Quando ero bambino vivevo di fianco a un parco, ma allora non lo sapevo che lo fosse. Si chiamava Monte Urpinu. A Cagliari, con il linguaggio della gente di mare, se un terreno supera i 200 metri di altezza, è un colle; sopra i 300, è un monte; sopra i 1000 metri immaginiamo di trovarci dei monaci tibetani.
Io abitavo alle pendici del Monte Urpinu. Il lato che dava su casa mia era incolto: c’erano alberi, cespugli, fiori di campo… in particolare i caraganzi, le margherite. Dalla parte opposta della collina, invece, c’erano i Giochi. Scritto proprio così, con l’iniziale maiuscola. Si trattava di un’altalena con due sedili, di un dondolo e di una giostra con cinque posti e il volante al centro per farla girare – devi essere sicuro di sapere con chi ci sali, perché se ti capita un compagno di giostra invasato, la forza centrifuga potrebbe buttarti fuori.
Ai Giochi potevo andare solo accompagnato da qualcuno più grande, perché bisognava attraversare tutto Monte Urpinu che, ci dicevano, era molto pericoloso, dal momento che vi si nascondevano i maniaci.
Quando ero in terza elementare, ai Giochi avevano costruito una pista con delle macchinine elettriche, si infilavano cento lire e avevi cinque minuti di divertimento. Il custode era severissimo: le macchine non si potevano toccare tra di loro e neanche sfiorare, si poteva girare solo in tondo, ed era vietato invertire la marcia. In sostanza, infilavi le monetine e vedevi la macchina che si muoveva. Tutto qui.
Tra i Giochi, quella che a me piaceva di più era l’altalena. L’ho sempre trovato un movimento vitale, un po’ perché ricorda quello che i nostri corpi fanno per far nascere una nuova vita, e un po’ perché mi sembra la perfetta sintesi della vita stessa: a volte sei giù e a volte sei su. Anche col dondolo vai su e giù, ma non vedi né il cielo né la terra; soprattutto, con il dondolo il problema è: chi si siede dall’altra parte? Qual è il suo peso? Vuole giocare con te o si vuole solo divertire? Perché se si vuole solo divertire, tu diventi parte del suo gioco e la conseguenza è che potresti volare, non come un uccello, una libellula o una farfalla, ma come una pietra lanciata da una catapulta.
Allora, la vita è un’altalena, a volte sei giù e a volte sei su. Alterni la vista del cielo a quella della terra.
Negli ultimi anni, questa esperienza è diventata sempre più potente e io ho consapevolmente deciso di stare lì, sull’altalena. È cosa risaputa che per iniziare ci vuole una spinta forte, altrimenti sei solamente seduto su di un asse di plastica o di legno.
E proprio da quella prima forte spinta incomincio a raccontare.
Lunedì 19 settembre 2005, quarto piano dell’ospedale Microcitemico di Cagliari, Day Hospital di Oncoematologia Pediatrica. Primo giorno di scuola.
Sono pronto a iniziare. Mi sono fatto preparare da Valentina, mia moglie, una maglietta con disegnato davanti uno scuolabus giallo. È la prima volta che le chiedo questo tipo di favore. E non sarà l’ultima: seguiranno due camiciotti, molto più disegnati e colorati, e un camice trasformato in frac dalla mia amica Anna. Dietro i primi, per vezzo e presunzione, c’è scritto in maiuscolo grandissimo: “Ma” a capo “Estro”.
Comunque, è lunedì 19 settembre 2005, sono le otto e mezza del mattino e mi trovo al quarto piano dell’ospedale Microcitemico di Cagliari, davanti alla porta chiusa dell’Oncoematologia Pediatrica, indosso la maglietta con lo scuolabus giallo davanti e… prendo tempo.
Oggi come allora, mi rendo conto. Faccio un respiro profondo. Entro.
Davanti a me c’è una persona seduta su di una cassettiera bassa; è un uomo, avrà sui trentacinque/quarant’anni. Mi guarda, capisce chi sono (potenza della maglietta con lo scuolabus e del tam-tam sull’arrivo del nuovo maestro), mi guarda e dice: «Benvenuto all’Inferno».
Mi viene fuori un sorriso ebete e una risposta idiota: «Grazie».
Lui è il padre di Federico, un bambino di quattro anni. Mi dice anche qualche altra cosa ma non me la ricordo, il saluto è stato più che sufficiente.
Devo confessare che, benché io sia cattolico e praticante, non credo nell’Inferno, e forse proprio per questo rimango ancora più sconcertato.
Mi guardo intorno e vedo uno spazio talmente sovraffollato che passa quasi in secondo piano il fatto che alcuni bambini siano collegati alle flebo, altri a delle sacche di sangue e che quasi tutti abbiano pochi e corti capelli. I ragazzi saranno una decina, e una quindicina gli accompagnatori (mamme, babbi, zie, nonne…). Vanno e vengono due infermiere e due medici, tre volontarie col camice verde propongono giochi da tavolo, la televisione è accesa. Mi sembra di essere a casa dei miei genitori per il pranzo di Natale.
