Neanche stanotte ho dormito. Mi succede spesso ultimamente. Dipingo fino all’alba. La mattina posso recuperare, ormai mi sono abituato. A volte mi sveglio verso le dieci, la testa pesante, la bocca arsa. Infilo le ciabatte di pelle e mi guardo i piedi ossuti e le caviglie pelose che sbucano dal pigiama a righe, troppo corto, devo andare alla Upim a comprarmene uno nuovo, e inizio così la giornata, a passo rallentato, con la prospettiva di una serie di impegni che non so se mi andrà di portare a termine, spesa, bollette, lavanderia… Non sono depresso, ci ho pensato a lungo, conosco la depressione, è quel pozzo profondo e buio nel quale all’improvviso cadi, per un po’ tenti di arrampicarti fuori, di uscire a cercare la luce, ma poi ti raggomitoli sul fondo e chiudi gli occhi cercando il vero buio, quello punzecchiato di vari colori, puntini, flash, un caleidoscopio che a guardarlo bene sembra quasi un gioco, no, non sono depresso, sono solo un po’ annoiato e stanco.
Quella stanza là in fondo al corridoio è il mio studio. È la mia valvola di scarico, un bagno di colore, di luce, di aria, anche se sto al chiuso e apro le finestre solo quando l’odore dell’acrilico e dei solventi mi prende alla gola, perché mi dà troppo fastidio il rumore della strada, un rumore che negli ultimi tempi è decuplicato, motorini, clacson, urla, la gente grida, i bambini piangono, i cani abbaiano, la città con i suoi rumori mi divora, senza scampo. In questo periodo dipingo quadri enormi. Mi impegnano di più, così non penso. A volte mi dimentico persino di mangiare. Vado in bagno e allo specchio mi vedo le rughe, il volto sempre più scavato, la barba di tre giorni, a chiazze sale e pepe, come i capelli, che tutto sommato sono ancora abbastanza scuri, ma negli occhi ho quella luce, la stessa di quand’ero ragazzo, una specie di febbre, di bramosia, Pascal mi diceva che avevo lo sguardo da pazzo, io ridevo e gli rispondevo che era solo lo sguardo di un giovane pittore soddisfatto delle sue creazioni.
Mangiare comunque mangio poco. Sono diventato vegetariano. Un po’ di verdure le ho piantate nel piccolo orto in fondo al giardino. Sono fortunato ad avere un giardino in città, ho sette alberi da frutto, a marzo è uno spettacolo vedere la loro fioritura, sì, sono un uomo fortunato, anche se faccio molte economie e ho la pensione minima, avrei potuto essere ricco, ma non me ne frega niente, mi faccio bastare quello che ho, con gli anni sono diventato austero e saggio, poco mangiare, poco bere, qualche flessione prima di colazione, camminate e bici, il footing non mi è mai piaciuto, ci ho provato un paio di volte sul Lungarno vicino alle Cascine, ma mi veniva subito l’affanno e mi sentivo un vecchio idiota. In fondo non mi manca niente, la casa è mia, ho qualche buon amico, un passato che si allontana e un futuro dai confini sempre più ristretti. Ma questo è un bene, vivo alla giornata, senza aspettarmi regali o miracoli. Carpe diem. Così vivo io. E non è poi così male. Incontro i miei amici, chi è vedovo, chi è separato, io sono l’unico scapolo, adesso si dice quell’orribile parola, single, che sa di spaiato, come una tazzina sbrecciata, ma io non mi sento spaiato, donne ne ho avute tante, ci sapevo fare, un paio di convivenze da giovane, finite male, poi ho sposato la pittura, le mostre, i cataloghi d’arte, i negozi profumati di vernici e carta di Fabriano, i pigmenti, gli oli, le resine. Io sono uno olfattivo, la vista non è il mio senso, è quasi come se non mi guidasse lei mentre dipingo, ma un senso più esteso, che li raggruppa tutti, capitanato dall’olfatto.
Adesso esco a fare la spesa. Mi manca il pane e devo ricordarmi del caffè, andrò alla torrefazione, lì costa un po’ di più, ma vuoi mettere l’aroma…
***
Una donna sta innaffiando una pianta di ficus su una piccola terrazza. Un gatto siamese le si strofina alle gambe facendo le fusa. La terrazza è curata, piena di piante: gerani, azalee, margherite, erbe aromatiche. Ma si vede che la pianta di ficus è la sua prediletta. Lucida le foglie una a una, le accarezza, controlla che il terreno sia abbastanza umido, stacca con gentilezza una foglia morta.
