni qual volta provava a scrutare in un qualche anfratto buio nel cuore della notte. E così accadde nuovamente, quando provò a ficcare gli occhi nelle tenebre che avvolgevano gli alberi nel boschetto che costeggiava la strada.
Anche quella notte avrebbe dormito appena 2 o 3 ore. Ore tormentate dagli incubi. Era l’altro effetto della bevanda, quello di allungargli le ore di veglia, senza per questo farlo sentire stanco. E quegli effetti collaterali erano il prezzo da pagare per diventare una specie di animale notturno, fatto di puro istinto. Al calar del sole, quando il buio riempiva l’aria, dal suo petto Pier sentiva provenire un battito diverso. Se avesse potuto indagare nel centro della sua cavità toracica, avrebbe visto il suo cuore ipertrofico battere in maniera selvaggia, scosso da vibrazioni violente: se lo sentiva più grosso, più forte, pompare sangue con vigore mai provato. Anche le sue azioni sembravano più rapide e decise, potenti; i suoi sensi più sviluppati, i suoi occhi spalancati sul mondo iper-recettivi, quasi famelici. La notte gli conferiva una forza misteriosa che si impossessava di lui, liberando dal suo corpo energie sopite, facendo risvegliare in lui desideri impetuosi, pulsioni primitive. Era proprio ciò che gli serviva per domare quelle notti selvagge: perché di lì a poco, l’amico fidato di tante avventure lo avrebbe chiamato per servirgli su un piatto d’argento il programma dettagliato della nottata, un regalo a cui non si poteva rinunciare.
Si lasciava alle spalle anche per quel giorno il suo lavoro, per il quale dopo essersi laureato in ingegneria chimica con il massimo dei voti, era stato assunto al primo colloquio. Quello che sarebbe diventato il suo responsabile, si stupì di come Pier senza batter ciglio, gli illustrò per filo e per segno il processo di polimerizzazione delle schiume di poliolo-isocianato. Se lo era letto su una vecchia tesi di laurea scaricata prima del colloquio. Entrato in macchina aveva adagiato la sua borsetta da computer sul posto del passeggero del suo “bolide”, una grande Punto nera, accogliente per le sue conquiste fugaci. Pier era pronto ad affrontare la notte. Con il suo fascino da nerd, i suoi occhiali e i capelli neri, falsamente sregolati da strane ondulazioni, ancora nelle narici l’odore degli additivi e dei catalizzatori chimici usati per accelerare la polimerizzazione di quello stupido poliolo con quel fottutissimo isocianato. Ce l’aveva fatta anche oggi a resistere al giorno. Il giorno ruffiano e falso, con le sue ipocrisie, i suoi sorrisi forzati, le sue parole che è meglio non dire e i suoi gesti che è meglio non fare. Il giorno con le sue maschere grottesche e le sue frasi fatte, il giorno senza poesia e senza fantasia. Mentre la notte era senza fronzoli, la notte era sempre nuda, diretta, spudorata. Aveva atteso un altro giorno aspettando la notte, ed era già l’aria della notte che lo disintossicava dai fumi malevoli del suo laboratorio. Volse la testa all’insù e vide attraverso il parabrezza la tela di stelle che illuminava quel manto di catrame, e collegandole tra loro con dei segmenti immaginari non vedeva altro che esagoni regolari che gli ricordavano la struttura molecolare del benzene. Poi le catene di due esagoni legati da un gruppo CH3 davano vita al difenilmetano diisocianato, mentre da un altro angolo di universo ecco spuntare il toluen diisocianato con il suo esagono preso per mano da due gruppi NCO e dal solitario CH2. Gli rivenne in mente la sua insegnate vecchia e antipatica di chimica organica all’università e la sua voce gracchiante:
“Bene allora…perché non mi dice tutto quello che sa sui composti aromatici? Le do dieci minuti di tempo”.
Infilò le chiavi nel cruscotto e le ruotò con decisione, sentendo partire il motore, alzò il volume dello stereo su un assolo di Glen Tipton dei Judas Priest. Lasciò per un po’ che la fragranza dell’aria fresca riempisse tutto l’abitacolo della macchina prima di chiudere il finestrino e partire.
Sentiva, mentre andava, come un’ombra che lo seguiva, come due occhi a costeggiargli la macchina per tutto il suo cammino. Erano lì nell’ombra, tra la fresca e umida erba che cresceva al di là del guard rail, erano dietro di lui, gli occhi invisibili di un cane furioso e famelico, erano lì appena dietro il manto di foglie secche che costeggiava la strada proseguendo poi dentro gli arbusti oscuri. La voce di Rob “the metal God” lo accompagnava in quel delirio di immagini che erano nella sua testa come lo erano da giorni ormai: incubi che lo colpivano da sveglio, da quando il suo fidato amico Frank gli aveva fatto provare il Succo della Notte, la sua “pozione magica”. La paura era però il carburante, era la miccia accesa e il prezzo da pagare, era tutto questo e solo questo; era l’adrenalina sempre al massimo, il senso di pericolo che lo faceva andare oltre sé stesso, ma c’era pur sempre da stare tranquillo, perché era solo un effetto collaterale, uno scherzo della sua mente.