Mi presento a qualcuno che mi guarda con insistenza e, appena si libera una microporzione di divano, ci poggio il sedere. Oggi, al quarto piano dell’ospedale Microcitemico, nel Day Hospital dell’Oncoematologia Pediatrica, quel pezzo di divano è la scuola. “Dove due o tre sono riuniti per imparare, lì è la scuola” diventa in poco tempo il mio motto.
Quel primo giorno incontro gli alunni con cui lavorerò, più o meno intensamente, per tutto l’anno scolastico; tra questi, sei sono in prima elementare e una in prima media.
Nei giorni successivi visito anche gli altri reparti. Giro per l’ospedale con una piantina per evitare di perdermi o, detto in modo più positivo, per sapere sempre dove mi trovo.
La settimana successiva partecipo alla prima riunione d’équipe. Ci sono tutti i medici e gli infermieri del Day Hospital, la psicologa e l’assistente sociale. Queste riunioni, che andranno avanti con lo stesso gruppo per sei anni, mi salvano e rafforzano la vita, dando spessore e profondità a quello che vedo e faccio. Oggi posso dire per certo che senza quegli incontri, forse, avrei risposto al «Come ci riesci?» con: «Non ci riesco».
Dopo qualche mese, grazie a una donazione, mi faccio comprare due librerie, un tavolino e un paio di piccole sedie; le sistemo nella sala del DH, delimitando uno spazio di due metri per uno: diventa chiaro a tutti che quella è la scuola. Ne ho conferma un giorno, quando, mentre sto facendo lezione, una bambina di tre anni si ferma fuori dallo spazio a guardarmi. Si chiama Sara, vede che sto facendo lezione e aspetta. Le domando se ha bisogno di qualcosa e lei mi chiede il permesso di “entrare”. Vorrebbe prendere un libro tra quelli che ho posizionato nella parte bassa della libreria, proprio per i bambini più piccoli.
«Certo che puoi entrare» le rispondo.
Adesso sono ancora più sicuro che è chiaro a tutti che quella è la scuola.
Inizio a conoscere i miei nuovi alunni e loro iniziano a conoscere me. Ogni cosa è una novità, anche come reagisco a queste novità è per me una novità.
I sei bambini che fanno la prima elementare si impegnano molto e mi impegnano molto. Le loro insegnanti usano metodi e approcci diversi. Per garantire a tutti loro il miglior rientro possibile in classe quando avranno concluso le terapie, devo tenere conto anche di questo. A volte capita che tre o quattro siano ricoverati insieme, ognuno nella propria stanza, e io viaggio dall’una all’altra, adattando tempi e metodi. Non mi capacito, oggi, di come possa esserci riuscito. O meglio, la risposta è che per essere un insegnante capace, è utile avere dei bravi alunni. Io li ho avuti e li ho.
L’esperienza più bella che faccio ogni giorno è quella di rendermi conto che in quei dieci, venti, trenta, sessanta minuti in cui sto con uno dei bambini, poi con un altro e con un altro ancora, ognuno di loro riesce a fare tanto, senza che quasi ce ne accorgiamo. A volte partiamo lenti, con fatica, perché la notte non è andata bene, perché il bambino ha avuto la febbre o perché è arrabbiato. Ma, a un certo punto, generalmente, qualcosa si sblocca; ognuno di loro lavora e si impegna, e anche io sono costretto a fare lo stesso.
La banda dei seienni impara a leggere e a scrivere. Ognuno fiorisce nel rispetto dei propri tempi, uno dopo l’altro. Ai genitori sembra di assistere a un miracolo, e in parte lo è. Non perché ci troviamo in ospedale (forse per i genitori anche per questo, anzi, soprattutto per questo), ma perché il passaggio dai suoni singoli al balbettio delle sillabe e alle parole intere, complete, una appresso all’altra, assomiglia veramente a un miracolo, ovunque accada.
Francesca, prima media, trascorre quasi tutto il primo quadrimestre ricoverata. È lei che mi insegna alcune parole nuove: “aplasia”, “aspirato midollare”, “rachicentesi”, “bianchi”, “CVC” (Catetere Venoso Centrale). Imparo anche i nomi delle malattie: LLA (Leucemia Linfoblastica Acuta), leucemia mieloide, neuroblastoma, linfoma di Burkitt, linfoma di Wilms, linfoma di Hodgkin…
Francesca conosce bene, di persona, l’aplasia. Qualche complicazione e tre lunghe aplasie, infatti, non le permettono di lasciare l’ospedale se non per qualche giorno a dicembre. L’aplasia è una brutta bestia, vuol dire che non hai nessuna difesa immunitaria, che i bianchi sono bassissimi e che, quindi, potresti prenderti qualunque virus, senza che il tuo organismo abbia la possibilità di combatterlo. Per questo, quando l’aplasia è totale, bisogna restare ricoverati, per evitare che accada qualcosa di irreparabile.
