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La volta che provammo a restare

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Rocca Alta è un paese di montagna. Appare all’improvviso, dietro una curva della Statale che lo lega al resto del mondo.
Sto tornando lì, dopo quasi trent’anni, soltanto per fare qualcosa che non ebbi la forza di fare allora.
Mentre ripercorro strade che credevo dimenticate, cercando di recuperare pezzi di un passato così lontano, scorre il racconto della mia ultima estate vissuta lì.
Era il 1993, la vita sembrava essere altrove. Tanti di noi volevano andar via ma a qualcuno mancava il coraggio e ad altri l’opportunità. Poi c’era qualcosa che non capivamo ma che ci legava a quei luoghi e soprattutto legava noi l’uno all’altro.
Era il 1993, la vita poteva anche essere lì. Pensammo di portarcela noi, occupando un vecchio casale. Avevamo sogni, ideali, speranze. Volevamo amore e un posto dove stare.
Quella fu la volta che provammo a restare.

Perché ho scritto questo libro?

Per scrivere questo romanzo, per distaccarmi abbastanza dagli eventi e riuscire a raccontare ciò che ha segnato in qualche modo la mia vita, ci sono voluti trent’anni di incubazione. Anni in cui ho iniziato e abbandonato tutto decine di volte.
Fino a quando la storia non è diventata un’altra storia.
Quello che leggerete è frutto della fantasia. Eppure, tutte le cose che ci sono in questo libro sono cose che, in qualche modo, sono accadute davvero.
E io sentivo il bisogno di raccontarle.

ANTEPRIMA NON EDITATA

 

1

Venerdì 23/07/2021

Sulla mia testa ci saranno tremila metri di roccia, di terra e di chissà cos’altro e solo a pensarci mi si blocca il respiro. È che questa galleria non finisce mai. Cerco di concentrarmi sulla strada male illuminata ma non riesco a togliermi dalla testa l’immagine della montagna che ho avuto davanti agli occhi fino a poco fa e sotto la quale sono andato a infilarmi. Devo fare un respiro lungo, prendere un bel po’ d’aria e ributtarla fuori lentamente, il tutto per un paio di volte, prima che respirare torni a essere un’azione meccanica.

Il traforo del Gran Sasso è lungo circa undici chilometri, facciamo dodici, mi riesce più facile fare calcoli, perciò, andando alla velocità di centoventi chilometri orari sono due chilometri al minuto, diciamo che in sei minuti sono fuori.

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Sei minuti, quando ti metti a contarli, sono un’eternità. Non ho idea di quanti ne siano passati ma comincio a guardare davanti a me aspettando di vedere la luce in fondo al tunnel. L’espressione è così banale che mi fa sorridere, per allentare un po’ l’ansia mi metto a canticchiare a bassa voce una vecchia canzone: “Sono fuori dal tunnellellelle”. 

Mi giro verso Giulia, sta dormendo o finge di farlo. Era lei quella terrorizzata dal dover passare di qua, secondo me si è imposta di chiudere gli occhi e di dormire almeno fino a quando non sbucheremo dall’altra parte. Se ne sta leggermente girata su un fianco e il vestito le è salito scoprendole le gambe.  Sono abbronzate, regalo della settimana di vacanza appena trascorsa a Pineto.

Sono sicuro che non sta dormendo, solo pochi minuti fa mi ha letto il messaggio che ha mandato ai ragazzi per ricordare loro che arriveremo in serata, e per fargli sapere che stavamo entrando in galleria. Adesso già me li vedo intervistati su qualche “pomeriggio in diretta”, con il presentatore che mostra alla telecamera l’ultimo messaggio dei genitori dispersi a seguito dell’incredibile crollo, per i quali l’assurda speranza è che la montagna li abbia schiacciati all’istante e che non siano morti lentamente, per asfissia.

Poi penso, non senza un po’ di orgoglio paterno, che non si presterebbero mai a cose simili, non parteciperebbero mai ad una trasmissione del genere. I nostri ragazzi.

Davanti ho un camion che credo trasporti rifiuti; ha uno di quei cassoni di metallo, alti, più alti della cabina di guida, blu. I finestrini chiusi e l’aria condizionata con riciclo interno mi proteggono almeno in parte dai cattivi odori, ma non ho intenzione di farmi tutto il resto della galleria dietro a questo colosso che non mi fa nemmeno vedere avanti.