La donna si chiama Ada. Un nome breve, luminoso, morbido, che le si addice. Non è molto alta, ha il viso dolce, gli occhi chiari e una figura snella, senza essere angolosa. Una ragazza di quarant’anni. La casa è piccola e ordinata. Dappertutto libri, soprattutto d’arte e fotografia, alle pareti affiches raffiguranti i fiori di Georgia O’Keeffe, sotto la finestra un divano bianco e un tavolino di ferro battuto. Nella cucina, illuminata da un lucernario, un tavolo di marmo con al centro un piatto tunisino colmo di arance e limoni. Le sedie sono antiche, una diversa dall’altra, frutto delle sue puntate al mercatino di piazza de’ Ciompi. L’angolo cottura e il lavandino sono in muratura, con piccole piastrelle di Vietri. Dalla porta socchiusa si intravede un letto a una piazza e mezza. Ada adesso è in bagno e si sta truccando. Un po’ di rossetto rosa antico, una pennellata di colore sulle guance e una passata di mascara. I capelli li lega in una coda. Prima di uscire di casa fa una carezza al gatto e prende una cartellina blu dalla consolle.
Eugenia
Non si è fatto vivo neppure oggi. È diventato crudele. Lo sa che sto in ansia, lo sa che mi arrovello. Non sono riuscita a fare niente stamattina, niente. Buttata qui su questo divano pieno di peli di gatto e di pezzi di stoffa tagliuzzati. Dovrei fare la spesa, il frigo vuoto è un’ecatombe di moscerini morti. Mistero. Come ci sono entrati? Eppure mi sforzo di tenerlo pulito, ma è diventato vecchio, perde acqua, l’ultima volta l’elettricista mi fa: «Signora, da quanti anni ce l’ha questo coso?».
Senza neanche aspettare la risposta continua: «Lo sa che adesso gli elettrodomestici sono programmati per durare dieci anni? Non un giorno di più. Si arrugginiscono, non raffreddano o non riscaldano come si deve, e neanche si possono aggiustare. Ascolti me, vada alla Casa dello Sconto e se ne compri uno nuovo. Ecco, per la chiamata mi deve trentamila».
E io sono rimasta lì come una cretina, con il mio frigo che perdeva acqua e trentamila lire di meno. Insomma Filippo non mi chiama. Forse sta male. In quella casa umida in campagna non ha le comodità. Gli ho detto qui puoi venire quando vuoi, mi porti i vestiti da lavare, ti preparo le lasagne con le verdure, ma lui, imbronciato e ispido come sempre, ha finito di mettere qualche straccio in una sacca, mi ha dato un bacio storto e se n’è andato. Ho sentito che ha l’alito pesante, ha i denti cariati, gli ho detto va’ da Giancarlo, poi passo io a saldare, se continui così a cinquant’anni ti dovrai mettere la dentiera. Ma lui aveva già sbattuto la porta.
Quasi quasi mi faccio uno shampoo, come dice Gaber, e metto su una lavatrice. L’acqua mi pacifica, mi lava via il dolore e l’ansia. C’era un periodo, dopo Pablo, che caricavo anche due o tre lavatrici al giorno, guardavo il cestello girare, come ipnotizzata, in quella lavatrice stavo centrifugando le mie pene, strizzando le mie paure, sbiancando i miei sensi di colpa.
I panni sporchi si lavano in famiglia. È proprio vero. Si lavano in una lavatrice che fra un po’ perderà i pezzi, proprio come il frigo, e che quando fa la centrifuga comincia a camminare per il bagno, fino all’ultimo giro che finisce con un enorme botto. No, né shampoo né lavatrice, riempio la vasca fino all’orlo e ci metto dentro dell’olio di lavanda, mi rilassa. E mentre la vasca si riempie, do una spazzata in salotto e cambio il copridivano. Lo shampoo me lo faccio domani, dopo l’henné, ho una ricrescita paurosa e il resto dei capelli color carota. Mi sa che dovrò passare a una tinta normale. Ma costa. E il Teatro ancora mi deve pagare le riparazioni fatte.
