Un vento leggero aiutava il glicine che ricopriva il gazebo a diffondere il profumo dei suoi fiori fino a raggiungere il piazzale dove erano parcheggiate le auto della cascina.
Sembrava che il giardino in quel modo stesse salutando madre e figlia pronte per tornare a casa, a Milano, mentre si accingevano a riporre le rispettive borse in macchina e abbracciavano i parenti, gli zii e i due cugini con la promessa di tornare presto.
Alberto, il padre, era rimasto a casa con la scusa di dover pulire e riordinare le sue collezioni di modellini e penne stilografiche, e le due erano contente di avere a disposizione centoventi chilometri soltanto per loro.
Da quando la nonna era mancata un anno prima, quelle visite alla cascina sulla collina erano meno frequenti e se prima prendevano lo spazio di un weekend adesso duravano il tempo di una giornata, dal momento del pranzo fino a poco dopo il tè nel pomeriggio.
L’imbocco autostradale era distante solo un chilometro dal viale alberato che conduceva al casolare, vicino ma isolato dalla città famosa per la sua storica produzione di vini.
Billy Joel faceva da sottofondo alle chiacchere tra le due donne lungo l’autostrada che entrambe conoscevano bene, l’avevano percorsa insieme innumerevole volte.
Al volante sempre Silvia, che pur sapendo quanto alla figlia piacesse guidare, in quel modo, inconsciamente, rimarcava i ruoli sulla base del sedile occupato.
«Abbiamo fatto bene a sfruttare questa tua domenica libera per venire, no? Questa settimana che turni hai in negozio?»
«Sì, hai ragione, finalmente una domenica di stacco. Questa settimana lavorerò tutti i giorni tranne giovedì e ho ben due turni di chiusura, quindi tornerò a casa quasi alle dieci di sera… Che palle!»
«Ma non avevi detto a Carlotta di farti lavorare meno ore così da avere anche il tempo di studiare? Di questo passo quando pensi di riuscire a laurearti? Il cinese è una lingua che va studiata tutti i giorni! E come fai se per metà giornata sei a vendere quelle cose là, mica è semplice conciliare studio e lavoro… Poi, dai, ti mancano gli ultimi esami, dovresti concentrarti su quelli…»
«Ok prof, credi di saper meglio di me come e quanto dovrei studiare il cinese? E poi, scusami, non siete stati proprio tu e papà a scrivere sul biglietto di Natale quanto foste orgogliosi della vostra figlia lavoratrice?! A me piace lavorare lì, ho il mio stipendio, colleghi, amici e clienti affezionati che passano anche solo per salutarmi… Tranquilla che riesco ad andare in biblioteca per studiare anche se lavoro.»
«Sarà come dici tu… A ventiquattro anni si hanno così tante energie che volendo si riesce a fare tutto. Sai, ogni genitore si augura che il figlio sia felice e che riesca in ciò che fa: sia io che papà ti vediamo molto impegnata ma serena e siamo tranquilli, però è naturale preoccuparsi, no?»
«Lo so ma ti dico che potete continuare a stare tranquilli perché ho tutto sotto controllo.»
Il discorso studio si esaurì presto e così parlarono della buona cucina casalinga della zia, delle letture in corso, di film e di quali lezioni stesse preparando Silvia per i suoi studenti, aspiranti grafici e illustratori.
Dopo circa un’ora e mezza di tante parole dette e cantate e pochi silenzi, trovarono parcheggio davanti casa e, proprio mentre stava recuperando la borsa dal sedile posteriore, a Silvia cadde l’occhio sul bracciale che la figlia pensava di aver perso chissà dove.
Non era un braccialetto di valore, ma era carino e i suoi ciondoli erano di color arancio, giallo e mattone.
«Sachi guarda, questo è tuo! Non l’avevi perso, era solo caduto qui dietro.»
Sachita se lo mise al polso contenta di averlo ritrovato e guardandola attraversare la strada verso il cancello, sua madre pensò che quei colori le donavano molto, risaltavano su quella carnagione che, a differenza della sua, era ambrata tutti i giorni dell’anno.
Il giorno seguente, mentre Alberto era già in ufficio e Silvia a scuola, Sachita si stava ancora preparando per la sua giornata che prevedeva mattinata di studio nella biblioteca di quartiere, pranzo di corsa a casa e poi il lavoro nel negozio in centro.
Le sue giornate erano scandite in questo modo da mesi ormai e si era abituata a questo ritmo, le piaceva e si sentiva molto produttiva anche se le ore dedicate allo studio non erano così proficue come raccontava, agli altri e a se stessa.
