e l’ha fatta girare sei volte. Quando si è accorta che la stavo fissando, la faccia le si è aperta in basso, si è sistemata con una mano la frangetta e ha sorriso.
L’uomo scamorza ha gli occhi stanchi e acquosi, non li toglie dalle ginocchia di mia madre. Lei si gira verso di me, la pelle della sua faccia si apre in basso, mi sorride. Il tubo a fisarmonica del condizionatore d’aria perde acqua, nell’angolo più lontano dalle sedie di plastica, sul pavimento, si è formata una piccola pozza, dentro sono nate le larve delle zanzare. Tra l’uomo scamorza e la donna magra e pallida dal collo lungo, sprofondata dentro una sedia a rotelle dallo schienale alto e molto reclinato all’indietro c’è una ragazza con i capelli tagliati cortissimi, quasi non ce li ha i capelli. Un braccio della ragazza è piegato contro il suo corpo e la mano del braccio piegato è tutta storta, con il pollice nascosto nel palmo mentre le altre dita sono dritte e immobili. L’uomo scamorza toglie gli occhi dalle ginocchia di mia madre, la donna magra e pallida dice, “prendi Elena.” La donna è sua moglie. La porta si apre. Le larve delle zanzare galleggiano.
Domenica sera mia sorella ha alzato la cornetta del telefono, il sopracciglio ha avuto un tremito e l’occhio le si è serrato. “Un attimo,” ha detto. Ha attraversato a passi stretti e lenti la stanza con la ragnatela che le incollava gli occhi al pavimento. Si è torturata l’indice di una mano con il pollice dell’altra fino a quando non ha bussato alla porta dello studio di mio padre. Mio padre è un uomo molto alto, con i peli delle braccia che sono biondi e numerosi, quando cammina si porta dietro la forma del culo di sua madre che è morta l’anno scorso lasciando mio nonno in compagnia di un secchio di rame. Clara bussa alla porta, lui sta seduto nello studio, viene di qua per rispondere al telefono. Lo chiamano dall’ospedale. C’é bisogno. Clara si dispiace, è il suo compleanno. Ha sedici anni, quando aveva la mia età alcuni dottori si erano riuniti, avevano parlato, qualcuno aveva detto che non ce l’avrebbe fatta, invece poi ce
l’ha fatta. Quando cambia il tempo, la cicatrice che le segna il petto le fa male. Mia madre e mio padre parlano al centro della stanza. Mia madre solleva un piede portandoselo dietro, con le dita si sistema la scarpa col tacco.
“Ma il cinema, pà…,” dice mia sorella.
E lui, “lo sai che non posso dire di no quando mi chiamano,” e lei, “ma adesso ti sto chiamando io.”
Lui non sa risponderle.
Un’amica di mia madre dice che siamo una famiglia molto unita. Incrocia le dita di una mano con quelle dell’altra per far capire bene a mia madre quello che intende dire, mi guarda senza sciogliere il nodo delle dita. Dice che siamo fortunati.
Lunedì mattina mia madre ha parlato al telefono con l’uomo che sta dietro la porta, l’uomo che ci sta di fronte. L’uomo sorride a mia madre, sorride a me, dice che questa è una seduta di conoscenza. Quando abbiamo finito di parlare dice che il lavoro, quello vero e proprio inizierà dopo. Un lavoro lungo, dice.
Mi chiamo Pietro Manni, ho tredici anni e ho il lobo dell’ orecchio destro che avrebbe avuto bisogno di più tempo per nascere, quando io sono nato, lui è rimasto un’idea.
Il giorno che Mauro Nitti si è lanciato dalla finestra della scuola si sono alzati tutti, io sono rimasto fermo, seduto, fino a quando non è arrivato intenso l’odore della pelle di mio padre. Fuori dalla finestra della stanza non c’è la fabbrica, ci sono le foglie verdi, larghe e numerose di un albero molto alto, tanto numerose da nascondere i rami.