Ada
Benvenuto non è un utente facile. Ma neppure uno dei più difficili. Mi sa che dovrò cambiare approccio. L’ultima volta sono stata troppo severa, credo di aver esagerato, ho alzato la voce. Ho visto che il secondino aveva la faccia preoccupata. Per fortuna ho un buon autocontrollo. Ma dopo mi sentivo strana. A cena da Giulia non ho quasi aperto bocca, tutti ridevano e io pensavo alle grosse mani di Benvenuto, me le immaginavo cadere pesanti sulla schiena di sua moglie fino a romperle due costole, vedevo le sue unghie rosicchiate, le sue dita nodose, provavo fastidio e pena, mista a rabbia, ma devo mantenere la calma, non posso lasciarmi coinvolgere, ma come si fa, con tutte queste donne massacrate, uccise da mariti brave persone fino al giorno prima, almeno a detta dei vicini, come si fa a non farsi coinvolgere? Forse sono solo un po’ stanca e ho bisogno di distrarmi. Ma Benvenuto non è un delinquente, si può recuperare, spero che venga inserito nel gruppo di auto-aiuto. Comunque ho bisogno di ferie. Mi sa che mi prendo una settimana e vado da Luisa.
Giancarlo
All’edicola ho incontrato Giorgio. Laconico come al solito. Mi ha beccato mentre compravo quella rivista sulla Nouvelle Cuisine. Naturalmente mi ha preso in giro, mettendo una mano prima sul mio stomaco prominente e poi sul suo ventre piatto, da fachiro. Che ci posso fare se mi piace la buona cucina? E poi io ho una costituzione robusta e sono convinto che, anche se mi mettessi a dieta, calerei al massimo di mezzo chilo. Abbiamo deciso di andare a cena fuori domani, naturalmente al vegetariano. Purtroppo sono in minoranza. Anche Eugenia è vegetariana, anzi vegana, che è ancora peggio, per carità, ognuno è libero di fare le proprie scelte, ma come si fa non dico a non mangiare più la bistecca alla fiorentina, ma il formaggio caprino, la gruyère, il camembert, il parmigiano, la mozzarella di bufala? Come si fa? E a privarsi di omelette, uova in camicia, alla coque (che grande risorsa è l’uovo alla coque nelle sere d’inverno, con la crosta del pane a rompere il rosso tiepido del tuorlo…) come si fa? Mi adatterò, come al solito. E speriamo che Eugenia non stia in depressione, questa storia del figlio che vive in campagna e non si sa bene come, con che soldi, in che condizioni e soprattutto che roba prenda (acidi? Anfetamine? Hashish?), la sta provando molto. Io non me ne intendo di droghe, i miei figli, per fortuna, con quella madre che si ritrovano, sono tutti casa e chiesa e pellegrinaggi in Polonia. A me Filippo sembra completamente fatto, Eugenia non vuole ammetterlo, ma si vede che soffre, è lacerata. Io vorrei aiutarla ma con me è sempre così scontrosa. Mi sa che le piace Giorgio, sono anni che gli ronza intorno, ma lui da quell’orecchio non ci sente, se non sapessi che in gioventù è stato un donnaiolo, potrei pensare che è gay, ma no, è solo diventato un orso.
Giorgio
Domani vado a cena con Giancarlo ed Eugenia. Di nuovo noi tre, dopo tanto tempo. In effetti era un bel po’ che mi chiedevano di uscire, ma il mio momento magico per lavorare è la notte. Finalmente c’è silenzio, un silenzio perfetto, interrotto appena dai grilli, allora, se mi va, posso mettere un sottofondo di musica classica, Debussy o la Callas dei primi tempi, oppure qualche sinfonia di Brahms. O Billie Holiday, ma solo quando sono molto ispirato. In quei momenti dimentico stanchezza e anni. Sono convinto che se qualcuno entrasse nello studio senza conoscermi e mi vedesse di spalle, gli sembrerei un ragazzo, con le lunghe gambe dinoccolate e le braccia nervose che si arrampicano a stendere i colori sulla tela, come a scalare una montagna, io agile e forte, di nuovo, con l’energia che mi brucia e mi sostiene nello stesso tempo, la testa vuota piena di bellezza, quella che è già in me e che deve solo venire fuori e quella che mi rimanda la tela man mano che si ricompone, in quei segni che nascono senza un progetto apparente se non quello della mia anima.
