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La verità ha il sapore del mare

La verità ha il sapore del mare
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Consegna prevista Aprile 2024
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Nico, un giornalista trentenne sottovalutato e desideroso di dimostrare il proprio valore, si trova immerso in un mistero che supera di gran lunga le sue normali mansioni alla redazione di AllNews di Benevento. Quando la tranquilla libreria di Susanna diventa il fulcro di una scomparsa inquietante, Nico sente l’impulso di mettere alla prova il suo acume investigativo. Ma cosa succede quando un servizio giornalistico si trasforma in un vero e proprio caso di polizia?
Accompagnato dalla fotografa esuberante Teresa e, suo malgrado, dal gemello ispettore Giuseppe, Nico si ritroverà a cercare risposte in luoghi insospettati, seguendo tracce di dolore e tradimento. Nel cuore dell’inverno, la verità può essere altrettanto fredda e impervia come il mare che lambisce le coste di Campomarino.
“La verità ha il sapore del mare” è un giallo che esplora le profondità dell’animo umano e interroga sulla vera essenza della giustizia in un mondo di illusioni.

Perché ho scritto questo libro?

Nel mio lavoro affronto quotidianamente stress e decisioni gravose. Ho scritto “La verità ha il sapore del mare” come rifugio creativo da questo peso. Le sue pagine incarnano libertà e sollievo, offrendo spazio alle mie idee lontano dalle pressioni della realtà. È un omaggio alla mia città, Benevento, e un viaggio nei suoi misteri. Questo libro non è solo un prodotto della mia mente, ma il luogo in cui la mia anima trova pace. Spero possa offrirvi la stessa sensazione di scoperta e libertà.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Lunedì 2 febbraio

«Che palle!».

La mia flebile voce da oltretomba, di sicuro profumata di sostanza organica in decomposizione, rompe il silenzio della camera. «Ci risiamo. Ricomincia la giostra…».

Ore 7:25 di un altro anonimo e depresso lunedì mattina. Fisso per un attimo l’orario rosso lampeggiante dopo aver silenziato per quasi mezz’ora la sveglia. A lato, sul comodino, cinque lattine da mezzo litro di birra Strong Ale da nove gradi all’ombra. Mi trascino letteralmente fuori dal letto e senza nemmeno aprire gli occhi mi ritrovo davanti al lavello del bagno. In uno stato di semicoscienza accendo la lucetta dello specchio e con uno sforzo energetico sovraumano apro gli occhi, che vengono trafitti da quel freddo bagliore led. Un’ombra si materializza davanti a me, man mano sempre meno spettrale.

«Cazzo Nico, siamo in forma oggi, eh?!»

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L’unico momento in cui riesco davvero a guardarmi in faccia senza mentirmi è quando faccio la barba. In quell’attimo non esistono maschere che reggono, convenzioni al servizio di quella che gli altri chiamano società civile. Proprio allora, quando il mio volto mi fissa incredulo, come stentasse a credere di appartenermi, provo l’impellente bisogno di dirlo di nuovo, una vera esigenza esistenziale.

«Che palle!»

Stavolta meno roco, più di petto, quasi urlato. Riflettendoci, un’espressione capace in così pochi caratteri di riassumere uno stato d’animo maturato in trentacinque anni di sbattimenti vari. Lì, anche se solo per un istante, la mia mente si apre e il dono della Verità mi pervade. E capisco. Capisco il senso di tutto. Il mistero della vita, la misera nullità umana persa nell’infinito del cosmo, l’infondata percezione dello scorrere del tempo… già, tutto scorre, Panta rei!

Almeno fino alle 7:28.

Perché ogni santa mattina, festivi compresi, alle 7:28 il cane della vicina inizia ad abbaiare. E non c’è filosofia che regga. Abbaia di continuo, come se qualcuno gli avesse dato un calcio ben assestato nei coglioni, cosa che farei volentieri io. Odio i vicini, e lamentarmi del loro cane darebbe il via alle ostilità. Non ho alcuna intenzione di intraprendere una guerra di trincea tra le mura della mia dolce casetta, unico angolo sereno che mi rimane. Una duty free area in cui valgono, nell’ordine, le mie leggi, le leggi della fisica, le leggi della fame. Con quella sveglia stonata che mi riporta alla realtà, tutti i pensieri si bloccano e riprendono il loro naturale e semplice corso. Inizio finalmente a farmi la barba, anche perché, l’unica cosa che scorre a vuoto è l’acqua calda, tanto da avere già un corteo di ambientalisti in sit-in sotto casa. Avverto improvvisamente la consapevolezza di essere come sempre in ritardo, cosa che inizia ad arrecarmi un fastidioso prurito su tutto il corpo. Da quel momento mi vedo allo specchio ma non riesco più a guardarmi davvero, sono solo io con il sapone da barba sul viso, incapace di andare oltre. Non scorgo nessun segnale extrasensoriale, se tralasciamo il giramento di maroni innescato dal latrato del cane. Continuo a fissarmi.

