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In paesi come Trescate un vero e proprio amalgama sociale si realizza solo nel flusso di traffico che si condivide. Le lunghe colonne di auto e corriere in entrata e uscita dal paese sono gli unici momenti di condivisione all’interno della comunità. Per il resto, le connessioni tra le persone sono ridotte al minimo. I rapporti di vicinato spesso un fastidio o un’occasione per sfogare la propria invidia o frustrazione. Nell’equilibrio algebrico di Trescate la somma degli interessi individuali non costituisce quello collettivo.
Una volta non era così. O almeno è quello che si dice in giro. In questo marasma in cui imperversa l’autoreferenzialità, degli opinion leader di qualche anno fa, che fossero dottori, maestri o calzolai, si sono perse le tracce. Anche i preti, veri e propri riferimenti culturali per generazioni e generazioni, hanno smarrito il loro appeal. Come rock star ormai incamminate sul viale del tramonto, riescono a radunare attorno a sé solo l’attenzione di qualche nostalgico fan. In un tempo relativamente breve nuove logiche di marketing venute chissà da dove hanno soverchiato la tradizione imperante impedendo di fatto a “paese” e “parrocchia” di rimanere due sinonimi. Tutto questo lo so perché dalla mia nascita, esattamente trent’anni fa, ho sempre vissuto a Trescate. La prima bicicletta, l’oratorio, lo sport, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, il matrimonio, la macchina, il lavoro serio. Non dovesse essere sufficiente come curriculum, va detto anche che in quella brevissima parentesi in cui Trescate è sembrato essere il centro del mondo, io mi trovavo in prima fila. Insomma, percorso completo. O quasi. Perché, senza nessun rimorso, ho appena lasciato il mio paese d’origine, prendendo le distanze da alcuni tra i parenti più stretti, dai ricordi più significativi e dalle esperienze che mi hanno portato a essere quello che sono.
È stata l’occasione per provare a lasciarmi alle spalle anche via Cesare Battisti. Ammetto ci sia voluto del tempo prima di riuscire a fare chiarezza sulla questione. È che a Trescate non ci sono le targhe come nelle grandi città. All’inizio della via non trovi scritto, che so, Alessandro Manzoni scrittore o Wolfgang Amadeus Mozart musicista. Ci trovi semplicemente Cesare Battisti. Così per molto tempo ho creduto di abitare in una via dedicata a un brigatista, per di più ancora in vita. Benché lo trovassi strano, curioso quantomeno, non ho mai ritenuto di dover chiedere spiegazioni a qualcuno, perché discretamente affascinato dall’aspetto ribelle e illegale della situazione. Perciò sono rimasto ben volentieri a macerare nel dubbio: chissà a chi mai è venuto in mente di intitolare questo straccio di strada a un criminale. Perché di fatto è quello che è. Uno straccio di strada, intendo. Un ramo monco di via Cavour, sessanta metri scarsi di asfalto che si attorcigliano su stessi attraverso una rotonda dominata da un ulivo millenario. L’ennesimo fazzoletto agricolo brutalizzato dall’urbanizzazione selvaggia avvenuta nell’ultimo decennio. Argomento di discussione sempre valido per quella fronda di trescatesi fortemente nostalgica. Una di questi, mia madre, quando ha saputo che io e mia moglie avevamo scelto via Battisti come nido d’amore, non ha perso l’occasione per ricordarmi che una volta al posto della nostra casa c’erano solo campi di granoturco e che, da piccola, ci andava spesso con le sue amiche a giocare. Roba che a me viene in mente solo Guccini tra la via Emilia e il West e non riesco più a pensare ad altro. Può sembrare un pensiero da poco, ma è sufficiente a farmi sentire complice di quel progresso fuori controllo che si sovrappone senza scrupoli alla cristallina genuinità del passato. Un passato che agli occhi di mia madre è pura spensieratezza, ma che per noi oggi è solo un insieme di proprietà da custodire. Una decina di immobili che si guardano in faccia, con la sensazione di non essere visti da nessun altro. Perché in via Battisti non ci capiti per caso. O ci abiti, o sei venuto a trovare qualcuno che ci abita.
In quel tempo – lungi dal voler essere un incipit evangelico – io e Daniela, in via Battisti ci abitiamo. Al 10. Più precisamente, al primo piano di una villetta bi-familiare. Ingresso indipendente, riscaldamento autonomo, box, giardino e parabola. Un onesto standard middle class. Da quasi tre anni, dal giorno del nostro matrimonio, consumiamo la gomma delle nostre Birkenstock all’interno di queste mura. Ancora per poco. Tra qualche settimana infatti ci trasferiremo ad Arco, in Trentino. Ci sono treni che, è proprio il caso di dirlo, passano solo una volta nella vita. Non sappiamo di preciso dove ci porteranno e in che stazioni fermeranno. Sappiamo solo che non possiamo perderli. Anche se partiremo in auto.
