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L’anarchia della civetta – Misteriosa storia di disperati amori

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Nel 2063 Nina ha settantatré anni ed è cieca. In aeroporto, di ritorno dal funerale del suo primo amore, incontra Assunta, giovane barista alla quale racconta la propria vita durante un improvvisato viaggio in taxi verso casa. Ma casa di chi? Cosa vuol dire davvero “casa”? La vicenda che Nina racconta inizia nel 2019, momento in cui decide di fuggire dalla monotonia della propria esistenza e allontanarsi da tutti gli af-fetti, unico mezzo che ha a disposizione per tenere le redini della sua vita e, finalmente, ritrovarsi. Fabrizio, il compagno, e gli amici rimangono da soli, senza la guida appassionata e determinata che Nina ha sempre esercitato sulle loro decisioni. Forse, però, è proprio questo ciò di cui hanno bisogno tutti: perdersi e avere l’occasione di trovare se stessi.

CAPITOLO UNO

2063, Un’ora dall’atterraggio

«Ho aspettato il dimagrimento per gran parte della mia vita.»
La flebile voce tratteggiò l’aria fino al vaso di fiori sistemato davanti all’ultimo morso di una sfogliatella. Il fiato tagliò l’atmosfera surreale dell’aeroporto semivuoto, appena graffiato dall’aroma del caffè e da quell’anelito d’amore.
Nina era rimasta sola. A molti anni di distanza dalle convinzioni di giovane adulta, a pochi istanti di lontananza dalle dovute considerazioni.
Anche Assunta era rimasta sola: unica addetta di quel turno al ristobar. Quel tono sommesso danzò nello spazio del suo sguardo, mentre – in un breve attimo di pausa dopo aver sparecchiato le stoviglie reduci delle cene servite – era intenta a visualizzare, in esteso e ad alto volume, il maxologramma del suo fidanzato.
«Prego?»
«Io sono una di quelle che non l’ha rincorso, il dimagrimento intendo. Chiaramente se l’avessi fatto sarei stata in forma, prima o poi, forse.» Nina rise. «Io l’ho proprio as-pet-ta-to,» scandì «come fosse un atto dovuto dalla vita, un regalo di trasformazione che mi dovesse essere concesso. Sa cosa facevo spesso da piccolina? Lo affidavo come un desiderio a centinaia di stelle cadenti. La formula era più o meno questa: “famme dimagri’ il tempo sufficiente pe’ ’na minigonna o n’abito aderente e per far crepare d’invidia tutti quelli che m’hanno sempre presa in giro per la mia mole”.»
Ripensare a quelle scene buffe e lontane la fece ridere. «Di quanta poca forza di volontà ha goduto questo mio obiettivo… ed eccomi qua: la mia trasparenza è sempre stata più morale che fisica.»
Prese a girare in senso antiorario il caffè che le era stato appena servito.