Poi, a notte fonda, mi allontano a passi lenti dal quadro e provo quell’amore che credo provi una madre quando vede il suo piccolo che dorme.
Eugenia
In Centro America ero felice. Due anni di pura felicità, senza un attimo di paura, di preoccupazione, di ansia, a parte forse i primi mesi a Managua. Eppure Filippo era lontano. Aveva appena compiuto diciotto anni, era diventato maggiorenne, cosa mai avrebbe potuto soffrire della mia assenza? E perché poi? Luciano gli era accanto, era sempre stato più bravo di me come genitore, più materno. Era lui quello che cucinava, che lo accompagnava e lo andava a riprendere e a scuola, che parlava con i professori. Un marito ideale, secondo le mie amiche del tempo, ma io mi annoiavo, scalpitavo. Avevo iniziato a fare attività politica, quella dura. Collettivi, riunioni, occupazioni. Tanto a casa c’era Luciano che pensava a tutto.
Filippo cresceva bene, almeno così pensavo. Era un bambino intelligente e sensibile, a scuola andava volentieri, di che dovevo preoccuparmi? Io ero troppo bella per essere solo una moglie e una madre. Non ero portata. La vita mi provocava di continuo, mi tentava mille volte al giorno e ancora di più la notte. Spesso restavo a dormire fuori. Rientravo per la colazione di Filippo, spettinata, con gli occhi pesti e il fiato secco di sigaretta. Lui mi guardava come se fossi la Madonna. Mi accarezzava il viso, mi dava piccoli baci sulle mani e io mi sentivo fiera di avere un figlio maschio, bello e biondo, che mi avrebbe sempre amata. Poi mi buttavo sul letto vestita e sprofondavo in un sonno buio, senza sogni.
Luciano, prima di andare in ospedale, passava silenzioso, mi dava un bacio sulla fronte e tirava giù le tapparelle.
Ada
Luisa al telefono mi è sembrata nervosa. Mi ha detto che posso andare quando voglio, certo lo so, è sempre casa mia, ma che la masseria è piena di olandesi e oltretutto adesso preparano anche le cene su ordinazione, quindi immaginati quanto lavoro, mi ha detto. «Ma vieni, vieni pure, lo sai che mi fa piacere.»
Insomma non lo so. Tutto sommato a Firenze in primavera si sta bene, è meglio tenermi le ferie per quest’estate, la Puglia a luglio è calda e luminosa, con i campi secchi, i covoni di grano e il mare ghiacciato, che inebria come un mojito. In quel mare, in quelle sue pozze tonde, mio padre mi ha insegnato a nuotare, ricordo il sale negli occhi che mi diventavano accesi di sangue e mia madre che la sera mi ci metteva sopra le bustine tiepide di camomilla. Mi manca il mare. Firenze è bellissima, ma il mare non si annusa nemmeno, è lontano.
Luisa è sterile. Lei e Fernando ci hanno provato per una decina d’anni, ad avere un figlio, poi si sono arresi. Un’estate, ricordo, stavamo in cucina nella masseria, lei lavava i piatti e io li asciugavo, le ho detto piano: «Adottate un bambino, io al posto tuo lo farei».
Le è caduto un piatto di mano, era del servizio di nostra madre, ceramica rustica di Grottaglie, l’unico regalo ricevuto quando si era sposata nel ’39. Ho raccolto i pezzi e mi sono accorta che non si potevano riappiccicare, troppo rotti, troppo rovinati. Pazienza.
«Tu non sei me. Non puoi capire. Magari mi prendo il figlio di una tossica o di un assassino e me lo cullo al petto, passo notti insonni, me lo cresco con amore e quello una notte, quando ha vent’anni, mentre io dormo, per rubarmi i soldi mi taglia la gola.»
«Esagerata. Anche un figlio tuo lo potrebbe fare.»
«Sì, ma almeno è carne della mia carne e anche morendo non avrei rimpianti.»
Da quel giorno non ne abbiamo più parlato. E lei è 1989 Tutto questo tempo 19
diventata sempre più arrabbiata e dura, con una brutta ruga in mezzo agli occhi, un solco secco e cattivo di paura.
