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L’angoscia di Dio (e l’incertezza dell’essere)

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Consegna prevista Dicembre 2024
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Un viaggio intimo tra i cunicoli della psiche di Magno, che vive in una famiglia premurosa, in un paese di provincia in cui fede, credenze e falsi miti si intrecciano, tessendo pericolose reti di legittimazione della realtà. Emozioni, istinto, sensazioni, frammenti, paure, desideri e speranze emergono e, soprattutto, coinvolgono attraverso prosa e poesia. L’analisi approfondita di una peculiare ossessione e delle sue possibili cause e conseguenze. Una confessione, o forse un confronto a più voci che si svolge negli angoli più nascosti e bui dell’anima di Magno. Realtà e fantasia, oggettività e soggettività, concretezza e immaginazione, vero e falso: qual è il confine? E soprattutto esiste davvero un confine? Quanto può essere potente un pensiero, un’idea? Così tanto da creare o distruggere?

Perché ho scritto questo libro?

Non so se scrivo bene, ma sto bene quando scrivo e ho un mondo di parole, ma non ho parole per il mondo.

ANTEPRIMA NON EDITATA

«Amore, alzati, ti prego! È la terza volta che la sveglia suona questa mattina».

La voce assonnata di mia moglie si confonde con quella ruvida di mio padre, interrompendo una discussione avvincente circa il senso della vita e l’importanza delle regole. Spalanco gli occhi e, mentre con la mano sinistra cerco di proteggermi dal fascio di luce timido che penetra dalla finestra, con la destra provo a zittire il cinguettio metallico della sveglia che mi scaraventa contro un nuovo giorno. Devo aver trascorso una notte impegnativa (d’altronde non è così semplice avere una doppia vita). Devo aver sognato più del solito. È inverno e le coperte mi coccolano, ma il dovere mi chiama.

Quella appena iniziata è una giornata importante: ieri pomeriggio ho ritirato la stampa del libro su cui ho lavorato in questi ultimi mesi. Scrivo per condividere, e questo testo in particolare mi riguarda da vicino: rappresenta il risultato di una profonda introspezione e la descrizione di un lungo e farraginoso processo di digestione psichica. Non sono un professionista, ma adoro scrivere. E questo basta, credo.

Sono eccitato mentre fisso la copertina di plastica trasparente del manoscritto che giace sul marmo bianco del mobile in cucina. Solo il caffè che straborda dalla tazzina richiama la mia attenzione, e mi tuffo per spegnere la macchinetta. Tra le dita ho già una sigaretta. Fumo per cristallizzare momenti: sembrano sempre così sfuggenti. Non riesco proprio ad afferrarli. Adoro progettare il futuro e difficilmente riesco a scovare la felicità che, diciamocelo, ben si nasconde nelle piccole cose. Non credo molto nel presente, ma è un problema mio, immagino.

Continua a leggere

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Mi accorgo di essere in ritardo e allora mi lavo e mi vesto di corsa. Delicatamente, bacio la fronte di mia moglie che si gode ancora qualche minuto di sonno. S. è tutto per me, ma non lo sa. 

Metto il libro in borsa, a piedi raggiungo la stazione ferroviaria, poi la metro. Salendo le scale, la Porta diventa sempre più imponente. Con passo svelto percorro il corso che mi scorta in ufficio cercando, nel frattempo, di evitare le buche della strada e della mente (per il lavoro devo essere concentrato al massimo; nel tempo libero, invece, adoro arrovellarmi e immagino da professionista).

Esattamente a metà tra metro e lavoro è posizionata una piccola credenza di legno con antine in vetro. Poggia su un paletto quasi divelto. Chiunque, passando, può lasciare un libro e prenderne un altro, se vuole. Per me è una tappa fissa, e questa mattina posso finalmente lasciare il mio, con la speranza che qualcuno possa beneficiarne. Come una mamma che spinge suo figlio via di casa perché ormai adulto, con un misto di amore e prepotenza, lo incastro tra due grossi tomi. Ho lasciato un appunto in prima pagina e ho scritto il mio numero di cellulare sull’ultima: semmai qualcuno volesse confrontarsi, penso, troverà sempre libero.