In vista della nostra partenza, mia moglie ha avuto la geniale idea di organizzare una cena con tutto il quartiere. Potrebbe essere un bel modo per salutare quello spaccato di comunità che ci ha visto, non senza un certo disinteresse a dir la verità, diventare una famiglia. Potrebbe, certo. Forse ad alcuni potrebbe addirittura sembrare un gesto doveroso. In fin dei conti, cosa sarà mai?
Una cena. L’ultima, prima di incamminarsi verso una nuova vita.
Mercoledì
Questa sera Anna e Massimo hanno mangiato sotto il loro pergolato dando così ufficialmente il via alla stagione delle cene all’aperto. È stata Daniela a farmelo notare appena sono uscito dalla doccia. Senza riuscire a nascondere una buona dose di rammarico e invidia, dato che solitamente eravamo noi i primi nel quartiere a svegliare dal letargo gazebo e barbecue. Tormentato da qualcosa che non riuscivo a mettere a fuoco, più che dalla perdita del primato, sono rimasto a osservarli per diversi minuti. In accappatoio e ciabatte. Mi sono fatto distrarre dal fatto che entrambi, pur non avendo ospiti, vestivano elegantissimi. Per i miei standard, almeno. Ma credo anche per i vostri, quando cenate tra le mura domestiche. Lui in completo gessato. Lei con un tailleur color pesca in tinta col tramonto di questa sera. Probabilmente, ho pensato, di ritorno dal lavoro, non hanno ancora avuto il tempo di cambiarsi. Ma, allora, chi aveva cucinato? Non mi risulta abbiano mai avuto una filippina. Avete notato l’uso del verbo avere a sottolineare il concetto di proprietà riferito alla filippina? Vi disturba? Spero di sì. Comunque. Forse era sushi da asporto? Allora potevano fare con calma, mica si fredda, il sushi. Quello che mi ha sorpreso più di ogni altra cosa è che, nella parentesi in cui sono rimasto a spiarli da dietro la finestra, e cioè per tutto il tempo di cottura di quello che ho scoperto essere risotto, non si sono mai rivolti la parola. Lei troppo impegnata a sorseggiare a più riprese un calice di bollicine che sembrava non finire mai. Lui troppo preso a riempire di parole il cellulare.
Mi si perdoni una brevissima ma necessaria digressione. Forse non è la prima. Giusto per avvisarvi, di certo non sarà l’ultima. Credo che il tempo di cottura del risotto debba diventare unità di misura universale. Potrebbe quantificare il tempo che occorre per preparare una tavola per due persone, scegliere il vino giusto da abbinare, grattugiare il parmigiano, dare un’occhiata alla prima pagina di un quotidiano e annoiarsi comunque a morte. Sarei rimasto lì a fissarli in eterno, quindi più o meno tre volte il tempo di cottura del risotto, se Daniela non mi avesse avvisato che la cena era pronta. Solo in quel preciso istante, teletrasportato da una realtà parallela e ritornato in possesso della totalità dei sensi, mi sono reso conto di come la primavera abbia di nuovo fatto capolino nelle nostre vite. La brezza calda che aggira la finestra. Il profumo degli alberi in fiore. Coppie straordinariamente felici che mangiano all’aperto.
Ma soprattutto una patina di euforia dilagante capace di pervadere spazio, tempo e oggetti che fino al giorno prima trasmettevano un’indolente tristezza. Come gli scatoloni di cartone già pronti per il trasloco nell’angolo della sala. Il fasciatoio della nonna. Il passeggino pieghevole piegato. Inter – Schalke 04.