Un mese dopo io ho vinto il concorso e mi sono trasferita qui a Firenze. Ho trovato subito questa piccola casa sui tetti in Santa Croce e prima ancora dei mobili mi sono comprata una pianta di ficus. Vicino alla masseria ce n’era uno che era diventato un albero enorme e saliva su, fino alla mia finestra, con le sue foglie carnose e lucide madide di rugiada al mattino. L’infanzia era andata, i miei erano morti, a distanza di pochi mesi l’una dall’altro, mia madre per una leucemia fulminante, mio padre per un infarto, mentre guidava il trattore. L’hanno trovato così, con la sigaretta spenta fra le labbra, il trattore impantanato in un fosso, la radiolina che trasmetteva una partita della sua squadra del cuore.
Della mia casa mi mancava solo quella pianta. E il mare. A Firenze il mare non c’è.
***
«Grigliata di verdure e spezzatino di soia, però prima una zuppa di miso. Va bene per tutti?»
Eugenia si è fatta l’henné e si è vestita con cura: una gonna lunga di raso fucsia e una blusa di seta bluette. Colori accesi che le fanno risaltare gli occhi scuri e i lineamenti di donna bella, appena sfiorita. E da come guarda Giorgio, jeans neri e camicia immacolata, sembra che abbia ancora voglia di mettersi in gioco. Giancarlo parla, parla, ma nessuno sembra ascoltarlo: «L’appartamento è piccolo, una camera e un salotto, ma c’è un divano letto, così quando vengono i miei figli c’è posto, gli posso preparare da mangiare, ci guardiamo un film, non mi sembra poi così caro, settecentomila lire al mese…».
Eugenia lo fulmina con lo sguardo: «Io con quella cifra ci mangio per sei mesi».
Giorgio è distratto. Sta guardando un brutto quadro sulla parete di fronte, una marina al tramonto. Non c’è niente di più brutto di una brutta marina al tramonto. È un concentrato di tristezza e di squallore. Il giorno che muore, una brutta tela.
Ma deve dire qualcosa per non sembrare maleducato: «Hai cambiato colore di capelli?».
Giancarlo scherza: «Sempre grigio topo, il mio colore preferito».
Eugenia fa la vezzosa: «Scemo, dice a me! Che carino ti sei accorto che ho cambiato henné. Questo è egiziano, un po’ più scuro, dà sul mogano acceso, ti piace?».
Gli prende una mano e Giorgio fa fatica a non ritrarsi.
«A me sembra più un rosso Magenta.»
Al momento del conto Giancarlo paga per tutti: «Stasera offro io, per festeggiare la nuova casa».
Eugenia, strafottente: «Grazie Signor dentista, beato te che puoi permetterti di essere generoso…».
Fuori piove. Una pioggia sottile, di primavera inoltrata. Giorgio saluta e affretta il passo.
Eugenia, appesa al braccio di Giancarlo, gli grida dietro: «Ci sentiamo presto, mi chiami tu?».
Giorgio borbotta qualcosa. Chissà. Forse è un sì.
Giorgio
Una volta ero felice. Può sembrare un’affermazione esagerata, cos’è poi la felicità, al limite ci può essere gioia, qualche sprazzo di serenità, la vita per definizione è complicata, con tragedie e traumi sempre in agguato, ma c’è stato un periodo, intorno ai quaranta, quarantacinque anni, in cui le mie giornate erano ricche di significato, belle, stimolanti, aspettavo con ansia che arrivasse il nuovo giorno per assaporarne i doni che, lo sapevo, sarebbero arrivati abbondanti.
Vivevo a Parigi già da qualche anno. Pascal mi aveva affittato il suo piccolo appartamento a Pigalle. Lui andava e veniva, preso com’era dai suoi reportage dal Vietnam. Lavoravo in un’agenzia pubblicitaria, uno studio moderno, pieno di colori e di belle ragazze. Non si contavano le mie avventure. Decine di ragazze sono passate dal mio letto. Tutte belle, allegre, e disinibite, con le minigonne che coprivano a malapena i loro minuscoli slip. Erano gli anni della liberazione sessuale e io ne usufruivo a piene mani. Ma senza opportunismo, senza cinismo, godevo di tutta quell’abbondanza con allegria e spensieratezza, anche se non ero più un ragazzino, guadagnavo bene e la vita mi sorrideva. Ogni tanto di notte facevo quel sogno e mi svegliavo madido di sudore, ma passava subito, un bicchiere di acqua fresca, una sbirciata al cielo illuminato dalla luna sui tetti di ardesia e di nuovo a letto, fra le lenzuola stropicciate e il corpo nudo e tiepido di una ragazza nuova accanto al mio. Di ognuna mi innamoravo ed ero sincero, ma durava solo qualche settimana. Ho fatto versare molte lacrime, ma non so come, venivo subito perdonato e quasi di tutte sono rimasto amico.