Al gioco per cui uno sceglie come definirsi con le iniziali del proprio nome, si riconosceva in Sorriso Contagioso: Sachita Corvi.
Non raggiungeva il metro e sessanta ma era proporzionata nelle forme, con occhi e capelli scuri lunghi poco oltre le spalle.
Quel giorno decise di indossare un paio di jeans neri, una maglia bianca, un filo di trucco ed i capelli erano raccolti in una treccia.
Di fronte allo specchio, prima di uscire, ultimamente si ritrovava spesso a chiedersi se le sue origini emergessero nonostante quei due colori che era invitata a usare in negozio e che ormai si era abituata a vestire anche nei giorni liberi.
L’India è una terra dalle vivaci sfumature: strade, stoffe, tappeti, spezie, templi e molto altro ancora.
Gli indiani tengono molto al simbolismo dei colori e li celebrano ogni anno durante una festa religiosa chiamata Holi, durante la quale è tradizione cospargersi con polveri colorate per simboleggiare la rinascita e la reincarnazione.
Per Sachita, fino a qualche tempo prima, ogni giorno era un’occasione per indossare abiti diversi, abbinati con cura agli accessori, numerosi e preferibilmente con stile orientaleggiante.
Questo amore per le tonalità non l’aveva respirato in casa, si trattava di una questione atavica, ne era convinta.
Alla vista dei colori, che si trattasse di vestiti, fiori o immagini, non mancava una sensazione di nostalgia della terra natale.
Percepiva un agrodolce ricordo di radici che non aveva vissuto ma che sentiva sue.
In India, nello stato del Bengala, ci era nata e aveva trascorso quasi un anno nell’orfanotrofio di Calcutta gestito dalle Missionarie della Carità, le suore di Madre Teresa.
Alberto e Silvia, i suoi genitori, li aveva conosciuti in un caldo giugno di oltre venti anni prima all’aeroporto di Fiumicino: lei aveva quasi tre anni e un’espressione sperduta; loro, occhi emozionati e un bel gruppetto di amici ad accompagnarli in quel momento speciale.
Le avevano trasmesso l’amore per i libri, il cinema, la musica, i viaggi e tanto altro, ma quello per i colori era di certo merito delle sue origini.
Un bacio a Oliver, il gattone di casa, e via, direzione biblioteca, con la borsa carica di libri e quaderni. In mente ancora qualche dubbio sul suo aspetto perché vestita solo di bianco e nero, sentiva di star scalfendo pian piano la parte più superficiale della sua identità.
Davanti ai gradini d’ingresso della biblioteca nel parco, sotto il portico, si accese la sigaretta che accompagnava il caffè delle macchinette e pensò che, sì, le sue origini non erano di certo coperte dai vestiti che indossava.
Erano lontani i giorni in cui di proposito vestiva pantaloni verdi, una maglietta bianca e al collo una collanina azzurra nascosta dalla sciarpa arancione per lasciare che i colori della bandiera indiana fugassero gli eventuali dubbi degli sconosciuti riguardo alla sua provenienza.
L’identità non si limita alla percezione che si ha di se stessi, ma si intreccia con quella che gli altri hanno di noi. Per lei lo sguardo delle persone era importante.
Si disse che l’abbigliamento e l’estetica non tolgono e non definiscono quella che è la propria identità, doveva allontanare quei pensieri frivoli e la vista delle sue amiche di studio che stavano arrivando, la distrasse.
Quella mattina era riuscita a studiare e le ore in negozio erano passate lentamente, ma, complice la bella compagnia dei colleghi, anche quel lunedì con pochi clienti era stata una buona giornata.
Il negozio si trovava proprio in una delle vie centrali di Milano, vicino al Duomo, e, come tanti altri negozi, era nel fine settimana che faceva i numeri più alti, di clienti e di vendite.
A Sachita piaceva molto lavorarci, perché lei stessa usava i prodotti cosmetici che vendeva, condivideva l’etica dell’azienda e soprattutto aveva la possibilità di conoscere persone di ogni tipo e anche turisti da ogni dove.
Era una di quelle commesse che non devono chiudere l’interazione con il cliente con un accompagnamento alla cassa per sentirsi soddisfatte: piuttosto era sufficiente lasciare una buona impressione, di sé e del negozio, per vedere le persone tornare desiderose di fare acquisti.
Capitava entrassero anche indiani, in città per le vacanze o residenti, e ogni volta sperava si rivolgessero a lei.