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Assunta, imbarazzata e occupata ad asciugare i bicchieri, continuava a chiedersi quale potesse essere la replica giusta per non sembrare indifferente, né concedersi una confidenza che potesse sembrare fuori luogo. Una parola, però, andava detta. Sempre. Il suo capo era stato categorico: “In questo aeroporto – unico in Italia a essere dotato dell’app ‘Memory Experience’ – prendono forma i passaggi di persone che rincorrono il loro destino: potrebbero tornare e, se dovessero farlo, l’app dovrà ricordargli il piacere provato da noi”. Parlando per slogan, come d’abitudine, aveva infilato nella sua testa, e in quella degli altri dipendenti, questo motto: “Partenze, atterraggi e destini, caffè e quattrini”.
Così si decise. «Signora, perdoni la franchezza: lei è davvero una bellissima donna» disse in fretta, eppure cortesemente, mentre recuperava l’ultimo bicchiere.
«Cosa crede, che non lo sappia? Lei è molto ingenua, ragazza mia: non ho parlato di bellezza, ma di dimagrimento.»
«Mi scusi» si affrettò Assunta.
«Mi porti una sambuca con tre chicchi di caffè.»
«Subito.»
In un secondo fu di nuovo accanto a quello sguardo perso tra i ghirigori del vaso intarsiato che campeggiava al centro del tavolo. Uno sguardo che mai s’era posato sulla lavagna digitale, utilizzata sempre dai clienti per gli ordini e lo scontrino automatico, posizionata accanto alle posate.
Era davvero molto tardi, e a consumare, con l’antico metodo di rivolgersi alla cameriera, era rimasta solo lei. Quando Assunta la servì, tornò anche la vecchia consuetudine di porgere un sorriso ai clienti, utile anche per scusarsi nell’eventualità di aver commesso una gaffe con la sua schiettezza.
«È difficile capire perché veniamo al mondo. Intendo dire, perché proprio noi, in quel preciso momento e in quello specifico luogo. Figuriamoci se volessi accanirmi sul come… eppure ogni tanto mi capita.»
«Cosa?» chiese impunemente Assunta, stregata da quella voce melodiosa e incuriosita da un discorso che spesso faceva nella sua quotidianità. Una sfrontatezza che guidò il vassoio dal grembo del grembiule alla bocca spalancata dello stomaco e poi del viso.
«Penso» disse Nina accompagnandosi col primo sorso del suo ammazzacaffè «che la vita mi debba ancora qualcosa di inaspettato per tutto quello che ho investito per essere chi sono. Per aver capito che, alla fine di ogni frase, bella o brutta che sia, ci sta sempre bene un sorriso. Per aver capito che non esistono pareri modesti, ma sono tutti ego riflessi e relativamente importanti. Per aver capito che le persone, se le conquisti con le parole e le attenzioni, le hai fatte tue per sempre. Almeno fino a quando qualcuno non farà meglio di te, in un’opera di costante persuasione sociale che tutti, ma dico proprio tutti, involontariamente o consciamente, perpetrano ogni giorno. L’ho capito a mie spese. Non ti pare che qualche chilo in meno Madre Natura me lo avrebbe dovuto regalare?»
Per Assunta – giovane trentatreenne, una laurea in Materie Assurdi-stiche, così le definiva il gruppo culturale contemporaneo “Scettici del 2063”, e ripetizioni per rinverdire l’abilità nella guida del monopattino – il ragionamento di quella donna sconosciuta cominciava a farsi tortuoso e accattivante. Quella presenza così insolita e inaspettata la spingeva a porsi tante domande. Non riusciva a sentirsene spaventata, né a tentare di tenerla alla larga. Sapeva di diverso. Si concesse anche di definirla strana e, se glielo avesse chiesto, sarebbe rimasta anche tutta la notte ad ascoltarla. D’altronde, la stanchezza tipica di una giornata da ripen-sare era scivolata via senza che se ne accorgesse.
«Niente di strano che siano state proprio queste convinzioni ad avermi gonfiato, ad avermi moltiplicato l’ego: chi capisce, o quanto meno ci prova, non è mica sempre felice!»
Assunta, ancorata a quella sua voce, continuava a rimare in piedi accanto a Nina.
«Tutto sommato, però, mi vedo vittima di un’ingiustizia fatale: io avrei dovuto essere destinata alla magrezza e qualche architetto celeste, ma anche verde, rosso, blu o giallo, deve aver dimenticato di mettere l’appunto a margine del mio disegno. Me li vedo, il progetto su carta millimetrata e tutti gli accorgimenti sul bordo: donna, alta, spalle larghe, seno piccolo, fianchi larghi, piedi dalla pianta larga, però le diamo il ginocchio da ballerina e un bel collo del piede, ai quali corrisponde un calcagno esteso. Viso: ovale, gote alte, fronte alta, occhi allungati e azzurri, capelli biondi, naso sporgente; le rega-liamo un’arcata sopracciliare già naturalmente ad ali di gabbiano, orecchie non a sventola, labbra carnose e fossetta sul mento. Tutto questo sarà portato a spasso da una corporatura robusta, per un’immagine vagamente abbondante. Una scrupolosità indiscutibile. Diciamoci pure, però, che destinarmi a una taglia quarantadue e to-glierla a una di quelle silhouette che culminano in un viso impietoso non sarebbe stato uno sproposito.»