«Buongiorno Nico, il mondo ti aspetta!»

Buongiorno il cazzo. Sono passati appena cinque minuti e il mondo non ha perso tempo a dare un’acceleratina al moto perpetuo delle mie parti basse! Un vero accanimento.

“Ma dico io, perché ho una memoria di merda. Eppure, sabato avrò ripetuto almeno cento volte: Nico, sta finendo il caffè, compralo o lunedì ti ritroverai come un deficiente ad aprire tutti gli sportelli della credenza sperando che qualche entità soprannaturale te ne faccia comparire un pacco! e io ovviamente ho dimenticato di comprarlo”.

Mi sono messo alla sinistra della mia misera e banale cucina di tre metri lineari da 980 euro pagata in dieci comode rate TAN e TAEG 0% e ho iniziato ad aprire come un invasato, procedendo verso destra e dall’alto in basso, tutte le ante in sequenza. Desolazione più totale. Uniche tracce di materiale solido commestibile: un vasetto di maionese semi vuoto e con un sorprendente quanto scoraggiante colore verdognolo fluo nel frigo; una scatoletta di tonno scaduta nel 1998 con tanto di confezione di grissini per tagliarlo, suppongo ormai mummificati; confezione di sale fino iodato.

Mancava solo l’ultima anta: lì mi sono giocato il tutto per tutto. Dopo un respiro profondo guardando verso il cielo, ho chiuso gli occhi e ho aperto di scatto.

«Pacco di polenta Valsugana!»

Ho richiuso il mobile.

Sono stato a fissarlo per un tempo indeterminato. L’ho riaperto di scatto.

«Pacco di polenta Valsugana? Che diavolo ci fa a casa mia?» Ho richiuso immediatamente, quasi per paura che scappasse. Dopo lo shock iniziale, mantenendo quel costante senso di vuoto che mi accompagna, sono tornato in camera.

«Io senza il caffè la mattina vado nel panico. E sto pure di fretta! E tu piantala di fissarmi!» con un raptus ho afferrato la sveglia dal comodino e l’ho chiusa nel cassetto. In quell’istante ha ripreso a suonare. «Sì, sì, ho capito, colpa mia, lo ammetto».

L’ho liberata dalla sua prigione, riposizionandola al suo posto.

«Devo finirla di spararmi lattine di birre la sera come se non ci fosse un domani. Ho pure un terribile mal di testa…» Facendomi strada tra biancheria seminata a spaglio, lattine di birra vuote, carte piene di appunti scritti in maniera incomprensibile a me stesso, ho iniziato quella serie di manovre stereotipate e afinalistiche volte alla ricerca di un paio di dannati calzini puliti. Per fortuna la banalità della mia vita, e il mio stipendio, mi avevano consegnato una camera con pochi anfratti da ispezionare: un letto con comodino alla sua destra, armadio a due ante con quattro cassettoni sul lato opposto e una scrivania con sedia di legno pieghevole stile pic-nic. Mi sono ritrovato, come ogni santa mattina, a rovistare nella stessa sequenza: cassetto del comodino, poi cassettone dell’armadio, poi sotto il letto, poi di nuovo cassetto del comodino…

«Mi arrendo. Dichiaro chiuse le ricerche, missione fallita!»

Seduto sul letto, ne ho afferrato due a caso sotto di me.

«Dopotutto questi calzini sono ancora passabili, si sente il fresco profumo di lavanda…» li ho sniffati. «Oddio, un leggero giramento di testa, diciamo più tendente al sottobosco autunnale…» Mi sono vestito casual, nel senso vero del termine, ovvero a cazzo, prendendo abiti sparsi qua e là. All’ingresso ho afferrato a volo la borsa monospalla di pelle sul mobile e allo specchio ho sistemato i capelli con un paio di passate di mano, guardandomi ripetutamente da tutte le angolazioni possibili.

«Eccomi pronto, pettinatina di ordinanza, et voilà! Che ore si sono fatte, le 8:00 in punto. Benissimo, abbiamo tutto il ritardo per andare al bar di Luigi qui sotto e sorseggiare quella sua ciofeca marroncino cagarella. Andassero a fanculo in redazione, tanto, si lamenteranno lo stesso quindi, ‘sti cazzi. Caffè, sto arrivando!»