Pensava che riconoscendo le origini comuni avrebbero potuto preferire suggerimenti da lei che aveva la loro stessa pelle e gli stessi capelli.
Alcuni di loro infatti la sceglievano per farsi consigliare ma tanti altri no, per loro una commessa valeva l’altra e non la percepivano più fidata per il solo fatto di condividere le stesse origini.
Quando succedeva le dispiaceva un po’, viveva quel momento come la mancata opportunità di riconoscersi ed essere riconosciuta come indiana.
Dal momento in cui era stata adottata aveva ottenuto la cittadinanza italiana.
Agli occhi degli altri era di questa nazionalità e nessuno le aveva mai chiesto se le sarebbe piaciuto essere considerata anche per quella di origine.
Il cognome italiano non tralasciava dubbi: la ragazza era nata in India, certo, ma ormai quelle radici erano così lontane e poi era cresciuta in Italia, aveva sempre vissuto a Milano, parlava l’italiano come tutti, senza accenti né difficoltà.
Era così che veniva vista e la sua storia non era unica, tante persone erano state adottate e accanto a un nome dal suono originale avevano un cognome tipicamente italiano.
Chi conosceva Sachita, e magari anche altri ragazzi adottati, non si domandava cosa potesse significare avere una nazionalità che non rispecchiava i propri tratti somatici.
Durante il suo viaggio di tre settimane in India, accompagnata da un professore di hindi e da tanti altri ragazzi, suoi studenti e non, si era riconosciuta anche lei così come la vedevano tutti: un’occidentale che nel suo paese natale ci era appunto soltanto nata.
«You look like an Indian!» le ripetevano con insistenza gli sconosciuti che incontrava.
Sembri, e non sei, la rendeva straniera nella propria terra natìa.
Durante il viaggio che partiva dal Sud, dalla città di Bangalore, erano risaliti per circa 3600 chilometri fino alla capitale Delhi spostandosi con treni e qualche pullman.
L’itinerario era ricco sia di meraviglie che di contraddizioni: mercati di fiori e spezie, paesaggi di campagna, visite ai templi e, poi, uno dopo l’altro gli slum di Bhopal, in mezzo a metropoli che alternavano angoli di estrema confusione e povertà a vie di negozi e villette, con annesse escursioni in siti archeologici degni di Indiana Jones.
Era incredibile come alcune situazioni, condizioni di vita, stili architettonici, paesaggi e animali riuscissero a convivere, ad avere una loro armonia.
Agra, per esempio, non è quel che si dice una bella città, eppure lì si trova una delle meraviglie del mondo, il Taj Mahal.
Aveva fatto quell’esperienza a vent’anni e Silvia e Alberto non avevano mostrato esitazioni nel lasciarla partire, perché un viaggio di gruppo, tra l’altro con un punto di riferimento competente e di cui si fidavano, era sembrato anche a loro un bel regalo da farle.
Entrambi avevano viaggiato tanto, ma in India non ci erano ancora andati e quando la loro Sachi li aveva informati della possibilità di prendere parte a questa avventura era bastato loro uno sguardo per capire che era il momento giusto per farle fare questo passo.
Tanti genitori adottivi temono il momento in cui il figlio o la figlia esprime il desiderio di fare un viaggio nel proprio paese di origine, ma loro due non avevano avuto alcuna esitazione.
La loro casa era aperta al dialogo e i racconti sull’adozione erano stati fatti fin da subito, quando era bambina, e, nonostante ci fosse il rischio che non comprendesse la sua storia appieno, le avevano fornito gli strumenti per iniziare a riconoscersi, a farla sua.
Una settimana dopo, durante un turno in un giorno feriale, Sachita incontrò una cliente particolarmente spigliata e simpatica di nome Rebecca, una quarantenne che lavorava in un’agenzia fotografica.
Rebecca si era fermata volentieri a provare i prodotti e così le chiacchere si erano prolungate per una ventina di minuti.
Dopo averle consegnato il sacchetto con la merce e averla salutata con l’invito a tornare presto anche solo per raccontarle come si fosse trovata con gli acquisti, Sachita si fermò a pensare a quanto fosse bello poter incrociare così tante persone dai caratteri differenti.
Tra i clienti c’erano davvero persone di tutti i tipi: le adolescenti che entravano solo perché il sabato avevano l’abitudine di girare tutti i negozi del centro; le sue coetanee che cercavano prodotti per le loro specifiche esigenze, alcune in cerca di consigli, altre decise su cosa comprare; poi madri, mariti, turisti, amici in cerca di regali.