La risata di Assunta fu incontenibile eppure sommessa, tanto da non interrompere Nina che, col suo sguardo incantato e un sorriso accennato, continuò nella sua ironica filippica.
«Sai, cara, diciamo che comunque me ne sto facendo una ragione. Questa condizione esistenziale mi ha concesso il privilegio di riconoscermi qualche merito: non rumoreggio quando mangio, né quando bevo, il che mi sembra prezioso, soprattutto in virtù dell’odio che ho sviluppato nei confronti di chi lo fa. Questo sembrerebbe dimostrare, secondo recenti studi scientifici, che la mia intelligenza sia superiore alla media. E non finisce qui. So parlare molto velocemente, anche a bassa voce, pur avendo un tono sostanzialmente alto e a tratti atrocemente squillante. So ascoltare diversi discorsi contemporaneamente e tener sott’occhio praticamente tutto ciò che mi circonda, il che dovrebbe rendermi attenta e affidabile. Non mangio le unghie, né le pellicine, azione sporca e isterica. Mi infastidisco al solo rumore di quei peli rigidi che si spezzano sotto incisivi ingialliti dalla pigrizia di non usare dentifricio, collutorio e filo interdentale, e sui quali si depositano altri germi nascosti in quella peluria neretta che si forma sotto le dita: gli onicofagi dovrebbero essere messi al bando dal buon costume.»
«Mi scusi,» si decise a dire Assunta, decisamente divertita «le porto qualche altra cosa?»
«Sì, mi porti un’altra sfogliatella, un altro caffè e un altro ammazzacaffè.»
«Sono subito da lei.»
Nina non si interruppe.
«Le mie mani sono enormi. Se ogni centimetro di uno dei miei arti – il destro mi sembra decisamente più portentoso – raggiungesse lo strato epiteliale di qualunque altro individuo, diventerebbe violaceo. Per questo mi sono sempre impegnata ad avere delle mani ordinate, pulite, sistemate, perché di base non sono state ritratte per passare inosservate. La circonferenza di ogni dito, poi, corrisponde a un numero che si aggira tra il venti e il trenta. Non ho mai confessato la misura esatta per non demoralizzare qualche aspirante corteggiatore che volesse omaggiarmi di un gingillo: sarebbe molto costoso, sai, come starmi accanto d’altronde. Sono oltremodo esigente. Una donna impegnata e impegnativa.»
Su questa frase rientrò in sala la solerte Assunta, che servì l’ordine per poi afferrare avidamente il taccuino elettronico. Quelle parole l’avevano travolta e non voleva proprio dimenticarle. Era esattamente ciò che avrebbe voluto dire alla specie di capo che non le pagava mai lo straordinario e tardava ogni stipendio mensile. Se ne avesse avuto occasione, gli avrebbe vomitato volentieri addosso le sue convinzioni sul costo, sul valore e su come meritassero d’essere trattati le donne e gli uomini onesti lavoratori, e quella forma era esatta per farlo. La penna digitale percorse velocemente il foglio elettronico, seguendo passo passo il dettato della voce e conse-gnando quell’illuminazione al carattere indelebile di un file formato word. Poi, però, il pensiero rimbalzò sul fidanzato. Le sembrò di sentire l’ansia che il suo amore stava avvertendo aspettandola fuori dal balcone di casa. Sicuramente si stava chiedendo perché stesse tardando.
Si erano conosciuti in aeroporto, durante una pausa sigaretta. Lui era il proprietario della libreria della galleria commerciale. Bello era bello – la sua età era davvero indegna di pesare sulle spalle di un corpo così atletico e un viso privo di rughe –, simpatico lo era parso sin da subito. Non avrebbe potuto immaginare, però, che fosse anche un poeta, pronto a dedicarle romanze appassionate. Certo, quel mondo di libri avrebbe dovuto suggerirglielo, ma a mandarla fuori strada doveva essere stata la grande parete espositiva ricca di e-book di narrativa disegnata, decisamente più in voga rispetto alla letteratura antica fatta di parole e poesia. Superfluo aggiungere che la differenza d’età –dieci anni – non aveva alcuna rilevanza, se non per l’atavico attaccamento di lui all’idea della famiglia tradizionale, mo-dello dal quale non proveniva e che lo aveva spinto ad allontanarsi da casa sua per sperimentare i propri ideali. Lo amava davvero tanto, era il suo primo vero amore.
Nella vita, però, a contare non è solo l’amore, anzi più precisamente il “suo” amore, ma tutto ciò che l’intero universo può raccontare. Quella sera, la voce era di Nina.