E pensare che fin da ragazzino ho sempre voluto fare il giornalista! Già mi vedevo inviato in qualche luogo di guerra a stretto contatto con le truppe di liberazione del popolo oppresso di turno. Sporco di grasso in viso alla Rambo, con i vestiti tutti strappati e armato solo di penna BIC rigorosamente nera – perché va bene tutto, ma la penna deve essere sempre nera – elmetto modello jungle e Ray-Ban aviator verde scuro, i classici a goccia alla Top Gun per intenderci. In prima fila a saltare da una trincea all’altra, a schivare il fuoco nemico tra le macerie di una città in fiamme dopo un bombardamento, a portare alla luce lo schifo della guerra, la miseria umana, il grido di terrore dei bambini rimasti orfani che lacerano il cuore con il loro straziante sgomento. Pronto a dare voce a chi, in una guerra, non viene nemmeno preso in considerazione. E tutto questo lo avrei fatto per il solo senso di missione che il giornalismo aveva per me: la verità al servizio di tutti, soprattutto dei più deboli e martirizzati.

Non la pensava proprio così mio padre. Non ha fatto altro che scoraggiarmi dall’inizio. Ogni volta che gli dicevo di voler diventare giornalista mi attaccava: «Che razza di lavoro sarebbe? Giornalisti… persone che speculano sulle sciagure altrui credendo di essere i custodi della verità! Facile giudicare da fuori…» Ma non mi sono mai arreso e gli rispondevo: «Un giornalista non giudica! Un giornalista espone solo i fatti! Dà gli strumenti necessari al lettore in modo che possa crearsi un’opinione senza pregiudizi». Ottima teoria, e invece eccolo il mio scenario di guerra: una stanza con le pareti bianche, luci a led freddi che neanche nelle mense ospedaliere, due piante finte che dovrebbero essere delle copie mal riuscite di Ficus Benjamin ma che sembrano delle mazze di scopa con un mocio verde tutto spelacchiato, una finestra che dovrebbe concederci della luce ma che a stento filtra un po’ di grigiore di questa città fredda e anonima. Un bocchettone dell’aria condizionata centralizzata che butta la stessa temperatura con lo stesso tasso di umidità ventiquattro ore al giorno, trecentosessantacinque giorni all’anno. Fuori potrebbe essere Ferragosto o la Vigilia di Natale e dentro ci sono sempre ventidue gradi al quaranta per cento di umidità.

Una volta sono uscito dalla redazione con una t-shirt e mi sono reso conto di essere in pieno inverno solo quando un tizio in impermeabile beige si è avvicinato dandomi un bigliettino da visita e si è allontanato. Gli ho dato un’occhiata: Prof. Dott. Lodovico Mainardi, Psichiatra e Psicoterapeuta. Perché qui dentro dopo una giornata al computer vivi in una sorta di rincoglionimento totale, uno stato di trance ipnotico da cui nessuno viene a svegliarti. Per fortuna hanno inventato la vescica e ogni tre ore ti ridesta l’impellenza di andare al cesso. Se fosse per il grande capo ci farebbe cateterizzare tutti, così da non perdere tempo e far uscire articoli a ritmo di popcorn. Per non parlare della pausa pranzo. Un sandwich infilato in bocca senza soluzione di continuità, senza masticazione e giù di colpo. E dopo quattro ore te lo trovi ancora lì, a farti compagnia, come un sincero amico che non ha voglia di lasciarti solo. Qualche volta nel pieno della mia follia ci parlo pure, con il mio bel sandwich tonno e maionese del distributore.

«Nico, sveglia! Sto ancora aspettando il tuo articolo. Se non me lo invii entro mezz’ora puoi dimenticarti il rinnovo del contratto e torni a fare volantinaggio».

È lui, il grande capo, Giorgio Verdino, il terrore della redazione. Almeno lo è per noi comuni mortali in ufficio, perché invece per i suoi pupilli è un angioletto custode premuroso. Anzi, un putto cicciotto premuroso. Alto poco più di un metro, largo altrettanto, si potrebbe definire… un barilotto con le gambe? Corte anch’esse ovvio, che fuma sigari dozzinali per il solo gusto di intossicarci tutti con la nube di puzzo che spara dalla sua bocca con sapienti sbuffi ritmici. Il Brucaliffo a me, a dirla tutta, non fa terrore, scassa solamente le palle.

«Mica male!» ho risposto con la mia solita aria superficiale. «Almeno tornerei a stare un po’ all’aria aperta, visto che qui non mi inviate mai a fare nessun servizio, un reportage, un’inchiesta, che ne so, neanche un po’ di adrenalina…»

«Se vuoi ti invio io, ma a calci in culo così senti che adrenalina ti sale!»

«Sì sì, ho capito, avrai il tuo articolo, coglione…»

«Prego?» ha farfugliato.