Mauro Nitti abitava dietro la pista di motocross, conosceva di persona Paolo Gemma che con la moto era il più bravo di tutti. Aveva due cani giapponesi e leggeva più fumetti di quanti ne leggessi io. Il padre di Mauro Nitti, i fumetti li fa, li disegna proprio, li leggono in Germania, in Francia, nel Regno Unito e in un altro paese che non ricordo. E’ stato l’inventore delle storie di Palca X, una buffa pianta aliena atterrata per sbaglio
sul nostro pianeta. In classe Mauro Nitti sedeva nell’ultima fila, diceva sempre che un giorno se ne sarebbe andato, che sarebbe andato a vivere in Giappone. Quando non ne voleva sapere niente di quello che stava spiegando il professore nascondeva la faccia dietro la cartina geografica appesa al muro. Il mondo intero è diviso in quattro grossi spicchi. Di fratelli non ne aveva, non più, in classe eravamo i soli, io e lui, ad avere problemi con il dialetto del paese. Non lo sapevamo parlare.
Al cinema ci siamo andati senza papà, al primo spettacolo della sera. Se lui avesse finito prima in ospedale ci avrebbe raggiunti in pizzeria, ma non ha finito e quando siamo tornati a casa dopo il cinema lui ancora doveva rientrare.
La fabbrica l’abbiamo scoperta l’estate scorsa. Il cielo si era tinto di mosto, le nuvole riflettevano la luce del tramonto di luglio, sembrava fossero decollate da un punto lontano, compatte come uno stormo, fino ad arrivare a noi, sopra le nostre teste, fino a sfilacciarsi sopra il paese quasi fossero fatte di stoffa esausta, tirata, che aveva raggiunto il suo punto di rottura e lo aveva oltrepassato. Era il momento del giorno in cui gli archi neri che sono le rondini lasciano il posto al frenetico frullìo delle ali dei pipistrelli, le traiettorie aeree erano le stesse, era la morte degli insetti.
Nella fabbrica ci sono i macchinari, le scale di metallo, le rampe, le catene appese al soffitto, le cinghie di trasporto, i lucernari, le cassette di plastica, quelle di legno, i muletti, i bidoni, i ganci, i contrappesi, le sedie, le scrivanie, i corridoi, gli ascensori, le saracinesche, i carrelli, i bagni, la carta, la plastica, la latta, l’acciaio, la ruggine, il vento che attraversava le finestre rotte e leccava i vetri, i fascicoli, gli schedari, gli armadi, le serrature rotte, i lucchetti nelle pozze d’acqua piovana, l’acqua piovana, l’ombra, molta ombra, la luce, la luce a righe, a quadri, le nidiate dei topi, le lunghe lamelle di silicone, di grasso, d’olio, le lattine di carburante, le casseforti scassate, il fantasma di Bill Dal Monte.
Mauro Nitti, era stato lui a scoprire la fabbrica.
Quando ormai eravamo di qua del cancello tutto divorato dai rovi, un bambino pelle e ossa, bruciato dal sole, in mutande, ci aveva guardato standosene a spenzoloni sul dorso di uno dei due leoni di pietra che si trovano alla sommità delle colonne, all’entrata della masseria che sta dall’altra parte della strada provinciale, quella che porta al mare.
Ho le sbarre agli occhi. Mio padre lascia che l’acqua scivoli sotto il lavandino. La luce delle due del pomeriggio è forte, il silenzio è rotto dal rumore monotono dell’innaffiatore, le forme dei fiori ricamati sopra la tendina della finestra si allungano sul pavimento, diventano ombre di fiori di stagno, fiori d’acqua. La radiolina nera del bagno è accesa sul termosifone spento. Mio padre si passa la spugna insaponata su tutt’e due le braccia, odore di mango, la luce fa brillare i peli biondi, le mani inseguono l’acqua, sopra le dita sono montati i mirini trasparenti. Ogni dito, un mirino. I mirini gli servono per guardare meglio quello che sta facendo quando entra nella carne della gente. Muove la testa avanti e indietro, va a tempo con la musica, si morde il labbro di sotto con i denti, lo fa quando è attento o felice. Quando c’è lo schianto del vetro le sbarre agli occhi sono ancora lì. Nel bagno piove la luminescenza dei vetri, l’ombra delle braccia di mio padre si stende sopra la mia testa per proteggermi. Il proiettile che ha sfondato la finestra smuove l’acqua caduta sotto al lavandino, da lì rimbalza contro la vasca da bagno, si ferma circondato dalla costellazione di vetri taglienti e caldi, uno di loro mi ha aperto uno squarcio nella spalla. Piccolo. Il sangue è affezionato alle mani di mio padre, il sangue che adesso è sulle sue mani è il mio. Lui non ci fa caso.
