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La verità di un filo d’erba

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È il 1888, Vincent van Gogh arriva ad Arles per inseguire la sua verità, il suo sogno: vivere della sua arte e creare una comunità di artisti che convivono, si sostengono e crescono insieme.

Questo romanzo racconta un frammento della storia di un artista, ma è anche il racconto di un uomo nella sua quotidianità ricca di incontri e di emozioni, di colori e di paesaggi che riempiono il cuore. Un uomo che vuole catturare la verità e la bellezza delle cose, che cerca in tutti i modi di salvare gli altri ma che non è capace di salvare se stesso. Un uomo, tremendamente sensibile e irrimediabilmente idealista, che si lascia consumare dalla sua arte, dai sentimenti e dalla vita; fino a ritrovarsi a dover ricominciare dalla semplicità di un filo d’erba.

Avevo l’impressione di essere in viaggio da due giorni, invece erano passate a malapena due ore. La verità è che non stavo più nella pelle. Sognavo la natura e gli spazi aperti fin dalla nascita, sognavo di dipingerli da quando il sole di luglio aveva sbattuto, impertinente, sulla mia fronte nuda mentre giocavo a nascondino tra gli alberi, a Zundert. Perciò, mentre lasciavo Parigi e il Nord, il 20 febbraio del 1888, non provai alcuna nostalgia. Sentivo che la natura mi chiamava, mi convocava imperiosa al suo cospetto. E dovevo darle ascolto, andare da lei. 

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Sul sedile di fronte a me sedeva un giovane dall’aria stanca e stralunata che non sembrava molto interessato a rivolgermi la parola. Ci lanciammo uno sguardo d’intesa solo quando entrò il controllore per sincerarsi che avessimo il biglietto. Fu un’occhiata veloce e discreta, complice. Una specie di sorriso. Ma diamine, nessuno dei due si sentiva in vena di sorridere. Entrava un freddo cane da quel finestrino. Lui stringeva fra le mani un libro orfano di rilegatura. E per quanto ci provassi, non riuscivo a leggerne il titolo in nessun modo. Il ragazzo era aggrappato a quelle pagine, mentre il mostro sferragliante ci portava a sud. Chiusi gli occhi, poi li riaprii. Il frastuono delle rotaie allontanava il mio sonno, e percepivo, alla bocca dello stomaco, come l’eco di un tonfo ogni volta che immaginavo Arles; alla stregua di un sasso che cade in fondo a un pozzo. Prima di imbarcarmi in quella nuova avventura avevo giurato a Theo, e lo avevo detto anche al mio amico Émile Bernard, che desideravo lavorare a più non posso. La sorte mi stava regalando la chance di vivere da artista e dentro di me bruciava il pensiero di Dio. Mi riscaldava il sangue. Vivere per lavorare, dedicarmi alla mia tela ogni giorno; come ogni giorno i minatori andavano a scavare sottoterra nel Borinage, e come i frati si dedicavano alla preghiera. Avrei condotto la mia vita come se mi fossi rifugiato in un convento. La fatica sarebbe diventata gesto quotidiano, come una preghiera, appunto. 

«Cosa legge, ragazzo?» 

I miei sguardi cadevano sul libro ormai con crescente insistenza, mi sentivo invadente, così preferii chiedergli il titolo. Sistemò il berretto che gli cadeva sulla testa formando un avvallamento; sembrava quasi gli fosse piombata una mela sul capo. Con frettolosa goffaggine mi guardò stupito e poi fece scivolare lo sguardo sul mio naso. 

«La colpa dell’abate Mouret, signore.» 

Mi venne spontaneo asciugarmi il naso che non mi ero accorto colasse e poi sorrisi con ogni muscolo del volto. Quel ragazzotto ventenne, dalle guance rosse e la camicia sgualcita, teneva fra le dita, e forse un po’ se ne vergognava anche, uno dei miei libri preferiti di Émile Zola.

«Me lo ha regalato la mia Annette prima di partire. Sto andando a Tolosa. Torno a vivere da mio nonno, non posso più permettermi di studiare a Parigi.» 

Continuavo a pensare al libro mentre Thomas, questo era il nome del ragazzo, parlava. Lo avevo prestato a un mio caro amico qualche mese prima, e non lo avevo più riavuto indietro. 

Ero affezionatissimo a quelle pagine. Gliele avrei strappate dalle mani. Invece, fingendomi interessato al suo racconto, lo ascoltavo distrattamente, cogliendo per intero solo poche parole pronunciate in maniera esitante dal ragazzo, e accompagnate da un movimento del viso: un sopracciglio curvo, una lieve smorfia intorno alla bocca. Diceva: «Come ci si può amare a distanza? So che non la rivedrò più. La vita di campagna mi aiuterà a dimenticarla». 