«Sì, fai bene, prega! Il Signore è misericordioso…» e l’ho lasciato lì con la sua faccia tremolante da ebete mentre sgranocchiavo un pacchetto di arachidi tostate e salatissime, una delle tipiche colazioni rimediate dal nostro scarno distributore. Mi sono ritrovato come sempre davanti al pc, nella solitudine più completa.

«Ma a chi interesserà mai sapere perché diavolo un vecchio settantenne ha bisogno di innamorarsi ancora! Andassero a godersi la pensione in una bella casa di riposo, sai quanti tornei di burraco! Com’era? Reportage, inchiesta. ‘Sto cazzo Nico, blog di vecchietti, questo ti meriti. Anni di studio, pure il master con tanto di stage. La verità è che il coglione sei tu, mio caro, arrenditi all’evidenza!»

«Vedo che parliamo da soli, andiamo bene…» È sbucata dalla mia porta una testa minuta con quattro capelli bisunti e pettinati a riporto, viso bianchiccio e occhiaie livide che affossano in maniera eccessiva uno sguardo spento.

«Lorenzo! Ti sembra il modo?» Era il mio vicino di ufficio, il classico inetto raccomandato che appesantisce le mie giornate.

«Sicuro di stare bene, Nico?» mi fa dopo avermi guardato con la sua classica espressione da snob.

«Non si bussa?»

«Ma come fai a mangiare quelle noccioline piene di sale e grassi saturi ogni mattina?»

«Ma tu non hai un beep da fare?»

«Un beep cosa?»

«Lo vedete? Io provo a non essere volgare, ma voi proprio non mi aiutate! Un beep voleva essere una sorta di censura stile televisiva alla più consona espressione di disapprovazione che probabilmente si avvicina maggiormente alle vostre facoltà mentali primordiali…»

Mi ha fissato in silenzio con quegli occhi incavati, sembrava un condor.

«Riformulo l’espressione, Vostro Onore». Ho schiarito la voce per aumentare il tono da sberleffo: «Lorenzo caro, ma tu non hai un cazzo da fare? Spero che adesso ti sia più chiaro…»

Ha sbattuto la porta.

Appena terminato l’articolo mi sono avviato mestamente verso la stanza di Giorgio. Un piccolo corridoio di pochi metri ci separava. Stavo per entrare quando di colpo mi sono fermato, infastidito dalla sua presenza. Seduto sulla sua poltrona girevole di finta pelle, era di spalle alla porta e data la statura non si vedeva nemmeno la sommità della testa sbucare dallo schienale, ma solo la solita nuvola grigia nauseabonda salire in tanti vortici verso il soffitto. Sembrava il Dottor Gang, il cattivo de L’ispettore Gadget, gli mancava solo un gatto da accarezzare. 

«Già finito, Nico?» mi ha fatto senza degnarmi di uno sguardo. «Di sicuro sarà uno dei tuoi soliti articoletti scritti tanto per… Non riesco ancora a capire perché ti abbia accettato nella mia redazione». Parlava in modo posato, profondo, e le lunghe pause, riempite dalla fumata lenta e corposa, davano un tocco teatrale a tutta la scena. «Hai visto tuo fratello? È su tutte le prime pagine dei giornali. Ennesima operazione magistrale condotta dall’ispettore Giuseppe Cambi» ha recitato a braccio continuando a fissare fuori dalla finestra. «La verità è che tu non eri pronto e, forse, a pensarci bene, non lo sarai mai…»

A quelle parole si è palesata davanti ai miei occhi una scena che pensavo di aver rimosso…

 

2023-07-04

Aggiornamento

🎉 CELEBRIAMO INSIEME! 🎉 Siamo veramente senza parole. In sole 48 ore, grazie al vostro entusiasmo e al vostro supporto, abbiamo raggiunto il nostro primo obiettivo di crowdfunding per la pubblicazione di 'La Verità ha il Sapore del Mare'. È stato davvero emozionante vedere la vostra risposta e il vostro amore per questo progetto. Non possiamo che ringraziarvi di cuore per aver reso possibile tutto ciò. Ma non fermiamoci qui, abbiamo ancora tanta strada da fare insieme! Il viaggio continua e la campagna non si ferma. Ora abbiamo l'opportunità di raggiungere traguardi ancora più ambiziosi. Invitiamo tutti coloro che non hanno ancora partecipato a unirsi a noi in questa entusiasmante avventura. Grazie ancora per il vostro incredibile supporto e per aver reso tutto ciò possibile. Continuiamo a scrivere insieme questa meravigliosa storia! 📚🌊

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Giuseppe Sorda
Giuseppe Sorda, nato nel 1981 a Benevento, è un medico anestesista e CEO di un’azienda MedTech. Grande appassionato di gialli, dopo averne letti a centinaia, ha scelto di cimentarsi con la scrittura. “La verità ha il sapore del mare” è il suo primo romanzo.
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