Metto la freccia per sorpassare, Giulia apre gli occhi e si tira su a sedere. Lo sapevo che non dormiva. Vede il camion poi si gira a guardare dietro, tra i due sedili.

“Stai attento”, mi dice.

“Non stavi dormendo?”

Accelero un po’, sorpasso il camion poi mi rimetto tranquillo nella mia corsia.

“Ma quando finisce sta cosa?!” mi dice lei. Non è una domanda, è più una esclamazione.

“Rimettiti giù e dormi”

Se si agita lei mi agito anch’io.

Davanti adesso non ho nessuno, l’uscita ancora non si intravede, e la radio è muta. Anche il display del navigatore si è ingrigito, il triangolino continua a percorrere la strada ma dubito che qui sotto arrivi il segnale del satellite, andrà avanti per calcoli. Sicuramente meno approssimativi dei miei.

Potrei mettere un CD. Do un’occhiata a quelli infilati nella tasca dello sportello dal mio lato di guida ma non c’è niente che mi stuzzichi. Non la prendo quasi mai questa macchina e c’è tutta roba che piace a Giulia. Molto meglio godersi il silenzio anche con questo ronzio cupo di sottofondo, un po’ inquietante a pensarci bene. Mi lascio andare ai ricordi.

Non è la prima volta che percorro questa galleria. Ci sono passato già trent’anni fa. Più o meno.

Non avevo ancora la patente, guidava Vasco. L’auto era una Fiat Ritmo color beige, e al posto dei CD avevamo una cassetta dei Dire Straits ascoltata già un migliaio di volte.

Erano le due o le tre di notte e andavamo al mare.

2

Luglio 1992

Era la metà di luglio ed era l’anno prima del Centro Sociale, questo Dino lo ricordava bene. A L’Aquila c’era la festa dell’Unità e quella sera, una parte di loro, aveva lasciato la tranquillità di Rocca Alta per ritrovarsi a gironzolare lì, tra le bancarelle colorate di magliette e di bandiere che, già allora, cominciavano ad avere il sapore della nostalgia, e gli stand dove sfrigolavano salsicce e arrosticini di pecora.

Dopo aver vagato per un po’, guardandosi attorno senza comprare nulla, erano arrivati a quella che avrebbe dovuto avere la funzione di una discoteca: in pratica una piazzola di cemento protetta da un grosso tendone bianco e uno stand che serviva alcolici in bicchieri di plastica. La musica era sparata a tutto volume senza apparente criterio, da “El diablo” dei Litfiba a “Ciao mamma guarda come mi diverto” di Jovanotti.

A Gianni, che veniva da Roma e che nelle feste dell’Unità ci aveva lavorato fino ad un paio di anni prima, questa cosa non andava giù. Raccontava di un concerto dei Litfiba a Villa Gordiani in cui si cantavano cori contro Jovanotti, saltellando a tempo.

“E mo te li fanno senti’ uno appresso all’altro. E voi fa’ la rivoluzione co’ questi? Comunque, pure i Lifiba non so’ più mica quelli de ‘na volta. So’ diventati commerciali pure loro.”

“Guarda che Ju Diablo è tosta eh!” Disse Fabrizio.

“Ju Diablo? El Diablo!” Ribatté Gianni, poi cominciò a canticchiare in dialetto “Arrìa arrìa ju diablooo! mo canta in rocchese Pelù!” Dino, Fabrizio, Il Commissario e Vasco risero.

“Che poi continuano a chiamarle feste dell’Unità ma mica lo so se è giusto, il Partito Comunista non c’è più, da un anno ormai”.

“Ma il giornale l’Unità c’è ancora” gli fece notare Dino.

“Sarà!” disse Gianni poco convinto. 

Erano solo in cinque quella sera, avevano occupato un tavolino di legno con due panche, poco distante dalla pista, riuscivano a sentirsi senza dover urlare troppo. Di ballare non se ne parlava neanche.