Ancora pochi passi e sono in ufficio. Anche oggi rincorrerò con disarmante entusiasmo la performance migliore di sempre in un ambiente ben illuminato e arredato da armadi e scrivanie luccicanti. Ma non è tutto oro. Capitolo I – Il bambino (e dintorni)

Mia madre racconta spesso che in sala parto sono stato strattonato e ho sbarrato gli occhi, terrorizzato. Lei crede che io abbia subito un trauma e che questo abbia condizionato la mia vita. Come se un gesto inconsulto di un’ostetrica possa influenzare la psicologia di una persona. Ne è convinta. E questo basta.

È la sua verità e non è meno legittima di quella di mio zio. Lui crede che io sia troppo sensibile per questo mondo estremamente superficiale. Secondo lui dovrei farmi meno domande. Spesso si scontra con mio padre. Lui sostiene invece che non è niente. Che tutto è normale. Ma poi, cos’è la normalità? Papà ritiene normale tutto quello che combacia con il suo modo di vedere le cose, con la sua interpretazione. E come dargli torto? La logica, la ragione e la rigida applicazione delle regole. Tutto il resto è per femminucce e gente poco seria.

La nonna invece sostiene che io sia vittima di magia nera. Una sera ha mescolato acqua e olio. Non conoscevo questa tecnica, ma lei riusciva davvero a vederci chiaro. Pare ci fosse qualcuno invidioso e lei già immaginava chi possa essere, ma non me l’ha mai detto. Dice spesso: gli occhi sono più pericolosi delle pistole! Sì, le parole sono un pochino diverse, ma il senso è lo stesso. Mio nonno non ha un’opinione. Lui chiede il permesso anche per andare in bagno. E spesso non gli è concesso. Ma non si fa troppi problemi. Gli basta pedalare e fare due chiacchiere con i conoscenti di vecchia data.

Poi ci sono gli amici di strada. Loro, sempre più furbi di me. Anche se non così bravi a scuola. Ricordo che, fin da quando eravamo piccoli, i genitori non osavano sgridarli se avevano corso troppo ed erano fradici di sudore. Eppure, credetemi, non si ammalavano mai. I miei invece erano molto premurosi. Sempre attenti nel vestirci, mio fratello ed io, sia mai prendessimo un soffio di freddo. Eppure, eravamo sempre ammalati. Forse il freddo non era così malvagio, mi dicevo.

I miei nonni e la miseria,

raccontano avventure.

Misto fritto di paure,

di tempi ormai andati

ma impressi nella mente.

Ci credono ciecamente.

Confondono ricordi e congetture.

Le credenze piene di confetture,

figure oscure, spiriti e liquori,

amari come le prime ore alle elementari.

E la scuola sta per finire.

Sono bravo, ma ho tanto da imparare.

Non riesco a progredire:

dicono sia speciale.

Ma chi ci crede veramente?

Prendo appunti di domande.

Continuamente,

pile di quaderni.

Scalderebbero molti inverni,

se bruciati in quel camino.

A scuola le maestre addirittura si rifiutavano di parlare con i miei genitori in occasione dei colloqui. Ero bravo, non c’era assolutamente nient’altro da riferire. Sostenevano che i miei quaderni sembrassero libri, tanto erano ordinati. Avevo un tale senso di responsabilità che sarebbe bastato per almeno tre generazioni. E capitava spesso che, di ritorno dagli incontri con gli insegnanti, i miei si fermassero a chiacchierare con genitori meno fortunati o con conoscenti casualmente incrociati tra i vicoli stretti di un paesino che mi sembrava enorme e che non avevo ancora scoperto fino in fondo. Quale momento migliore per sfoggiarmi? Quale occasione migliore per assaporare l’invidia succulenta che colava da occhi altrui?

Non ho mai capito cosa effettivamente si aspettassero da me, spesso però sentivo parlare di lavoro e di realizzazione, di soldi e di benessere: Magno sarà un grande avvocato, sosteneva mio padre sghignazzando. Eppure, non sono mai riuscito a difendermi dalle pretese avanzate dagli altri, quelle stesse pretese che derivavano da desideri ancora rinchiusi nei cassetti delle loro comode case gentilmente regalate dai genitori. Camminando, continuava a ripetersi: mio figlio è capoclasse! Che responsabilità che trascinavo! E, sforzandomi, pensavo al giorno in cui non sarei stato più all’altezza: come avrei fatto a spiegare che tutto era finto, che tutto era una beffa? Mia madre, eco. Lei, maestra del quieto vivere! Le bastava che mio padre fosse di buon umore. Lei, custode dell’affetto più intenso e verace, dominatrice di idee brillanti che, probabilmente, mi aiutavano a eccellere a scuola. Lei, che ha sacrificato pensieri, idee e potenziale nel nome di una famiglia tanto premurosa e autoreferenziale da rischiare di soffocare i figli in un profondo e dolce abbraccio. Lei, burattino tra le possenti mani delle responsabilità inafferrabili di una donna e di una mamma. Di spugna, capace di lavare lo sporco più incrostato e di assorbire qualsiasi colpo, qualsiasi colpa.