Mariano Argiolas (proprietario verificato)
Leggendo questo libro ho avuto la sensazione di vivere questa esperienza in prima persona, all’interno dell’ospedale. Cosi ben descritto e coinvolgente, commovente e toccante, talvolta molto doloroso.
Mi rendo conto che più che un mestiere questa é una missione, e necessita di una grande forza d’animo.
Complimenti!
Pierpaolo Piludu (proprietario verificato)
Due anni e mezzo fa, quando vivevamo ancora un’altra vita, ho avuto l’onore (una parola che utilizzo molto raramente) di leggere la prima stesura de L’altalena. Andrea mi aveva detto che si trattava “di materia ancora da plasmare”. Gli avevo risposto che, già da allora, L’altalena si leggeva tutta d’un fiato: come sa bene chiunque abbia letto qualche sua poesia o goduto dei racconti di Andrea dal vivo, c’era quella bellissima commistione di commozione e sorrisi che caratterizza tutte le sue storie. Anche se si tratta di vicende dolorose, senza nessuna enfasi o compatimento, c’è l’opportunità di rivivere quell’empatia che scatta nell’incontro tra esseri umani che hanno “semplicemente” piacere di ascoltarsi e di conoscersi, nel caso de L’altalena trattandosi di “storie d’ospedale”, mettendosi nei pigiami e nelle pantofole degli altri.
Oggi fare qualche giro sul primo libro di Andrea è un’esperienza ancora più intensa.
Anche se con imperdonabile ritardo, tanti auguri, caro amico!
Francesca Rossi (proprietario verificato)
Per errore ho messo un commento a nome di mio padre Vincenzo Rossi.
Lo scrivo anche qui, vi consiglio di leggere il libro di MaEstro Andrea con tutti i suoi racconti emozionanti!
Vincenzo Rossi (proprietario verificato)
Avevo 11 anni, ero pronta ad iniziare la scuola media ma purtroppo una brutta diagnosi proprio ad inizio settembre non mi permise di entrare in aula per un lungo periodo… È lì che la mia strada si è incontrata con un maestro molto speciale: MaEstro Andrea. Sono stata la sua prima alunna in ospedale (lo scrivo perché per me è un onore esserlo stata e me ne vanto 😂). Ogni mattina mi svegliavo facevo il prelievo e aspettavo il suo arrivo per correggere i compiti svolti la sera prima o per fare argomenti nuovi. Non ero sempre in forze, e non sono mai stata un’alunna perfetta, ma con lui ho iniziato ad amare la lettura e la scrittura soprattutto.
Questo prologo è per dirvi che MaEstro Andrea ha scritto un libro, dentro ci sono tanti racconti perciò qui sotto trovate il link per la prevendita. Cosa aspettate? ❤️
Tiziana Casti (proprietario verificato)
“Dove due o tre sono riuniti per ascoltare, lì è la condivisione” e io mi sono adagiata e ho iniziato questo libro.. apprezzando la dolcezza in cui ci si introduce al racconto. Sembra di essere in quel pezzettino di divano insieme a te e questo entrare nel contesto che di solito mi fa emozionare ed amare ciò che leggo.
Continuerò a stare su quel divano per gustare ogni emozione, sensazione e immagine che vorrai suscitarmi.
Marianna Cadeddu (proprietario verificato)
In punta di piedi, con parole delicate e potenti, Andrea emoziona, regalando, con grande generosità, fili di vita, storie intense e riflessioni che riempiono il cuore.
Grazie ❤️
Claudia Pilia (proprietario verificato)
“L’altalena” è stato uno degli ultimi spettacoli che ho avuto il privilegio di vedere prima della chiusura dei teatri ed è con grande piancere che partecipo a questo crowdfunding. Andrea Serra è stato uno dei responsabili, nonostante non mi conosca, di una delle scelte più radicali della mia vita, quindi non potevo mancare. Grazie.
Eleonora Cossu (proprietario verificato)
Ho conosciuto quei bambini in prima persona e sarà meraviglioso potermi emozionare di nuovo a distanza di anni! Grazie Andrea
Roberta Pippi (proprietario verificato)
Ho visto lo spettacolo in anteprima, nel mio teatro del cuore. Poi l’ho rivisto una volta e un’altra ancora.
Tutte e tre le volte è stato emozionante, bello, divertente. Non potevo non avere questo volume. Uno per me e uno per mia sorella, che l’ha visto l’ultima volta insieme a me.