Qualche estate prima, quando avevano più o meno quindici anni, si facevano quasi cinque chilometri a piedi per arrivare a Fontenera, quando era festa, ai primi di agosto, e stavano le ore a ballare su un’altra piazzola di cemento, più piccola di questa e con meno luci. Poi tornavano indietro, sempre a piedi: altri cinque chilometri attraverso un sentiero buio di terra battuta che tagliava per la campagna. Si muovevano in branco, scomposti, cantando a squarciagola canzoni piene di parolacce, senza sapere cosa fosse la stanchezza.

Ma questo succedeva quando avevano quindici anni, appunto. Ora di anni ne avevano circa venti e l’unica cosa degna di nota della discoteca, in quella festa dell’Unità che non era più la festa dell’Unità di una volta, era il sapore dolciastro dei “Negroni” che servivano al bar.

Gianni, come al solito, aveva già commentato che non si trattava di un vero Negroni e che nemmeno ci assomigliava, e che un suo amico faceva il Negroni migliore al mondo, ma poi neanche lui era stato tanto a sottilizzare, visto che con poche lire ti riempivano di alcool il bicchiere di plastica. Oltre alle numerose birre che si erano già scolate passeggiando, direttamente dalla bottiglia, di questi “falsi Negroni” ne bevvero due o tre a testa. Per anni, dopo quella sera, Dino non sarebbe più riuscito a toccare un liquore dolce senza che gli venisse la nausea.

La serata era finita come spesso finiva quando si usciva con l’auto di Vasco: erano tornati a Rocca e, una volta lasciato Il Commissario davanti alla Chiesa, si erano fermati sulla piazza della Fonte, alla Villa. Fabrizio e Gianni se n’erano andati a dormire, mentre Dino e Vasco, nella Fiat Ritmo di colore beige, alle due di notte, erano rimasti a parlare di qualcosa di cui ormai si era perso il ricordo.

Poi, per qualche motivo, Vasco aveva cominciato a parlare del traforo del Gran Sasso, e, come gli accadeva spesso quando si impuntava su qualcosa, era andato avanti per minuti.

“Undici chilometri! Ma lo sai quanti sono undici chilometri?” Continuava a ripetere pieno di meraviglia e di stupore. “Ma secondo te quanto si risparmia, di tempo, per andare a ju mare?”

Tra Rocca e il mare c’erano gli Appennini. Il mare a Rocca era un sogno vago; Giulianova, sulla costa abruzzese, una meta esotica che pochi fortunati si potevano permettere di raggiungere per una settimana in agosto.

“Non lo so, Vasco, non ne ho proprio idea.” Rispose Dino cercando mentalmente di fare due conti.

“Secondo me si risparmia tantissimo. Una volta passato il Gran Sasso praticamente sei arrivato!”

“Più o meno…” disse Dino poco convinto.

“Per me si risparmia almeno un’ora, che dici?”

“Boh, forse.”

“Un ora ad andare ed una a tornare sono due. Due ore sono tante eh!”

“Sono tante” dovette riconoscere Dino, senza avere la minima idea se la teoria di Vasco fosse corretta.

“Andiamo al mare!” disse a quel punto Vasco. Erano le due di notte, avevano bevuto, erano assonnati, sulla piazza buia e silenziosa di un paesino perso tra le montagne.

“Andiamo” disse Dino. Ed erano partiti.

Gli piaceva fare la parte di quello che rimane lucido, che regge l’alcool, che non si ubriaca mai, ma se alle due di notte decidi di partire da Rocca per andare al mare, almeno per quella sera Dino avrebbe dovuto ammettere, nei suoi ricordi, di non essere stato poi così lucido.

Per qualche ragione, quella notte, una delle due gallerie era chiusa, così si ritrovarono a viaggiare in un’unica corsia, delimitata dai paletti che dividevano in due sensi di marcia la carreggiata. Trascorso meno di un minuto si erano trovati a fissare il retro di un tir che viaggiava lento: un quadro racchiuso in una cornice di lampadine rosse, impossibile da superare in quelle condizioni.

La cornice racchiudeva una grande scritta azzurra su sfondo bianco: “Autotrasporti Calvani”. Dino guardava la linea scura tra i due portelloni del camion che divideva, non esattamente a metà, la lettera v di Calvani. Questa piccola asimmetria lo disturbava oltre ogni soglia di ragionevolezza, ancor più dell’immagine di una madonna in estasi con la preghiera “proteggimi”, che occupava l’angolino in basso sulla destra.