Dopo essere stata massacrata nella partita di andata da questa banda di prospetti interessanti, l’Inter si gioca tutto alla Veltins Arena di Gelsenkirchen. Un luogo che mi fa venire i brividi. In tutti i sensi. Un po’ per la serie opinabile di consonanti che contiene. Un po’ perché, nonostante sia aprile inoltrato anche in Germania, non riesco a non immaginare la neve dappertutto. Per una serie distorta (e malata) di associazioni mentali mi è naturale collegare la Germania alla Seconda guerra mondiale. La Seconda guerra mondiale al bianco e nero. Il bianco e nero alla neve pulita e sporca. Cioè, per capirci, la prima cosa che mi viene in mente non è Italia – Germania 4 a 3. Vorrei convincermi che questa mia interpretazione del mondo dipenda dal fatto che il calcio non sia in cima ai miei interessi. Di fatto nessuno sport in particolare lo è. Questo dovrebbe già essere sufficiente a fare di me una pecora nera nel vasto gregge dell’italiano medio. Come se non bastasse ho un’attrazione morbosa per le storie nascoste dello sport. Non sarò l’unico ad avere questa malattia. Tuttavia non credo siano poi in molti a trascorrere intere ore ad ascoltare la voce di Federico Buffa che racconta la leggenda di George Best, o a leggere gli articoli della Audisio su Roberto Baggio, a vedere i documentari di Minà su Maradona. Ma c’è qualcosa che mi attrae ancora di più e riguarda la figura mitologica dell’allenatore. Esseri umani in grado di elevarsi a complemento di specificazione: il Milan di Sacchi, il Foggia di Zeman, l’Inter di Mourinho. Non è l’aspetto tecnico a intrigarmi. Tattiche, schemi, discorsi motivazionali? Li lascio agli altri. A incuriosirmi è la libertà che ogni allenatore dimostra nello scegliere cosa indossare durante la partita. Chi con il completo, chi con la tuta. Chi opta per la cravatta e chi per il cappellino. È uno dei pochi lavori al mondo che non richiede un outfit standard. Per di più in un ambiente e in un contesto in cui per gli altri la divisa non solo è d’obbligo, ma è anche sacra. E questo la dice lunga su quanto sia speciale la figura dell’allenatore di una squadra di calcio. Stasera oggetto della mia morbosa attenzione saranno Leonardo, brasiliano atipico, e Rangnick, degna guida di una squadra altrettanto impronunciabile.
A questo punto, con la luce naturale del tramonto che contribuisce a rendere magico il contesto perfetto, si immagini la voce di mia moglie, naturale e perfetta anch’essa.
Se qualcuno dovesse mai chiedermi cos’è che mi piace di mia moglie, risponderei la voce. Ok, si faccia avanti chi ci ha creduto. Siete seri?
«Un po’ mi dispiace lasciare questa casa.»
Sorry, amore. Ti dispiace se non raccolgo l’invito?
Rumore di passi in avvicinamento.
«A te non mancherà questo posto?»
Ogni uomo normalmente inserito in un rapporto di coppia avrà già percepito i presupposti per un imminente attacco frontale. Difficile sottrarsi in questi casi se non appellandosi a una temporanea sordità.
Si affaccia alla porta e sorreggendosi allo stipite mi guarda. Anche se le mie pupille restano incollate alla televisione sento il suo sguardo su di me. A tutti almeno una volta nella vita sarà capitato di provare disagio nel sentirsi osservati. Ecco, quella cosa lì. L’istinto, di sopravvivenza credo, mi consiglia di ristabilire in fretta una connessione per evitare che la situazione degeneri in fretta.
«Sì, certo. È normale. Un po’ mi mancherà.»
In una frazione di secondo capisco, dal fatto che scuote lentamente la testa dandomi le spalle, che la mia risposta non è esattamente in linea con le sue aspettative. Ho la certezza di averla in qualche modo delusa, ma in fondo la cosa non mi dispiace più di tanto. Anzi, sembra essere egoisticamente funzionale alla mia causa. Per un attimo ho la speranza che desista e che mi lasci in pace a guardare la partita. Per un attimo sogno che si stenda al mio fianco a godere ancora una volta della comodità del nostro Natuzzi e si accontenti di vivere con me questa tranquilla serata di sport. In verità, è meno di un attimo.
«Idea!»
Prende a camminare verso il divano, e verso di me quindi, sull’onda di un paio di ottave più alte.
«Idea!»
Lo ripete. Come se non l’avessi capito.
Mi si para davanti, ma senza coprirmi esattamente la visuale. La sua postura mi sta chiaramente invitando a scegliere se prestare attenzione a lei, a mia moglie, la compagna di una vita, la donna che mi seguirebbe in capo al mondo, il bastone della mia speriamo vecchiaia, eccetera eccetera, o se continuare a snobbare le sue richieste a favore di ventidue ometti in calzoncini che corrono dietro a una palla. Che poi il calcio non mi piace nemmeno, lo sappiamo entrambi. E questo aggrava la mia già compromessa posizione.
«Potremmo organizzare una cena. Con tutti i vicini. Qui in strada. In un colpo solo salutiamo tutti e magari lasciamo anche un bel ricordo di noi. Che non si sa mai cosa ci può riservare la vita. Cosa ne dici?»
Quindicesimo minuto. Complice il risultato dell’andata, la partita non sembra avere molto da dire, ma la prospettiva di rimanere incastrato in una discussione senza fine mi alletta ancora meno. Eppure avrei mille buoni motivi per cercare di convincere mia moglie a cambiare idea. Il mio subconscio disegna un algoritmo di possibilità, scuse plausibili, reazioni a catena e scenari catastrofici. Ne deriva un semplice «Lo sai, non vado pazzo per queste cose.»
Lieve increspatura del labbro superiore.
«Però, se ci tieni tanto, si può fare. Domani ci pensiamo.»