Mi ero comprato una piccola agenda rossa sulla quale segnavo i compleanni e ogni volta chiamavo per gli auguri o mandavo un bigliettino profumato. Sì, sono stato molto amato. Ma io sono mai riuscito ad amare veramente?
Un sera Pascal mi ha presentato una sua amica giornalista. Si chiamava Jeanne, proprio come l’ultima compagna di Modigliani e aveva il suo stesso collo lungo ed esile e l’incarnato bianco. Una visione. Con lei ho rischiato il matrimonio. Era rimasta incinta, ma l’ho saputo solo quando sono andato a prenderla all’ospedale dove l’avevano ricoverata per il raschiamento, dopo un aborto spontaneo. Doppio dolore. Mi sono sentito defraudato di qualcosa. Per qualche settimana avrei potuto assaporare la sensazione che un uomo che ha superato i quarant’anni può provare nel sapere che avrà un figlio. Ma lei, per timore che io non l’avrei accettato, non mi aveva detto niente del bambino. E adesso che lui non c’era più mi rendevo conto che forse il destino mi aveva privato della mia ultima possibilità.
La nostra storia finì lì. E la felicità cominciò a diventare più rarefatta, come qualcosa che si intravede attraverso uno specchio macchiato dal tempo.
Eugenia
A San José c’era un’eterna primavera. Temperatura massima venticinque gradi, minima diciotto. Quando pioveva, in scrosci improvvisi, tutti correvano a ripararsi sotto gli archi degli edifici coloniali della piazza ed era un’allegria di risate e grida di ragazzine vestite con la divisa azzurra del Collegio.
La vita non costava niente, con il corrispettivo di un dollaro si mangiava al ristorante vegetariano. Pablo era ghiotto del riso con le banane fritte, zuccherine. È proprio lì che ho deciso di non mangiare più carne, mai più. Il ristorante era giallo, con grandi murales sulle pareti che si affacciavano sul patio. La cameriera era carina, si chiamava Milagros ed era fidanzata con un ragazzo scappato dal Salvador, al quale i miliziani avevano sterminato tutta la famiglia, colpevole di aver dato ospitalità ai guerriglieri. Di lui non ricordo il nome. Fabbricava a mano delle piccole borse di cuoio che vendeva a Heredia, una città vicina, nell’atrio dell’Università. Sorrideva spesso e ogni volta gli si apriva la fossetta di una cicatrice sulla guancia destra. Una pallottola presa solo di striscio, minimizzava lui, fingendo, con il pollice e l’indice di spararsi sulla faccia.
Prima del Costa Rica ero stata in un campo di lavoro a Managua. Dormivo in un ostello. La città, fra il terremoto e i bombardamenti di Somoza non esisteva più. Appena arrivata avevo chiesto: «Donde està el centro?». Una ragazzina meticcia, ridendo mi aveva indicato piazza Sandino e la fontana con i piccoli coccodrilli, l’unico centro possibile di una città devastata, tutta da ricostruire. Io, con un gruppo di volontarie inglesi, spagnole e svedesi, mi occupavo di un laboratorio di animazione per bambini. Organizzavamo spettacoli, costruivamo maschere e aquiloni, inventavamo fiabe e filastrocche. Le madri in disparte ci sorvegliavano, all’inizio un po’ diffidenti, ma poi anche loro entravano a far parte della nostra variegata compagnia, cucendo costumi con scampoli di stoffa o vecchie tende, e inventando strani copricapi intrecciati con le foglie di mais. È stato durante una grande festa che ho conosciuto Pablo. Era argentino e faceva il danzatore e il saltimbanco. Aveva il corpo così snodato da riuscire a scomporlo e ricomporlo con una sveltezza e un’eleganza che mi lasciavano senza fiato. Tutti i bambini lo guardavano a bocca aperta, gli occhi scuri illuminati dal riverbero delle fiaccole che delimitavano l’aia sulla quale avevamo allestito il teatro, le piccole mani a battere il tempo sul terreno polveroso. Una magia. Dopo lo spettacolo si aprirono le danze. Salsa, di quella vera. Non quella che anni dopo si sarebbe sentita in Italia alla radio. Aveva un che di sensuale e malinconico nello stesso tempo. Io non l’avevo mai ballata, pensavo che sarebbe stato sufficiente muovere un po’ le spalle e il bacino e lasciarmi guidare dalla musica, così, a caso. Ma mi sbagliavo.