Vasco, accanto, non parlava più. Se anche lo avesse fatto, con il suo tono lieve, le sue frasi quasi sussurrate, probabilmente Dino non lo avrebbe sentito, coperto da un’unica nota bassa, cupa, continua e inquietante che riempiva l’aria. Il suo amico fissava la strada scostando ogni tanto, con un soffio, il ciuffo di capelli biondi che gli copriva l’occhio destro. Finalmente, dopo un tempo infinito, sbucarono dall’altro lato e l’autostrada tornò alle normali due corsie. Vasco, però, non sorpassò il camion, mise la freccia a destra e disse di voler uscire al primo casello.

“M’è venuto sonno, devo riposare cinque minuti”.

Dino annuì e cominciò ad osservare con più attenzione la strada e il suo amico. Lo svincolo non era lontano, pagarono al casello e percorsero una lunga rampa curva che portava su una strada provinciale. Alla fine della rampa uno spartitraffico divideva in due la strada, destra o sinistra, nord o sud forse, o magari est o ovest.

Andarono al centro, sullo spartitraffico. Alla fine, il sonno era arrivato. Buttarono giù il paletto con le frecce che indicavano le due direzioni. Messo lì, il paletto, proprio per indicare che dovevi andare o a destra o a sinistra, e non finirci contro. Eppure, era proprio quello che avevano fatto, ci erano finiti contro.

A parte lo scossone, fu poco più che una frenata brusca, si erano guardati senza dire una parola, non si erano fatti nulla. Anzi, sembrava potessero infilare la retromarcia e ripartire. Ma la retromarcia non entrava, nessuna marcia entrava. Vasco provava a muovere la leva del cambio senza successo. Alla fine, scese e Dino lo seguì.

L’incrocio tra la rampa e la strada provinciale era illuminato da un lampione solitario tanto debole che non lasciava vedere nulla a distanza di qualche metro. Nel cono di luce i due ragazzi esaminarono l’auto, Dino era andato avanti a vedere il punto in cui il palo di metallo del cartello aveva fermato la corsa dell’auto. Non era un gran danno, una leggera ammaccatura, nient’altro. Vasco, invece, si era inginocchiato a terra per esaminare il fondo.

Il palo, cadendo, si era portato dietro il blocco di cemento nel quale era piantato, e il suddetto blocco ora sembrava essersi infilato sotto l’auto.

“E’ quello che blocca il cambio” disse Vasco.

Dino annuì, non ci capiva nulla di macchine ma Vasco aveva detto così, doveva aver ragione.

“Se la spingiamo all’indietro forse si sblocca e la facciamo ripartire”

“Proviamo” disse Dino. Poggiò le mani sul cofano della Ritmo, pronto a spingere. Vasco aprì lo sportello e afferrò il volante con una mano e il montante con l’altra, poi puntò i piedi e si preparò a spingere all’indietro, con la schiena.

“Al tre, sei pronto? Unodue…tre!”. Fecero forza ma l’auto non si spostò di un millimetro.

“Con la marcia inserita è impossibile” disse Vasco risalendo e cercando ancora di mettere almeno in folle. Dino aveva quasi paura a dire la sua, osservava i tentativi dell’amico, sconsolato, poi cominciò a pensare a sua madre e a suo padre. Aveva capito che non sarebbe stato facile andar via di lì e si stava immaginando il momento in cui sua madre avrebbe scoperto che non era ancora rientrato.

Temeva per loro, per la pena che sapeva avrebbe loro procurato quella scoperta, per le cose terribili che avrebbero immaginato, e temeva per lui, per quello che gli avrebbero fatto una volta accertato che alla fine era andato tutto bene.

Vasco, dentro l’auto, non si agitava più. Scese, lo guardò, fece uno dei suoi sorrisi sbilenchi e scuotendo la testa disse, con un tono fiero e divertito:

“Che cazzo abbiamo combinato!”   