Direi che mi sono salvato in calcio d’angolo. Spero che la notte porti consiglio a entrambi.
Con ogni evidenza lei si aspettava qualcosa di più, ma date le circostanze, la pancia pesante e la partita in corso, si accontenta del risultato raggiunto e viene a sedersi accanto a me.
Porto un braccio oltre la sua testa e la avvicino dolcemente a me per baciarla in fronte. Con riconoscenza per questo inaspettato gesto d’affetto, trova il suo giusto posto sotto la mia ascella e mi appoggia la testa sulla spalla. Nel naturale silenzio che segue riconosco l’essenza del nostro amore e vorrei che stessimo così per sempre. Immobili. In quest’attimo di pace e intimità tutto nostro. Lontani da ciò che sta per succedere.
Quello che sta per succedere, almeno per il momento, è l’eliminazione dalla Champions dei campioni in carica. È inutile aggiungere altro: non credo sentiremo parlare dell’Inter di Leonardo negli anni a venire.
Per tutto il tempo della partita, Daniela è rimasta fedele al suo posto. Perfettamente incastrata sotto la mia ascella. All’inizio sembrava una posizione comoda per entrambi. Poi, col trascorrere dei minuti, un lieve formicolio ha iniziato a far presagire il peggio. Ben presto il formicolio ha lasciato il posto al torpore e il torpore alla paralisi apparente. Solo in questo preciso momento mi assale il terrore di non poter più recuperare la mobilità del braccio destro. Completamente sopraffatto dal panico, provo a sbatterlo con forza contro il muro della sala. Niente. Nessun miglioramento. In un attimo di lucidità opto comunque per la decisione di smettere. Nel migliore dei casi potrei risvegliarmi domani con degli ematomi grossi come cocomeri. O con delle ossa fratturate. Alla peggio, con dei buchi nel muro. O tutte le cose insieme. Con una carezza e un bacio sveglio Daniela e, sorreggendola con l’unico braccio che mi è rimasto, la accompagno nel letto.
«Buonanotte, amore.»
Di rimando, lei mugugna qualcosa di incomprensibile.
Prima di coricarmi con lei porto fuori il sacco dell’umido. Come ogni mercoledì sera, del resto. Fa davvero caldo e non posso non pensare a come questo inevitabilmente finirà per accelerare il processo di decomposizione dei nostri scarti alimentari e per riempire l’aria di zaffate maleodoranti. Ci tenevo a dirlo, così, giusto per trovare qualche difetto alla primavera.
«Ciao, Mich.»
Michele Moretti, alias Mich. Non so di preciso cosa mi abbia dato il diritto di assegnargli questo nomignolo. Probabilmente sono l’unico sulla faccia della Terra a chiamarlo così. Se non altro non mi ha mai fatto notare in nessun modo che la cosa lo disturba. A dir la verità non mi ha mai fatto notare niente di niente. Essendo entrambi delle persone sufficientemente razionali e poco inclini alle relazioni, non abbiamo mai ritenuto di avere un motivo valido per discutere di alcunché. Nel bene e nel male questo ci ha portato a ignorarci tranquillamente nonostante le nostre proprietà siano divise solo da una siepe alta mezzo metro o poco più. “Proprietà” si fa per dire, visto che entrambi paghiamo un significativo affitto mensile. Ecco, al di fuori di questo, io e Mich non abbiamo niente in comune. Moro, capello lungo, tatuaggi a non finire, single, fumatore e chissà cos’altro, lui; ex-biondo, pelato con barba, sposato, in attesa di un figlio e un bicchiere durante i pasti, io.
Non proviamo interesse per le rispettive professioni, qualsiasi lavoro lui faccia.
Nel personalissimo bestiario che mi sono costruito in tutti questi anni, Mich rappresenta uno splendido esemplare di troglodita moderno, un essere antropomorfo incapace di infilare due frasi consecutive, la cui coscienza sociale si ispira neanche troppo velatamente a quello che sente dire in televisione. Come altri esseri della sua specie, immagino sia appassionato di motori, tecnologia, musica metal e trash food. Con una certa oggettività, dire che ci troviamo agli antipodi potrebbe essere riduttivo.
In risposta al mio saluto tira una boccata più lunga e nella penombra intuisco che sta inarcando leggermente il sopracciglio. Alla Ancelotti.
Nel frattempo un gatto della signora Riva attraversa la via. Proprio sulla mezzeria si ferma e si volta nella mia direzione. Ci scambiamo uno sguardo d’intesa. Poi ognuno per la sua strada. Poggio il sacco della spazzatura e ritorno verso casa carico d’imbarazzo, non tanto per gli odori provenienti dai nostri rifiuti quanto per il dover di nuovo salutare Mich. Fortunatamente mi ha tolto d’impaccio ed è già rientrato.
Avercene, di vicini di casa come Mich.
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