E io, mentre udivo questi languidi spezzoni di frasi, rimuginavo sull’abate Mouret. Pensavo alla sua certezza nella fede, squarciata in due come si taglia una pera, dall’amore per una donna. Tutte le sue solide convinzioni: la canonica dove viveva, il senso profondo del perdono, della castità, Dio stesso; tutto spazzato via da un sorriso rosa tratteggiato delicatamente su un viso bianco latte. Dal profumo dei fiori che si levava nell’aria quando lei parlava. 

Mentre pensavo a tutto ciò, mi apprestavo a vivere la Provenza. Pronto a essere lacerato dalla natura. Rotto dai contrasti di luce che, come cavalli imbizzarriti, mi avrebbero sovrastato tutti i sensi, nessuno escluso. Mi avrebbero sfinito di pace e amnesie, ricoperto di petali e stelle. Nel terrore di poter perdere ogni piccola certezza acquisita fino a quel momento, ero attratto come fosse una calamita dal chiarore di quel sole che immaginavo immenso. Sognavo di sprofondare nella natura. 

«Se lo tenga stretto quel libro, ragazzo. E mi stia a sentire. Non lo presti mai a nessuno. I libri non si prestano, se lo ricordi bene. E lo legga tutto, fino alla fine. Alla sua età non si rinuncia all’amore, a meno che non si vada incontro a un altro amore.» 

«Lo ha letto anche lei?» 

«Sì, esatto. L’ho letto, l’ho vissuto, rigo dopo rigo. L’ho assunto, come se fosse una medicina. L’ho amato. Ho consumato anche le pagine vuote che stanno appese fra un capitolo e l’altro. Poi, scelleratamente, l’ho prestato. L’ho perso. E perdere un libro è un po’ come perdere l’amore, alle volte. Non servirebbe a nulla ricomprarlo.» 

Lui mi sorrise con un garbo gentile che gli segnava dolcemente il viso all’altezza degli zigomi. Continuava a parlare e gesticolava. Ogni tanto scandiva il suo intercalare con un breve “mi capisce?”, oppure “è chiaro, no?”, e io annuivo. Era stato sufficiente fargli una semplice domanda per innescare la chiacchierata, e in fin dei conti ne ero lieto. Aveva bisogno di sfogarsi e io di avere in sottofondo una cantilena che facesse da colonna sonora al mio lento scivolare verso Arles. Lento è dir poco. Quindici ore per arrivare, o giù di lì. Mi sembrava una coincidenza incredibile quella: proprio durante il mio viaggio verso quel nuovo me stesso, verso il futuro della mia carriera d’artista, sedevo di fronte a un ragazzo che teneva in braccio una delle mie più amate letture del passato. Gli scherzi della vita. Questo sogno del Sud non era ancora iniziato, e già mi piaceva. Decisi di alzarmi e andare a prendere un po’ d’aria, ma prima scambiai ancora qualche parola con Thomas, che mi chiese: «Voi dove state andando, signore?». 

«Vado verso un nuovo amore, ragazzo. Provenza, Arles. Sono un pittore. Diciamo che viaggio per lavoro. Non c’è niente di male ad avere paura. La intravedo nei tuoi occhi. Non è mai troppo tardi per accorgersi della fede, e non per forza quella che guarda alla religione. La fede come una ragione di vita, come la propria verità. Un amore, un prato fiorito, un barattolo di colori. Ognuno ha la propria fede. Tutto sta nel riconoscerla, inseguirla. Andare a cercarla, quella fede, con ogni mezzo, ad ogni costo. Ecco io sto andando a cercare la mia di fede e ho capito la mia colpa: amare l’arte. E vado a espiarla al sole.» 