E io mi sentivo spesso sporco e soprattutto mi sentivo perennemente in colpa. Pensavo di non essere abbastanza. Non riuscivo a vedermi così come gli altri mi descrivevano. Lo specchio dell’anima rifletteva immagini diverse da quelle che rifletteva, invece, lo specchio del mondo. E facevo fatica a palesare le mie volontà.

In piscina, ad esempio, non andavo volentieri. Ma faceva bene. È uno sport completo, d’altronde. Il forte odore di cloro stuzzicava le perplessità e amplificava le emozioni. Eppure nuotavo. Ero bravo. I miei, soddisfatti, in prima fila dagli spalti, pretendevano saluti felici, ma io non gli mostravo mai i denti. Gli amici frequentavano scuole calcio. Io ero diverso. Non potevo sporcarmi, non potevo saltare ore di studio per rincorrere un pallone, oltretutto rischiando di ammalarmi o addirittura di farmi male. E così mi sono sbucciato più volte l’anima che le ginocchia. Ne valeva la pena? 

In generale, parlavo poco. E pensavo tanto. Mi guardavo intorno e mi pareva che tutti avessero ragione. Era giusto così. Ognuno aveva la sua verità. A un certo punto tuttavia, confuso, mi fermavo: la verità è unica, pensavo, per definizione. D’altronde questo era quello che cercavano di insegnarmi. Ma i dubbi si facevano sempre più insistenti (ecco, ha ragione lo zio quando dice che mi faccio troppe domande).

La religione, ad esempio: io pregavo un signore chiamato Gesù e mi faceva stare bene. Ci credevo forte. La mamma mi aveva insegnato tante belle preghiere e non vi dico la sorpresa quando ho poi scoperto che altri bambini credevano invece in un tizio di nome Geova. E soprattutto che anche loro si sentivano bene pregando, sebbene diversamente. E anche loro erano convinti che la verità fosse unica e che gli altri sbagliavano a credere in qualcosa di diverso. Eppure, il risultato era lo stesso. E non mi capacitavo. E cercavo confronti. Ma ero Magno, ed ero strano. E le persone balbettavano alle mie domande. Erano troppi i miei perché. Perché?   

Ma io avevo davvero una verità? O forse ero il risultato di un miscuglio di verità altrui? In effetti spesso confondevo il confine tra me e il mondo. Spesso lo ingoiavo, senza masticare. E non riuscivo a digerirlo. Si fermava proprio sullo stomaco. A volte mi divorava e mi sminuzzava a dovere. In ogni caso comunque mi sentivo colpevole. Ma continuavo a giocare. In fondo ero un bambino. Cos’altro potevo fare? Ah, giusto! Potevo pensare, rimuginare, arrovellarmi. Il mio più grande talento, da sempre. Ma a chi importa? Per gli altri ero solo il bambino studioso e diligente. Per qualcuno ero anche sensibile. D’altronde tutte le persone intelligenti lo sono. No?   

E comunque una cosa non mi ha mai convinto: il mio nome. Perché mi chiamo Magno? Sì, va bene, è il nome di mio nonno. Ma io gioco con Angelo. E quanti Angelo ci sono? Tanti. Gioco con Tommaso. E quanti Tommaso ci sono? Tantissimi. Sembravo quasi il protagonista di una di quelle storie che ci obbligavano a leggere a scuola. Non avrei potuto avere anche io un nome ordinario? Magari mi sarei ammalato meno, sarei stato più sereno, avrei potuto pensare di meno. Però è così. Forse sarebbe stato peggio se mi fossi chiamato Mario. Forse no. Sarei stato uno dei tanti. Un anonimo. E invece portavo costantemente addosso la paura e il terrore di essere speciale. Ogni volta, il mio nome, pronunciato, sembrava rimbombasse. Lo immaginavo rimbalzare e volteggiare tra le pareti spoglie delle enormi stanze vuote di un edificio disabitato e abbandonato in cui costantemente mi perdevo. Come in un labirinto, cercavo la via d’uscita, ma voltandomi mi accorgevo, ad esempio, che mia madre, ai fornelli, mi aveva chiamato solo per chiedermi cosa preferissi mangiare per cena. Avevo memorizzato perfettamente il movimento delle labbra che scandivano il mio nome. Sembravano vomitare macigni.     