“O forse no? Sarà che non sia solo fantasia?”.
Quel dubbio restava subdolamente vivo nella sua mente, sembrava perseguitarlo. Schiacciò ancora più a fondo il piede sull’acceleratore come a voler sfuggire da quel pensiero. Mise la mano istintivamente nella sua giacca e impugnò il broncodilatatore, il suo “talismano” contro la paura, e si calmò. S’accorse poi d’una lieve dissonanza dietro l’intro cupa e malefica di “Night Crawer” (la sua preferita): era la suoneria del suo smart phone, sulla schermata lesse il nome del suo amico, puntuale ed inesorabile.
“Che tempismo! Cosa fai? Mi hai spiato?”.
Pier attivò il vivavoce, e dall’altro capo del telefono una grassa risata sguaiata gli rispose riempendo l’abitacolo della macchina.
“Perché mi sottovaluti sempre Pier? I miei occhi sono ovunque!”.
Pier a quelle parole ripensò alla sensazione che qualche istante prima lo aveva avvolto: gli occhi di un cane notturno rabbioso, puntati alla targa della sua auto.
“Ho grandi programmi per questa notte, ti voglio carico. Saremo a casa di un mio amico in San Salvario. Fuggi al più presto dalla periferia e vieni in città a casa mia. Di quella cosa, come ti ho detto, non ne parliamo per telefono ma ho sviluppi interessanti”.
Pier fece un lungo sospiro:
“Ora parli anche in codice, come un manager, non ti sfugge nulla, non voglio sapere cosa troverò stavolta a casa tua”.
“Non domandarti cosa troverai, ma chiediti chi troverai, e poi guarda che l’uomo in carriera sei tu. Dai bello, ti aspetto qua. Dai che stanotte spacchiamo tutto”.
“Sì, come no…arrivo manager”.
Pier chiuse la telefonata, alzò di nuovo il volume dello stereo e sprofondò leggermente nel sedile. Un sorriso gli comparve come un taglio ad allargarsi sul volto, gli occhi erano due biglie fredde e nere come la notte. Si chiedeva: “Cosa può andare storto questa sera Pier?”. Si rispondeva: “Nulla, oppure tutto. Chi può saperlo?”. C’era il Succo di mezzo, e sapeva che Frank lo avrebbe sperimentato anche sulle ragazze. “È un liquore come un altro! In fondo che male c’è”, si diceva.
“Non prenderti in giro, sai che non è così”.
“Infondo io cosa c’entro? È pur sempre opera di Frank!”.
“Certo ma tu potresti dirglielo…sai com’è lui…potresti impedirgli di fare cazzate…”.
“Sarà una bella serata, andrà tutto bene, ci divertiremo! Ci saranno anche delle ragazze…”.
“Chi ti dice che il Succo non prenderà il sopravvento…se Frank lo versa nei bicchieri…non sarai più tu a decidere come andrà la serata…”.
Pier alzò ancora di più il volume dello stereo, come a voler zittire la sua irritante coscienza. Ora cantava a squarciagola, insieme al suo idolo, mentre la sua macchina seguiva la via sempre più veloce, tagliandola come una lama affilata.
…Straight out of hell
One of a kind
Stalking his victim
Don’t look behind you
Nightcrawler
Beware the beast in black
Nightcrawler
You know he’s coming back
Night Crawler…*
Torino.
Corso Duca degli Abruzzi scivolava rapidamente dietro le ruote della sua macchina. Il largo viale era cosparso ai lati dalle foglie cadute dagli alti alberi che lo costeggiavano. La città, austera ed elegante, con i suoi palazzoni dalle facciate neobarocche e neorinascimentali, nella notte era un colossale mostro freddo e indifferente costellato di luci. Pier con la sua auto si muoveva agile lungo lo stradone. Superò il Politecnico facendo in tempo a buttare uno sguardo distratto al grosso cancello che delimitava il passaggio all’ingresso principale, sull’atrio che dava al cortile centrale con la siepe a “forma di infinito”. Il Poli a quell’ora, privo del via vai degli studenti, chiuso nella sua inconsueta solitudine, pareva sonnacchioso e stanco, come un vecchio professore disteso sul divano, con ancora indosso camicia e giacca. Erano finiti i giorni dei pomeriggi e delle notti passati sui libri, ed ora Pier guardava tutto quel tempo strappato alla sua gioventù migliore con un pizzico di sollievo.