Le richieste erano davvero diverse, così come le personalità di ciascuno di loro.
Le venne da chiedersi che tipo di cliente avrebbe potuto essere sua madre biologica.
Alberto e Silvia le avevano detto che l’unica informazione ricevuta su di lei riguardava l’età: era molto giovane al momento della sua nascita, molto probabilmente per gli anni che aveva non sarebbe riuscita a crescere una bambina e così l’aveva dovuta lasciare alle suore.
Le influenze possono presentarsi anche sotto forma di persone e di incontri, pensò facendo caso al legame tra sua madre e Rebecca: anche quella mamma lontana e sconosciuta doveva essere ormai una quarantenne.
Ultimamente le domande e i pensieri rivolti a questa figura la coglievano con maggior assiduità.
Una cena con gli amici a base di samosa e chicken tikka masala le suscitava una strana nostalgia, così come la vista di camicette ricamate e pashmine esposte nelle vetrine del negozio che le piaceva tanto. Ma anche un giro per la propria città la portava a pensare quanto sarebbe stato bello farlo insieme a lei, anziché in solitaria.
Una figlia che passeggia insieme alla madre cui somiglia, i passanti che non si chiedono quale relazione le leghi e le vie della città in cui era cresciuta da far scoprire a occhi nuovi.
Si ritrovava sempre più spesso a esplorare queste fantasie fino a quando un giorno, mentre mancava poco al compleanno di Silvia, pensò che forse era il momento di iniziare a fare la sua ricerca delle origini, di sua madre.
Le montò un senso di carica positiva che quasi sentiva di poterlo afferrare questo pensiero.
Una donna con un sari nelle tonalità del blu e dell’azzurro in piedi su gradini di pietra, ferma, davanti a un portone scuro.
Il suo viso rivolto verso questo ingresso, forse socchiuso. Non sta guardando me, nasconde la sua espressione e sono troppo piccola per poterla interpretare.
Io sono ai piedi di questi gradini, pochi e non alti, ma non riesco a salirli e la guardo da lì, dal basso.
Nella mente di Sachita questa immagine si era creata quando aveva quattordici o forse quindici anni e aveva il sapore di un ricordo rimosso, era una visione poco nitida ma suggestiva.
Le piaceva, le trasmetteva un senso di calma, probabilmente per i colori, tra i suoi preferiti in quegli anni.
Era contenta per essere riuscita a riesumare quello che era sicura fosse un vero e proprio ricordo, un’accurata rappresentazione di un momento, il loro ultimo saluto.
Certo, non aveva memoria del viso di sua madre ma si ricordava di uno dei suoi abiti, che piaceva anche a lei e così alimentava la convinzione che almeno il gusto per il colore fosse scritto nel suo Dna.
Il portone scuro era sfocato ma doveva essere quello dell’Istituto e questo aveva un significato univoco: ad accompagnarla in quel posto era stata sua madre.
Dalla sua città natale, abbastanza conosciuta per uno snodo ferroviario e situata tra colline degradanti coltivate a tè, erano arrivate a Calcutta insieme.
Sua madre era riuscita a trovare le forze di fare un viaggio per e con lei.
Sui documenti, cui aveva sempre avuto la possibilità di accedere, Sachita aveva letto su più pagine che il suo arrivo nella struttura non coincideva con giorni o mesi vicini alla sua nascita, ma era avvenuto quando lei aveva già quasi due anni.
Fino ad allora qualcuno l’aveva accudita, nutrita, coperta, stretta a sé.
Forse si trattava di parenti o forse l’avevano fatto i suoi genitori, fino al momento in cui era accaduto qualcosa che li aveva portati a compiere la scelta di doverla lasciare, una decisione contraria alla loro volontà ma evidentemente necessaria.
Quella giovane madre aveva avuto la tempra di partire da lontano con la consapevolezza che a casa sarebbe tornata da sola.
Conservare un’immagine mentale, seppur sgranata, di quel momento le sembrava una fortuna quando era ragazzina.
Crescendo, quando capitava che le tornasse in mente quella visione, non si soffermava più sulla bellezza delle tinte del sari né sulla ricerca di altri elementi che potessero dimostrare la veridicità del ricordo, ma si chiedeva come mai quella figura fosse di spalle.
Non riusciva a visualizzare il suo viso e si sentiva colpevole per il fatto di non riuscirci, le faceva male.
Perché sua mamma guardava il portone anziché lei?
Perché non riusciva a sforzarsi di più per ricordare il suo sguardo, i suoi tratti?