2022-05-04

Aggiornamento

Non pensavo di pubblicare questa foto. E' un attimo di intimissima speranza. La bravissima fotografa Roberta Beneduce è riuscita a catturarlo. Così ho pensato che fosse l'ideale per dimostrare la gratitudine che voglio tributare a tutti quelli che hanno dato fiducia al mio nuovo romanzo preordinandolo, leggendolo in anteprima e condividendo le loro impressioni a riguardo con parole davvero sempre molto belle – almeno finora! Continuo a sperare: che siate ancora in tanti, che vogliate leggerlo, che cerchiate il confronto, che facciate vostra – come per ogni libro – anche questa storia! GRAZIE!

Commenti

  1. Enrica Orlando

    (proprietario verificato)

    “Ho visto Nina volare, tra le corde dell’altalena, un giorno la prenderò, come fa il vento alla schiena”
    Anche chi non conosce Antonia De Francesco e non sa del suo amore per De André, non avrà difficoltà a sentire le parole di questa canzone, mentre legge “L’Anarchia della civetta”.
    E non solo perché la protagonista si chiama Nina, che pure molto ha a che fare con quel “mastica e sputa” raccontato da Faber.
    Piuttosto perché la vera protagonista della storia di Antonia è la libertà.
    Nina, civetta anarchica di questo romanzo, si muove agile tra passato, presente e futuro, dondola tra gli avanti e indietro della vita, proprio come si fa su un’altalena, dove ti diverti, sia quando sali, sia quando scendi, perché l’importante è rimanere con i piedi ben scollati da terra, che puntano alle nuvole.
    Ed è molto difficile fermare chi sa dondolare bene, perché c’è sempre un momento in cui l’altalena sembra più vicina e a portata di “acchiappo”, ma è proprio allora che l’altalena ti sfugge e torna lontana. Solo il vento può accompagnare chi sa dondolare come Nina, perché solo il vento si accompagna bene a chi è libero.
    L’altalena di Nina sono le parole.
    I dialoghi, i pensieri, i viaggi verbali tra ricordi, ammissioni, divagazioni, riflessioni, conclusioni, descrizioni: le parole sono quello che permette a Nina di volare.
    Le parole di Nina sono la sua altalena, perché grazie alle parole riesce ad attrarre, farsi seguire e inseguire, ma senza essere mai afferrata. A Nina basta scambiare poche battute con uno sconosciuto in treno, per farsi aprire le porte di un teatro, di una nuova amicizia, di una nuova vita. Con un caffé al bar riesce a convincerti a seguirla e a sentire la storia della sua vita.
    Quando smette di parlare, si ferma tutto il mondo intorno a lei. Quando parla a se stessa, sfogliando le pagine della sua memoria, è capace di rinascere.
    Perché saper usare le parole ti rende consapevole.
    E Nina è consapevole di se stessa, nel bene e nel male.
    Il peso specifico del romanzo è tutto in questa potente e ricca massa di parole che esplode ritmicamente fino alla fine, lasciando spazio anche a colpi di scena e dinamiche che sanno di libro giallo ma soprattutto di amore.
    Il super potere di Nina, e di Antonia, è la comunicazione che rende appunto liberi. È l’anarchia di chi osserva con gli occhi grandi della civetta. Perché l’anarchia di Nina è civetta: Nina si piace anche quando sta male, Nina sa di piacere, sa quello che vuole e lo insegue, come tutti quelli che sognano.

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Antonia De Francesco
È una giornalista pubblicista. Laureata in Media e giornalismo, presso l’Università Cesare Alfieri di Firenze, e in Editoria e scrittura, presso l’Università La Sapienza di Roma; consegue un master in Critica giornalistica presso l’Accademia d’arte drammatica Silvio d’Amico di Roma e si forma come social media manager. Volto dell’informazione televisiva per diversi anni, collabora attualmente con diversi giornali online. È ideatrice del progetto editoriale Narranto e autrice dei romanzi "Nelle pagine di Sofia" (Fondazione Hormiae Edizioni) e "L’Animologo" (Giovane Holden Edizioni). "L’anarchia della civetta - Misteriosa storia di disperati amori" è il suo terzo libro.
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