Prima che Thomas si addormentasse, e non riuscissi neanche a salutarlo, decisi di dargli un tozzo di pane che mi ero incartato per il viaggio. Nessuno dovrebbe soffrire la fame, pensai. Specialmente quando si soffre per amore. Mi appoggiai al finestrino del corridoio. Tirai giù il vetro quanto bastava per sporgere fuori con la faccia, stanca di giorni lunghissimi. Il ragazzo mi aveva fatto tornare indietro nel tempo. Una freccia carica di ricordi appuntiti aveva trapassato il mio cuore come un lampo che inonda di luce un cielo carico di nuvole. Il mio pensiero era volato a Sien. All’amore che avevo provato per lei, a quel bisogno di tenerla fra le mie braccia, dandole calore e forza. Io, da sempre abituato a cercare calore e forza negli altri, grazie all’amore, ero improvvisamente diventato capace di donarli incondizionatamente. Stare accanto a quella donna e accudirla ogni giorno era così bello, rassicurante. Mi faceva sentire utile e importante. Ma quanta fatica; a volte avevo come la sensazione di camminare contro vento e carico di pesi. Non ero felice. Almeno non lo ero pienamente, e poi, adesso lo so, non sarei stato pronto a lasciare tutto per amore di una donna. Eppure ci avevo creduto veramente, mi ero visto felice con una famiglia piombatami fra capo e collo all’improvviso, e non sopportavo affatto le occhiate della gente, le maldicenze e i pettegolezzi con i quali ridicolizzavano la nostra storia d’amore. Quel mondo disgraziato, fatto di mere apparenze, andava troppo veloce per me. Era gonfio di falsità e perbenismo. Grazie a Sien avevo capito che l’unica risposta è sempre l’amore. Lo stesso incredibile amore che mi riempì il cuore quando mio padre mi fece recapitare a casa un pacco contenente un cappotto da donna. Disse che forse mi sarebbe potuto tornare utile a casa. Lui che non l’aveva mai accettata, non aveva mai capito perché avessi deciso di accollarmi una ex prostituta incinta e con un figlio già sul groppone; lui che si preoccupava tanto di cosa potesse dire la gente e di come avrei potuto trovare i soldi necessari per mantenere tre persone. Proprio lui, che aveva scandito di silenzi il chiaroscuro del nostro rapporto, si era premurato di offrirmi un dono così unico e commovente. Ecco, questo è l’amore. Innanzitutto, amore per il prossimo, per chi è più fragile e disperato. Così come lo era Sien quando la conobbi: persa e sola. Lacerata. Abbandonata a se stessa con un figlio a carico.

Il treno proseguiva la sua corsa. Il cielo plumbeo scorreva via veloce oltre il finestrino, entrando irrimediabilmente nel passato che non sarebbe ritornato; mi ricordava il cielo di quegli interminabili e freddi pomeriggi invernali del 1882. Mentre la pioggia cadeva copiosamente, le insegnavo a posare per me. Non era proprio capace, all’inizio. Malconcia, goffa, con l’anca che le doleva. Un equilibrio instabile del corpo che rispecchiava quello del suo umore, costantemente indeciso. Le espressioni erano sgraziate. E poi cocciuta, molto più di me… e ce ne vuole. La costringevo a ripetere, a non mollare, a mantenere una postura corretta. Anche a tavola, quel poco che era nel piatto lo divorava con voracità, curvandosi in modo innaturale. La riprendevo con ferma gentilezza, come faceva mio padre, con durezza, quando saltavo un rigo leggendo la Bibbia ad alta voce. Mantenni con Sien il medesimo rigore e cura, ma addolcii il mio rimproverarla con piccole e genuine dosi di premura e comprensione. Insomma, l’amore passava anche per quei momenti di intimità familiare. 

Divenne così brava a posare, alla fine. Una vera modella. Nel volto, la sofferenza, pian piano, si faceva solenne, fiera. Stava perdendo quel vezzo di piangersi addosso che le sporcava l’espressione di viltà. Ero così orgoglioso di lei. 

Poi tutto svanì. 

Con il passare del tempo, le litigate con la madre si erano fatte sempre più frequenti e l’invadenza del fratello, insopportabile. Spesso me li ritrovavo a casa all’ora di cena. A malapena eravamo in grado di nutrire il bimbo, e confesso che spesso saltavo il pasto pur di lasciare la mia parte a Sien. 

E loro venivano a cercare polemiche e un piatto caldo. Capii che qualcosa si stava rompendo, che il vero amore non lo avrei mai potuto trovare, almeno non in una donna. Iniziai a dubitare di lei. La famiglia viene sempre prima, è una cosa naturale, e Sien non avrebbe mai messo da parte i suoi, né io glielo avrei mai chiesto. Del resto, anche la mia, di famiglia, non mi faceva mancare le pressioni perché la lasciassi, e per quanto provassi – e giuro che ci provai – a tenere testa a tutte quelle rivoltanti raccomandazioni, minacciando persino di non volerli più sentire, in cuor mio sapevo perfettamente che mai avrei preferito lei a loro, se proprio mi fossi trovato costretto a decidere. Quando a svanire è la fiducia, nulla torna come prima. Non è una cosa che si può aggiustare facilmente, la fiducia. Dopo l’ennesimo litigio mi accompagnarono alla stazione: Sien insieme al fratello e ai suoi due figli. Temporeggiai. Le dissi che mi sarebbe servito del tempo per organizzarmi a Drenthe, e poi li avrei fatti venire. Era ottobre e il giallo delle foglie svolazzava in aria a ogni colpo di vento, disegnando piccoli cerchi irregolari. Sapevo che non ci saremmo più rivisti. Così invece della vita da operaio che ero pronto a fare pur di poter sfamare lei e le sue due creature – rinunciando persino ai soldi di Theo – scelsi Arles e il mio amore per la natura. Sposando la natura. Scegliendola come fedele compagna di vita. Giurando di rispettarla, e onorarla, a modo mio come meglio potevo fare. Con il pennello al posto della vanga, e i colori come semi pronti a germogliare di vita sulle tele bianche dei miei giorni. 