Un giorno come quello, di un ottobre lontano, suo zio arrivò a casa sua, gli occhi gonfi di lacrime, il viso e il fisico provati come se avesse attraversato una foresta popolata animali feroci per raggiungerlo. Gli disse di prendere tutte le sue cose, e che quella notte avrebbe dormito con sua nonna. Un bambino come lui non sapeva ancora cos’era il lutto. I suoi genitori quel pomeriggio erano usciti insieme per andare in città a fare compere. Sua madre gli aveva preannunciato che la sera avrebbe cucinato il minestrone, e Pier aveva protestato. Non tornarono mai a casa quella notte. Niente minestrone. Fu un ubriacone, con una vecchia Ford Fiesta Turbo, a piombare a tutta velocità nella sua vita e nell’abitacolo della macchina dei suoi genitori; tutti morti sul colpo.
Bastò il tempo di un attimo.
Dopo quello schianto però, il tempo non si fermò; non esitò neanche un istante. Continuò stupidamente a scorrere come se nulla fosse accaduto.
Il tempo.
Fin da adolescente era stato affascinato dalla teoria della relatività di Einstein, e da sempre pensava al tempo e al suo ottuso, ostinato scorrere inesorabile, e ai buchi neri. Era affascinato dall’idea che potesse esistere il nero più assoluto, il nero più cupo, e che tutto dovesse precipitare e scomparire all’interno di quella singolarità dell’universo. Da ragazzo sognava di sporgersi oltre il bordo di un buco nero, camminare lungo il suo orizzonte degli eventi, là dove la forza gravitazionale è talmente grande da frenare lo scorrere del tempo. Si sarebbe messo a cavalcioni lungo il bordo, guardando la voragine di tenebre che inghiottiva al suo interno ogni oggetto, ogni fascio di luce che passava lì vicino. Avrebbe vissuto quello spettacolo con un bel sorriso a trentadue denti, conscio di vivere in un attimo eterno, laddove al di fuori di lui tutto passava e scorreva e cambiava. Lui no.
“Che stupidi sogni da ragazzino…”.
E ancora, se avesse viaggiato a una velocità prossima a quella della luce, pensava Pier da adolescente, anche così il suo tempo si sarebbe dilatato. Dall’oblò della sua navicella spaziale supersonica avrebbe visto le cose attorno a sé mutare, invecchiare, morire, per poi rinascere e invecchiare ancora, e lui si sarebbe fermato lì, in quel suo tempo sospeso, privo di dolore o di gioia, in uno stato di distaccata atarassia, come un dio dell’Olimpo, lontano dalla caducità delle cose. Era roba passata ormai, stupidi pensieri da ragazzino. Quella suggestione di sfuggire al tempo però, gli accarezzava ancora di tanto in tanto i pensieri. Così gli piaceva pensare che quella notte sarebbe durata di più se l’avesse cavalcata in velocità.
Semaforo rosso.
“Stupidi semafori…questa città ne è piena!”.
Fermo in coda, vide una scena che gli rallentò il tempo di nuovo. Una bambina lo stava fissando dal ciglio della strada. Era travestita da streghetta, con un lungo cappello nero sulla testa, una vestaglia dello stesso colore che cadeva come una gonnellina con il lembo inferiore strappato qua e là e coperta da finte toppe. Lo fissava, e con una mano lo indicava, mentre con l’altra teneva una scopetta di legno e paglia di riso.
“Me n’ero dimenticato…è la notte di Halloween!”.
Pier un po’ stupito di quello sguardo fisso su di lui, cercò di cogliere una qualche spiegazione, ma gli occhi della bimba erano come vuoti, e la sua mano, sebbene fosse diretta su di lui, gli sembrava indicare qualcuno o qualcosa più di sé stesso e più in là di sé stesso; quella mano che lo indicava non era tesa, ma più “distesa” in una posa plastica, come la mano di Gesù dipinta da Caravaggio nella “Vocazione di San Matteo”. Poi un’altra mano più grande prese quella minuta dalla bambina e la portò al suo piccolo petto, traendola indietro: era sua madre, che da dietro guardò Pier, ma il suo sguardo era invece timoroso, quasi preoccupato. Non fece in tempo a ricambiare un sorriso all’interesse della bimba, che un clacson lo riportò subito con gli occhi sulla strada, e al semaforo che davanti a lui accendeva una luce verde, così riprese il suo cammino.
Poi ripensò nuovamente alla bevanda di Frank e alla notte che lo aspettava. Quelle notti sembravano sempre le stesse e sempre diverse. Erano veloci come cavalli imbizzarriti. Il caos le governava con infallibile precisione, e il mistero di quella pozione si nutriva ingigantendosi di caoticità, ed essa stessa era causa dello stesso effetto: quello di far crollare la realtà nel caos. Non si sarebbe fatto trascinare in un’altra corsa spericolata però, gli effetti collaterali sarebbero stati troppo pesanti. Dopo ogni notte passata così, ogni qualvolta provava a dormire, la sua mente si riempiva di immagini crudeli provenienti da un mondo infame, popolato da creature diaboliche e scosso da insensate efferatezze. No, questa volta non avrebbe accettato quel veleno.
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