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L’amico di Mauro

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Il cadavere del piccolo Darietto è stato ritrovato su una spiaggia. Dopo due anni il caso è ancora aperto, non si sa molto di più e la vita è dovuta andare avanti un po’ per tutti. Finché l’ombra del passato non fa ritorno: Mauro, il fratello di Darietto, inizia a ricevere telefonate anonime e a casa gli viene recapitata una busta piena di foto che lo ritraggono in compagnia dell’amico Pietro nella vecchia fabbrica di pomodori dove passano i pomeriggi. Decisi a scoprire cosa sia successo davvero a Darietto, i due si mettono sulle tracce di Bill Dal Monte, un camionista affiliato alla malavita intorno al quale ronzavano Darietto e i suoi amici. Ma la verità che emergerà dalle acque ferme e scure in cui galleggiava il corpo del bambino sarà quasi impossibile da sopportare.

PIETRO

Non sento niente. Mi portano in una stanza con le sedie di plastica arancioni, la mano di mia madre, due dita afferrano un lembo della gonna, il tessuto è leggero e bianco come la pelle del geco albino, fuori fa molto caldo, nella stanza, nell’angolo più lontano, quello senza sedie, c’è il condizionatore dell’aria, le dita afferrano il tessuto, la pelle del geco albino si tende sopra il ginocchio ossuto di mia madre. Seduto di fronte a noi c’è un uomo che ha la forma di una scamorza, un paio di baffi folti e ispidi del colore della ruggine gli nasconde la bocca. Dal condizionatore dell’aria viene fuori un tubo di plastica a fisarmonica, il tubo scavalca la finestra. Nella stanza c’è una porta e dietro la porta un uomo che non conosco.

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Lunedì mattina mia madre ha preso un biglietto dove c’era scritto un numero di telefono, Clara incollava l’elegante testa di un’antilope al corpo massiccio di un alligatore. Clara è mia sorella. Mia madre ha infilato l’indice nella rotella del telefono e l’ha fatta girare sei volte. Quando si è accorta che la stavo fissando, la faccia le si è aperta in basso, si è sistemata con una mano la frangetta e ha sorriso.

L’uomo scamorza ha gli occhi stanchi e acquosi, non li toglie dalle ginocchia di mia madre. Lei si gira verso di me, la pelle della sua faccia si apre in basso, mi sorride. Il tubo a fisarmonica del condizionatore d’aria perde acqua, nell’angolo più lontano dalle sedie di plastica, sul pavimento, si è formata una piccola pozza, dentro sono nate le larve delle zanzare. Tra l’uomo scamorza e la donna magra e pallida dal collo lungo, sprofondata dentro una sedia a rotelle dallo schienale alto e molto reclinato all’indietro c’è una ragazza con i capelli tagliati cortissimi, quasi non ce li ha, i capelli. Un braccio è piegato contro il suo corpo e la mano è tutta storta, con il pollice nascosto nel palmo mentre le altre dita sono dritte e immobili. L’uomo scamorza toglie gli occhi dalle ginocchia di mia madre, la donna magra e pallida dice: «Prendi Elena». La donna è sua moglie. La porta si apre. Le larve delle zanzare galleggiano.

Domenica sera mia sorella ha alzato la cornetta del telefono, il sopracciglio ha avuto un tremito e l’occhio le si è serrato. «Un attimo» ha detto. Ha attraversato a passi stretti e lenti la stanza con la ragnatela che le incollava gli occhi al pavimento. Si è torturata l’indice di una mano con il pollice dell’altra fino a quando non ha bussato alla porta dello studio di mio padre. Mio padre è un uomo molto alto, con i peli delle braccia che sono biondi e numerosi, quando cammina si porta dietro la forma del culo di sua madre che è morta l’anno scorso lasciando mio nonno in compagnia di un secchio di rame. Clara bussa alla porta, lui sta seduto nello studio, viene di qua per rispondere al telefono. Lo chiamano dall’ospedale. C’è bisogno. Clara si dispiace, è il suo compleanno. Ha sedici anni, quando aveva la mia età alcuni dottori si erano riuniti, avevano parlato, qualcuno aveva detto che non ce l’avrebbe fatta, invece poi ce l’ha fatta. Quando cambia il tempo, la cicatrice che le segna il petto le fa male. Mia madre e mio padre parlano al centro della stanza. Mia madre solleva un piede portandoselo dietro, con le dita si sistema la scarpa col tacco.

«Ma il cinema, pa’…» dice mia sorella.

E lui: «Lo sai che non posso dire di no quando mi chiamano». E lei: «Ma adesso ti sto chiamando io».

Lui non sa risponderle.

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Giuseppe Merico
È nato nel 1974 a San Pietro Vernotico, tra Brindisi e Lecce, e vive a Bologna. Ha pubblicato la raccolta di racconti “Dita amputate con fedi nuziali” (Giraldi, 2007), il romanzo “Io non sono esterno” (Castelvecchi, 2011) e il romanzo “Il guardiano dei morti” (Perdisa Pop, 2012). Il suo sito è www.giuseppemerico.it
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