08 June 2022

DiMartedì

Questa sera a DiMartedì Giovanni Floris intervista Francesco Palumbo, autore di La verità di un filo d’erba. Qui il link alla puntata.
2021-08-26

Aggiornamento

Cari sostenitori, con emozione e gioia vi comunico che GRAZIE alla vostra incredibile partecipazione, 'La verità di un filo d'erba' ha raggiunto le 200 prenotazioni con un mese di anticipo. Il sogno diventa realtà, la mia storia ispirata all'arte e alla vita di Vincent van Gogh, approderà nelle librerie! Senza il vostro affettuoso e travolgente supporto, tutto questo non sarebbe stato possibile. Come sapete, ho reso le bozze non editate già disponibili, potete scaricarle e iniziare a leggerle. Fatemi sapere, nella sezione commenti di questa pagina, dove siete arrivati e cosa vi sta piacendo del romanzo. Adesso si guarda avanti, ai prossimi obiettivi. Potete continuare a supportarmi commentando, condividendo la possibilità di prenotare il romanzo. GRAZIE di CUORE a tutti voi e a prestissimo! Francesco
2021-07-22

Evento

Instagram @vangogh_daily Ciao amici, oggi pomeriggio pubblicherò sul mio account Instagram un breve video. Vi presenterò il sottotenente degli zuavi Paul Eugene Milliet che proprio a marzo del 1888 si trova in congedo a Arles prima di ripartire per una missione in Africa. Paul Milliet e Vincent van Gogh diventano amici nel segno dell'arte e della natura. Sono molte le lettere che testimoniano questa loro unione. Milliet si diletta nel disegno e chiede a Van Gogh di aiutarlo a migliorare. Tra grandi canneti, vigneti, fichi, olivi e cipressi centenari, i due disegnano ma discutono molto e animatamente sull’uso del colore. Paul rimprovera a Vincent di marcare eccessivamente le pennellate, lo invita a non esagerare con tutti quei gialli; Van Gogh se ne infischia delle critiche del militare, sente impellente la necessità di applicare il colore con tanta veemenza, deve farlo per esaltare la cruda bellezza della natura. Alla fine, i due stringeranno una splendida amicizia e si faranno reciprocamente compagnia. Seguitemi stasera e nei prossimi giorni per restare sempre aggiornati sul romanzo, https://www.instagram.com/vangogh_daily/ Grazie a tutti per il supporto!

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Ho prenotato il romanzo e già letto le bozze non editate. Mi è piaciuto tantissimo e non vedo l’ora di ricevere la copia cartacea a casa. Al di là delle descrizioni intense e ben scritte, leggere La verità di un filo d’erba mi ha permesso di viaggiare indietro nel tempo e catapultarmi in Provenza, fra campi di grano, notti stellate e girasoli. La storia è avvincente e lascia trasparire la sensibilità e l’ironia dell’autore! Certi dialoghi sono proprio spassosi!
    In ultima analisi, ho scoperto tanti aneddoti riguardo al periodo di Vincent van Gogh a Arles, pur non essendo particolarmente appassionato di arte, ho trovato alcune vicissitudini legate alla sua vita curiose e molto interessanti. Vale la pena supportare questo libro!

  2. fra.cost61

    (proprietario verificato)

    Una delle cose che più mi ha colpito in questo romanzo sono i dialoghi, freschi e credibili, che rendono realistico il romanzo. Dettaglio per nulla scontato per un autore emergente! Poesia, ironia, leggerezza e profondità movimentano la narrazione che sa di vita vera. Quando, con ritmo incalzante, l’autore illustra la fatica fisica e il sudore del protagonista mi è venuto il fiatone. Sorprendente il modo in cui sia riuscito a calarsi nell’anima di Vincent e a dargli voce. In ogni pagina Francesco ci ha messo cuore e intelligenza. E arte, la sua di scrittore. Per me questo libro è un gioiello!

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Francesco Palumbo
nasce a Roma nel 1981. Dopo il liceo classico, si laurea in Giurisprudenza. Durante gli anni universitari studia un anno a Bruxelles per il programma Erasmus. Specializzato in Risorse Umane, vive e lavora a Dublino per sei anni. Ritornato nell’amata Roma, coltiva con entusiasmo le sue passioni. E così scrive, sogna e viaggia, convinto come Vincent, che “prima si debba sognare e poi dipingere i sogni”. La verità di un filo d’erba è il suo romanzo d’esordio.
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