“Fammi vedere,” dice.
Mauro
La fabbrica è il dinosauro di ferro, il cavallo di legno, la pietra grigia, il monolite. Tutto attorno ci è cresciuto il paese. Nella sala d’aspetto della stazione le macchinette per timbrare i biglietti sono rotte. Chiami l’addetto alla biglietteria per timbrare il biglietto del treno e devi aspettare perché si è perso nella luce del sole che sta nella stanza di dietro dove c’è il tabellone con le linguette di plastica dei i treni in arrivo e in partenza, l’addetto alla biglietteria stacca e attacca. Fuori dalla stazione c’è la rotonda. I cani fanno la giostra, i cani del paese, i cani di nessuno, quando qualcuno di loro si ferma in mezzo alla rotonda devi suonare il clacson e anche dopo non è sicuro che si alzi e se ne vada, gli altri cani lo guardano con gli occhi stanchi, abituati, uguali a quelli dei vecchi, e come i vecchi hanno la barba che gli è cresciuta sotto al muso. Se dalla stazione ferroviaria prosegui diritto arrivi alla piazza. Nella piazza ci sono i circoli dei vecchi e i vecchi crollati sopra le sedie di legno, una ragazza che attraversa da sola la piazza con addosso un vestito un po’ attraente, i vecchi la chiamano puttana. Mauro Nitti abitava lontano dalla piazza, dall’altra parte della linea, la linea ferroviaria, dove hanno costruito le villette nuove in mezzo agli alberi, di notte sentivi il canto delle civetta, il clangore dei treni che non avevano fine e che affondavano ancora di più nella notte, fino al suo termine, il termine della terra, potevi sentire gli spergiuri dellu ‘Ndò. Mauro Nitti usava la bicicletta. Due anni prima, quando era successo il fatto, l’acqua degli occhi gli si era prosciugata. Io non lo conoscevo e quando l’ho conosciuto non parlava con nessuno. Ce lo accompagnò suo padre a scuola quando l’anno scolastico era già iniziato. Non parlava. Aveva guardato da vicino lo strappo del mondo che conosceva.
Quando abbiamo scoperto la fabbrica Mauro Nitti stava
ricominciando a vivere.
Il mio nome è Pietro Manni, ho tredici anni, tre volte la settimana, alle cinque del pomeriggio busso alla porta del Cappotto. Il Cappotto è largo. Delle volte stiamo solo in silenzio, per quarantacinque minuti. Vengo dopo la figlia dell’uomo scamorza, lui e la moglie sono scesi da Milano, adesso vivono al paese, la figlia è un vegetale piantato sopra una carrozzina con lo schienale reclinabile, se la innaffiano lei non trattiene l’acqua, l’acqua bagna le ruote di gomma, si fa strada sul pavimento, diventa nutrimento per le larve delle zanzare che stanno nella pozza, nella parte dello studio più lontana dalle sedie di plastica. La figlia dell’uomo scamorza non trattiene, lascia andare, con una faccia che ha perso ogni espressione.
Il Cappotto mi chiede come sto e di cosa vogliamo parlare, aspetta, ascolto il tic-tac che fa l’orologio appeso al muro, mi guarda, abbozza un sorriso, io no, mi tocco la spalla destra, faccio una smorfia, mi chiede cos’ho. “Male,” rispondo.
“Mi tira,” dico.
“Cosa.” aguzzando gli occhi, lo sguardo. “La medicazione.”
Vuole sapere, chiede, se gli racconto va bene, se non racconto va bene lo stesso, non insiste, non preme.
“Ero in bagno con papà, seduto sopra il bordo della vasca, eravamo stati in giardino a sistemare l’innaffiatore, quello sotto al salice, mio padre si stava lavando e la palla di scotch è entrata. Papà mi ha disinfettato e medicato.”
“Una palla di scotch?” “Sì.”
“E chi l’ha lanciata?”
“Lo scemo, fa queste cose perché è innamorato di mia sorella.” “Lancia le palle di scotch contro le finestre.”
“Sì.”
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