Si sedettero ad un tavolino in fondo al bar. Si acclimatarono e guardarono chi c’era. Erano curiosi. Tremendamente curiosi tutti e due. Avevo elaborato teorie su alcuni avventori abituali. Giocavano a capire quale lavoro facessero e quali rapporti intercorressero fra loro. Quando finalmente ne scoprivano la mansione, allora il gioco si faceva più interessante. Dovevano indovinare il lato oscuro, la parte stravagante dei personaggi, capire cosa bruciava sotto la cenere, che hobby avevano e che genere di argomenti approfondivano su internet. L’idea di divertirsi con questa attività di investigazione venne a Luca quando, una sera verso le otto, vide un cliente abituale del bar entrare in una scuola di ballo latinoamericano. Era un impiegato di banca di mezza età, un Bartleby dai radi capelli grigi, sempre serio, compito, caliginoso, magro, con occhiali dalle lenti spesse, gilet di lana a rombi e valigetta molle, che mangiava sempre solo e guardava nel vuoto. Fu davvero un viaggio psichedelico immaginarselo mentre ondeggiava il bacino al ritmo di una conturbante bachata.
Luca aveva raccontato la sorprendente scoperta a Laura e (certamente per poterle dimostrare la sua grande inventiva) le aveva proposto quella ricreazione. Lei aveva accettato.
Quel giorno l’unica situazione interessante era una coppietta tutta smancerie che si vedeva solo il mercoledì. Erano chiaramente due amanti clandestini, non c’era dubbio, l’avevano capito perché appena la porta del bar si apriva entrambi, di scatto, giravano la testa verso l’entrata come due gufi impauriti. Laura e Luca da tempo cercavano di ricostruire la storia. S’erano immaginati un ampio ventaglio di quadri globali che andavo dal profondo trash alla fiaba più romantica. Ma la loro indagine non aveva ancora fatto progressi.
Arrivarono le liste. Laura si mise a leggere. Luca fece finta e guardò la sua amata di sottecchi. Lei leggeva e delicatamente si solleticava dietro l’orecchio con l’indice teso. Lui era inebetito, ma sperava non si vedesse troppo. Era un esercizio di nervi, cercava di mantenere la calma. Bruciava d’amore.
Ordinarono.
In quell’ambiente mordi e fuggi i gesti delle persone erano rapidi e nervosi, le mani andavano a stringere il nodo della cravatta, a togliere pelucchi dai vestiti, a raddrizzare gli occhiali sulla faccia. E i discorsi si mantenevano noiosamente sul generale, anche se con toni da intenditori, un esercito di custodi della verità assoluta, vanagloriosi esperti di finanza, di politica, di calcio, di medicina alternativa.
Laura disse: “Ti dona questa camicia”
“Grazie” rispose Luca abbozzando un mezzo sorriso.
Parlarono di lavoro. E poi di cibo; la sera prima lei si era cimentata in una pasta coi broccoli. “Mmm, buonissima” disse trapanandosi la guancia col dito. Luca avrebbe accettato qualsiasi tipo di conversazione, qualsiasi argomento, anche realtà alle quali era davvero indifferente, purché lei continuasse a parlargli puntandogli addossi quegli splendidi occhi color ebano, a sorridergli delicatamente con infinita grazia, a muovere le mani come se volesse liberarle da una sostanza appiccicosa.
Laura sapeva che Luca era un ragazzo colto, ma dato che era anche solito parlare alle persone senz’alcun accenno di boria, lei non s’era mai trovata in difficoltà. Era cauta, ma non perché si sentisse inferiore, solo per rispetto. Si faceva consigliare, questo sì, ma non aveva paura delle proprie opinioni. La scuola non era riuscita a coinvolgerla granché, i suoi genitori nemmeno, invece Luca con la sua pazienza riusciva spesso a darle buoni consigli.
Luca cercò di gustarsi il più a lungo possibile quello stato di grazia, quella piacevole sensazione di leggerezza. Si godette pigramente il caffè e disse a Laura che avrebbe volentieri bigiato al lavoro per fare una lunga passeggiata con lei. Laura annuì e poi sospirò incassando il collo nelle spalle.