Fiero, proprio così. Non era preoccupato né arrabbiato. Era fiero di ciò che era successo come se avessero compiuto un’impresa straordinaria: avere un incidente alle due e mezza di notte mentre andavano al mare. Da Rocca. Che qualche vecchio forse neppure lo aveva mai visto il mare, tanto era lontano e irraggiungibile, non solo geograficamente ma proprio come idea. Il Mare, Rocca. Come dire nord o sud, est o ovest, proprio come le due frecce del cartello che avevano appena buttato giù.

“Che cazzo abbiamo combinato!” disse ancora e rise.

Anche a Dino scappò da ridere stavolta.

“Aspettiamo che passi qualcuno” disse, appena la risata si spense. L’aria era fresca, anche troppo. Sedettero sul ciglio dello spartitraffico, i piedi sulla strada che sfioravano appena la striscia gialla sull’asfalto nero a grana grossa. Non avevano altro da fare se non aspettare. Qualcuno, o il mattino.

A un tratto il rumore di un motore in lontananza li scosse. Vasco si alzò in piedi, il rumore sembrava provenire dalla provinciale. L’auto sfrecciò davanti a loro a velocità sostenuta.

“Rimango qui in piedi” disse. “Altrimenti non ci vedono”. Dino si alzò e lo raggiunse.

Rimasero in silenzio per un po’, Dino pensava a quali potessero essere i successivi sviluppi di quell’avventura e al modo in cui avrebbe detto a sua madre cosa ci faceva laggiù, a quell’ora. Intanto decise che avrebbe detto che l’auto si era rotta, senza parlare dell’incidente; restava la faccenda del posto e dell’ora.

“Scusa eh!” disse all’improvviso Vasco.

“Come?”

“Scusa. Quel camion mi ha fatto venire sonno. Ti volevo solo porta’ aju mare

Dino alzò le spalle.

“Beh, non l’hai fatto mica apposta”

Vasco aveva sempre un sorriso storto stampato in faccia, e quando parlava sembrava soppesarti con quegli occhi socchiusi. Era come se dovesse costantemente valutare quello che gli stavi dicendo, come se non si fidasse, o come se non fosse sicuro di capire. Come se volesse scoprire cosa si nascondesse dietro le parole.

Ma adesso il sorriso storto non c’era, guardava a terra, dispiaciuto.

Ti volevo portare al mare, così gli aveva detto. Si era quasi commosso, Dino, allora gli poggiò una mano sulla spalla.

“Pensa domani quando lo raccontiamo agli altri!”

Vasco parve illuminarsi:

“‘Nculu, secondo me neanche ci credono”

“Già”

Risero.

Il mattino arrivò, il primo chiarore rivelò alcune abitazioni sulla provinciale, non troppo distanti. Dino decise di provare ad andare a chiedere aiuto, forse c’era un telefono, una cabina, dal quale avrebbe potuto chiamare casa e magari anche il loro amico, il Commissario, che li avrebbe aiutati in qualche modo.

Andò così, senza troppe conseguenze per Dino. I suoi si erano bevuti la storia del guasto all’auto, il Commissario, il cui padre lavorava in uno sfasciacarrozze, era andato a prenderli direttamente con un carroattrezzi. Era stata la loro salvezza, anche se Vasco, per tutta quell’estate, non riebbe più l’auto. Non perché fosse rotta, se l’era ripresa Umberto, suo cugino, ma questa era un’altra storia.

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Andrea Castriziani
Sono nato a Roma nel 1970. Dopo la maturità classica ho frequentato la facoltà di Scienze Politiche, abbandonata per ragioni di lavoro, economiche, familiari e tutta una serie di scuse che mi raccontai allora.
Oggi vivo fuori città con la mia famiglia, sono il responsabile di un punto vendita della grande distribuzione e tutto il tempo che riesco a “rubare al dovere di vivere”, citando Pennac, lo dedico alle mie passioni: il teatro, il disegno, la scrittura.
Per non farmi mancare nulla, a 54 anni, riscoperta la meraviglia dello studio, mi sono iscritto di nuovo all’università. Scienze Biologiche, stavolta.
Sono un inguaribile sognatore e anche grazie al buddismo, che ho scoperto da quasi dieci anni, ho trovato la forza e l’incoscienza per inseguire qualcuno dei miei sogni.
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