Nonostante la tenera età, spesso mi capitava di pensare alla morte. Mi spaventava. Non riuscivo a concepirne il senso. E credevo che di sicuro io, i miei genitori e mio fratello non saremmo mai morti. Non poteva essere! Ma poi sentivo dire che tutti sarebbero dovuti morire, prima o poi. E allora lavoravo costantemente alla ricerca di un antidoto. Mi dicevo: diventerò uno scienziato e troverò un modo per non morire! Avevo solo cinque anni e non capivo

Cammino per le strade.

Noto subito l’estate

tra pomodori e limonate.

Gruppi di persone, sedute fronte strada,

discutono animatamente

dei vizi della gente.

Un calcio a un pallone:

arancione, sbatte forte sul portone.

Il rumore mi riprende.

Mi rimbomba nella mente.

Ma c’è sempre quel serpente,

si aggroviglia e non mi sente.

E gli urlo che son stanco di pensare.

E che vorrei solo giocare.

Un giorno d’estate, il fracasso di trombe e tamburi ruppe il sibilante silenzio del primo pomeriggio: il famoso silenzio della controra.

L’estate a Recale la riconosci facilmente. Tanti bambini in strada, mentre gli anziani, in cerchio, siedono all’ingresso di questa o quella casa. I cortili ospitano cassette di pomodori in attesa di essere lavorati per ricavarne salse e pelati. I venditori alla guida dei loro furgoni, microfono alla mano, cercano di piazzare le ultime cassette rimaste, farfugliando proposte commerciali incomprensibili persino agli addetti ai lavori (i nonni). Nel primo pomeriggio senti spesso il fischio assordante dell’ambulante che, alla guida di un’Apecar, vende granite e limonate attirando bambini come gli spilli una calamita. Il tardo pomeriggio, invece, è la volta delle zingare, in auto, con bauli pieni di pesche e albicocche rubate chissà dove e che vendono a prezzo stracciato. E sono sempre buonissime.

2024-03-18

Aggiornamento

Volevo ringraziarvi di cuore per il vostro sostegno alla campagna di crowdfunding. Senza di voi, nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile. Continuate a seguirmi per tutti i prossimi aggiornamenti delle varie fasi redazionali, fino alla pubblicazione.
2024-03-14

Aggiornamento

[...] Negli anni ho percorso infinite strade, senza mai fermarmi. A volte sono ritornato al punto di partenza, battendo sentieri differenti, altre volte ho sostato lungo la carreggiata, osservando il tempo degli altri sfrecciare accompagnato da quella banale spensieratezza che io, invece, non riuscivo mai ad afferrare. [...]

Commenti

  1. Viola Belli

    Libro che consiglio vivamente! La cui lettura mi ha lasciata davvero sorpresa!…
    Un connubio tra prosa e poesia che si sposano fra loro in maniera cosi’ sublime da non distogliere mai l’attenzione del lettore; uno stile avvincente e fresco frutto della mente di un giovane e brillante scrittore che si interfaccia al mondo con la sua prima opera.

  2. (proprietario verificato)

    Molto intenso!

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Onorato Rossi
Onorato Rossi, nato nel 1990 in un torrido Luglio. Di Lunedì.
Campano e milanese d'adozione. Nel 2012 mi trasferisco nel capoluogo Lombardo per completare gli studi in Economia. Una profonda passione per la psicologia e la filosofia mi accompagna alla laurea nel Ottobre del 2014 con una tesi sulla ''Leadership archetipica'' che rappresentava finalmente un importante punto di incontro tra i miei studi ufficiali e quelli ufficiosi. Costantemente combattuto tra bianco e nero, tra desiderio e volontà, decido di accettare la sfida di un lavoro che pensavo non mi appartenesse. E invece.. Sono un consulente finanziario, tra numeri e budget, ma non ho mai abbandonato la passione per la ricerca e lo studio delle profondità interiori.
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