La pausa pranzo era agli sgoccioli, si alzarono dal tavolino, buttarono lì due spiritosaggini col gestore del bar e uscirono in strada. Laura si fece avvolgere dalle spire della sua lunga sciarpa bordeaux e si accese una sigaretta. Luca si mise le mani in tasca e per un attimo si sentì audace al tal punto da chiederle di uscire a cena. Ma, tra una cosa e l’altra, come spesso capitava, perse l’attimo. Era una costante; in queste occasioni non riusciva né ad essere spigliato, né coraggioso. Si rigirava le frasi nella testa, pensava alla forma migliore, quella più discreta, ma che allo stesso tempo non lasciasse dubbi sulle intenzioni. Poi però non sapeva trovare il momento e, inoltre, aveva il terrore di apparire goffo. Si salutarono e tornarono al lavoro. Luca era comunque radioso, aveva trascorso un’ora con lei e si accontentava.
Quel pomeriggio si sentì leggero e fece alcuni viaggi consolanti con la fantasia. I suoi colleghi se ne accorsero e commentarono divertiti quei sorrisi beati che facevano capolino sul suo viso.
Il signor Verani concluse dicendo: “quel fioeù lì gh’ha de vèss pròppi innamoraa”.
Quella sera tornando a casa in bicicletta, Luca fece un tragitto più panoramico. Infilò un paio di stradine che gli erano sempre piaciute e fischiettò allegramente un pezzo musicale sentito alla radio nel pomeriggio. Si scoprì più attento ai particolari, meno angosciato dall’imbrunire. Pedalò lentamente fino a via Lincoln: la via più bella di Milano. Percorse quei cinquecento metri di case colorate e basse che formavano un piccolo villaggetto, ascoltando deliziato i rumori domestici e i profumi delle piante da giardino.
Poi prese via Pisacane dove una scuola gli fece tornare alla mente dolci ricordi. Svoltò in via Bellotti e arrivò in piazzetta Duse. Qui c’era aria di Grandeur milanese. Niente uggia e niente cattivo gusto.
Quattro palazzi, quattro stili differenti e un disordine architettonico inspiegabile, ma interessante. Al numero uno il tipico palazzo del centro di Milano, di color avorio, irregolare nell’aspetto, con decorazioni differenti per ogni piano, qualche balcone e due statue sdraiate; al numero due un curioso edificio: fino al terzo piano in stile socialismo reale, grigio e schematico con sederi di vecchi condizionatori alle finestre e poi, come se un architetto di Kiev avesse passato il testimone al collega ligure, finito in altezza da un trionfo di colori pastello. Al numero tre una casa giallina che ricorda vagamente la facciata del Teatro alla Scala. Al numero quattro il palazzo più interessante, con una lunga fila di balconi con colonnine, un mischione schizofrenico di stili e l’immancabile ferro battuto liberty a protezione delle finestre in alto. Al primo piano spiccano una decina di statue di uomini aitanti che, reggendo marmorei basamenti, mostrano i muscoli; simbolo di potere economico, di ricchezza, ma anche, nelle giornate no, un’evocazione della pesantezza esistenziale.
Fece due giri della piazza, perché in quel luogo si sentiva protetto e invaso da orgoglio meneghino, poi puntò casa.
Mise la bici in cortile e raggiunse la casella della posta.
Il rettangolino bianco era lì, lì che lo aspettava. Il timbro della casa editrice gli provocò un leggero vacillamento.
– Forse giornata da circoletto rosso – pensò. Arrivò in casa, buttò zaino e giubbotto sul tappeto e si sedette alla scrivania.
Lesse.
La vita non fa sconti, non segue un ritmo regolare, non è in grado di garantirti nulla, ti devi aspettare di tutto, e sembra sadico il meccanismo che rompe la tua momentanea serenità.
Luca scese rapidamente dalle alture dove svolazzava e si prese la testa fra le mani.
“Maledizione!” disse ad alta voce.
Aveva la sensazione che l’eccessiva felicità e gli entusiasmi di quel pomeriggio avessero infastidito le sfere celesti e si fosse pensato, previa consultazione, di riservargli un trattamento alla Giobbe. Era un’altalena folle di sentimenti contraddittori, prima l’amore e la speranza, ora la sfiducia e la tristezza.
“Ma un paio di giorni buoni uno infila all’altro, no? E che è!” disse ad alta voce, invischiato in dialoghi con angeli custodi o simili. Si sentiva punito e da spavaldo Gastone, trasformato in un Paperino mesto e sfiduciato.
“Gentile Luca Cattaneo,
abbiamo ricevuto il suo manoscritto e La ringraziamo per averci dato la possibilità di esaminarlo.
Purtroppo dobbiamo dirle che la nostra commissione di lettura non ha ritenuto il Suo lavoro adatto ad essere inserito nelle nostre collane.
Nel ringraziarla bla bla bla bla bla bla”
Era il dodicesimo rifiuto.
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