Vidi Pablo ballare con una ragazza. Fui subito presa da una sensazione di invidia mai provata prima. Io non avevo mai ballato così, con l’anima, avevo fino allora scimmiottato, mimato una danza. E lì in quella notte buia illuminata da fiaccole tremolanti, fra donne e bambini coperti di stracci, compresi il miracolo che rende le persone felici, pur in mezzo alla guerra, la miseria, la precarietà e la violenza.
Il miracolo del corpo che sa come trascendere il dolore, aprendosi alla vita, che pulsa e preme, e si apre un varco, sempre. Stavolta attraverso la danza, altre volte attraverso la poesia o una statua di legno o una canzone cantata da una vecchia sdentata. Pablo e Ines, così si chiamava la ragazza, stavano facendo l’amore, con quei passi svelti e leggeri, le gambe intrecciate, gli occhi negli occhi, le mani di lui ben ferme a tenere i fianchi di lei, in un gesto non di possesso, ma di sostegno. Io sono l’uomo e tu la donna, siamo diversi e uguali, io ti prendo e tu mi accogli, io ti lascio e tu ritorni, in questa danza che è quella della vita. Non so quanto durò. So solo che a un certo punto Ines ridendo si staccò da Pablo e andò a bere da una borraccia, sembrava prosciugarla, avida, i capelli scuri umidi di sudore, il petto ancora ansimante.
Mi sentii prendere per mano.
«Vieni, balliamo.»
Ero come in trance, non sentivo le gambe, i piedi mi sembravano inutili appendici. Pablo fece il miracolo: «Mira, fidati de tu fuego, fidati di me».
E ballai.
Quella danza è durata sette anni.
***
Ada entrò in ufficio. Appoggiò la cartellina blu sulla scrivania e si mise a togliere le foglie secche da una piantina in un vaso di ceramica bianca. C’era ancora tempo, la prima utente sarebbe arrivata alle nove. Aprì il giornale alla pagina degli eventi in città. Le solite mostre mastodontiche, un concerto di archi, un balletto al Comunale, la presentazione di un libro sulle colline toscane. Fu attratta dall’invito per un vernissage in una galleria nuova Oltrarno. Era di un giovane artista. Ci vado pensò, i giovani hanno bisogno di essere sostenuti, e se non altro respirerò aria fresca, pulita, non il solito odore di naftalina delle signore impellicciate.
Bussarono alla porta. Era la Signora Maresi, una donna bionda, piccola e spettinata che appena seduta si mise a piangere. Poi attaccò con i lamenti. Non ce la faceva più, suo marito beveva e la picchiava, forse aveva un’altra donna. Lei aveva cercato di resistere ma i bambini avevano paura, quando il padre rientrava si rintanavano nella cameretta e se loro litigavano attaccavano a piangere. Fra l’altro lei faceva l’infermiera a Careggi, non poteva perdere il posto perché ultimamente si era presa parecchi periodi di malattia, si sentiva depressa, stanca, non ce la faceva più…
Ada l’ascoltava con attenzione. Prima la fece sfogare e poi, con calma, le disse quello che ormai le aveva detto almeno una decina di volte: doveva chiedere la separazione e porre fine a quell’inferno. Lei l’avrebbe aiutata, poteva indirizzarla da un’avvocatessa che le avrebbe patrocinato la pratica gratuitamente e per qualche mese avrebbe anche potuto usufruire del sostegno di una psicologa. Ma per carità, non doveva lasciar passare altro tempo.
«Francesca, lo faccia innanzitutto per sé, ma se non ci riesce lo faccia per i suoi figli. Stanno pagando un prezzo troppo alto. Non è giusto. Stavolta mi ascolti. Va bene?»
Francesca Maresi si asciugò gli occhi, fece un sorriso stanco e uscì dicendo ad Ada che le avrebbe fatto sapere qualcosa al più presto.
Ada aprì la cartellina blu e scrisse su un foglio una frase che finiva con un punto interrogativo.
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