Quella madre in piedi sui gradini, che fino a quel momento le aveva infuso una sensazione difficile da descrivere ma certamente positiva, all’improvviso era diventata colpevole di non farsi vedere.
Se solo avesse rivolto lo sguardo verso di lei magari sarebbe riuscita a ricordarsela e invece non era così.
Sapere quale colore le piacesse non era abbastanza, Sachita aveva bisogno di un viso, di riconoscersi in occhi simili a suoi, di sapere da chi avesse preso quel naso a patata e quell’altezza di cui non andava fiera.
La terapia la aiutò a prendere coscienza del fatto che quello che fino ad allora aveva considerato un ricordo altro non era che una sua elaborazione mentale: un insieme di pezzi debitamente riuniti dal suo inconscio per creare un’immagine di quel momento, l’abbandono.
Il portone dell’Istituto l’aveva visto su internet, blu erano i bordi dei sari bianchi delle Missionarie della Carità, la figura materna in piedi, in alto rispetto al suo punto di vista, era una sua proiezione, quella donna pareva irraggiungibile come una madonna.
Se da una parte questa consapevolezza era portatrice di sollievo, dall’altra era fonte di vergogna: come aveva potuto credere per anni che si trattasse di un vero ricordo?
I ricordi iniziano a formarsi dai tre anni in poi e questa cosa l’aveva sentita e letta tante volte, ma era sicura di esser riuscita a tenerne uno stretto in quanto memoria di un momento drammaticamente importante.
Il giorno del suo arrivo in Italia, quando aveva due anni e otto mesi, non lo ricordava affatto, ma i suoi genitori e i loro amici avevano documentato quei momenti con la videocamera, come avevano fatto anche i primi mesi della loro famiglia.
In casa c’erano tante cassette di questi video, Alberto e Silvia le avevano guardate con lei un numero infinito di volte, sempre emozionati.
Quando era bambina, erano soliti raccontarle, attraverso le cassette, quelle giornate, di come si fossero sentiti appena l’avevano vista arrivare con quel vestitino bianco e rosso e le scarpette con il disegnino di una tartaruga ninja, del biscotto che teneva tra le dita senza mangiarlo e dei peluche che non avevano attirato la sua attenzione.
L’unione delle immagini e di racconti era il loro modo di narrarle la sua storia, che, le dicevano, era iniziata prima di quei giorni.
La protagonista era lei, non un’altra bimba immaginaria che poteva somigliarle.
Alberto le aveva appeso sopra al letto la locandina del cartone Il libro della giungla per via della sua ambientazione, e per lo stesso motivo le avevano regalato i film La piccola principessa e Il giardino segreto.
Tante, troppe persone chiamano rinascita il giorno in cui un figlio adottivo conosce i genitori, ma in effetti non vi è alcuna nuova nascita.
Il bimbo o la bimba non viene alla luce con l’incontro di queste due persone, ha un proprio vissuto, più o meno lungo, più o meno difficoltoso, che è fondamentale riconoscerglielo.
I soggetti coinvolti possono sentire di rinascere con nuovi ruoli ma la storia di ciascuno ha origine prima di quel momento.
Sachita quelle cassette non le riguardava da tanti anni però le sembrava di conoscerle a memoria.
Pensava che le sarebbe piaciuto avere anche solo una fotografia del suo prima.
Da ragazzina confidava al diario i suoi sentimenti contrastanti nei confronti della madre biologica e in alcune pagine era la cattiva che l’aveva lasciata, in altre una ragazza poco più grande di lei che meritava solidarietà, poi ancora una madre il cui amore andava implorato.
Nei suoi pensieri era una figura sfuggente, ambivalente e il suo obiettivo in quella giornata che precedeva di poco il compleanno di Silvia era quello di poter finalmente fare chiarezza e trovare risposte.
matteo.morandi1983 (proprietario verificato)
Conosco personalmente Sachita ma non la conoscevo ancora nell’anno in cui ha intrapreso la sua ricerca delle origini. Che dire? Leggere il libro mi ha permesso di avvicinarmi ancora di più a lei, che è davvero un ‘Sorriso Contagioso, ed è stato molto interessante poter leggere i pensieri e le dinamiche che attraversa una persona adottata. Come dice lei, ogni persona ha una storia che va a sé ma questa lettura offre ottimi spunti di riflessione non solo per coloro che la conoscono ma anche per altri, figli adottivi o genitori, che vogliono conoscere meglio un’altra prospettiva.
Scritto bene, scorrevole e anche molto emozionante. Lo consiglio davvero a tutti!