Nella vasta pineta di Marina di Cecina soffiava un vento leggero, una brezza mattutina che accarezzava le alte chiome dei pini.
Era un giorno di fine marzo e nell’aria si sentiva già il profumo della primavera.
Verso i monti il sole stava sorgendo e faceva capolino con la sua luce dorata, mentre gli abitanti della grande riserva naturale erano intenti a sbrigare le loro faccende.
C’era chi veniva da una notte di lavoro, come la civetta Antonietta o la volpe Carlotta, e chi si alzava per dare il buongiorno al sole nascente, ma soprattutto c’era un gran silenzio e tutti gli animali parevano vivere insieme in modo pacifico.
O almeno così poteva sembrare ad un osservatore poco attento, in realtà molti di loro erano alle prese con piccoli problemi quotidiani.
Il Signor Picchio Verde e sua moglie Clotilde si erano trasferiti nella loro casa in via del Pino Antico ormai da qualche settimana. L’avevano costruita scegliendo accuratamente il tronco dell’albero e scavando un buco abbastanza grande da poterci vivere con i piccoli che sarebbero nati di lì a poco.
Tutto sembrava perfetto: il grande pino era alto e robusto e il nido accogliente e spazioso, tuttavia qualcosa turbava la loro serenità.
Da quando il Signor Upupa era tornato ad abitare accanto a loro, la famiglia di picchi non riusciva più a godere della pace e della tranquillità della pineta.
L’aria infatti non aveva più il profumo della macchia mediterranea e della salsedine, ma un fetore insopportabile che copriva ogni altro odore.
“Mario, io non ce la faccio più!” si lamentò la Signora Clotilde col marito. “Siamo venuti in questo bosco per respirare aria buona e far crescere i nostri piccoli in un ambiente protetto e salutare, ma qui c’è una puzza tremenda! Da quando il Signor Upupa è diventato nostro vicino non si respira più!”
“Tesoro, mi dispiace tanto, ma che cosa possiamo fare?” si domandò il Signor Picchio Verde. “Tu ormai hai deposto le uova e non possiamo cercare una nuova casa!”
“Tanto valeva, allora, tornare da mio cugino Albano, così avremmo avuto cibo a sufficienza!”
“Che cosa?” chiese sbalordito il marito, mentre le piume rosse del capo sembravano essersi drizzate di qualche millimetro e spiccavano in contrasto con quelle verdi del dorso.
“Avresti voluto far nascere i nostri figli vicino ad una discarica?” domandò esterrefatto alla moglie. “Tuo cugino è un gabbiano e può volare da lì alla costa senza fatica, ma noi avremmo dovuto nidificare nei dintorni e lo sai anche tu che non sarebbe stata una buona cosa! E il cibo, poi…. Puah! Tutta quella robaccia scartata dagli umani e lasciata lì a scaldarsi sotto al sole! Prima di mangiare quelle schifezze avrei fatto il digiuno!”
A quelle parole Clotilde sospirò mesta ed osservò pensierosa le sei uova che aveva sotto al grembo.
In realtà quello sarebbe dovuto essere un momento davvero magico della sua vita: i suoi piccoli, infatti, erano prossimi alla nascita e lei e Mario avrebbero dovuto spendere tutte le loro energie per accudirli, tuttavia non riusciva a godersi quel periodo come avrebbe voluto, tanto era infastidita dalla puzza che ormai aveva pervaso anche la loro casa.
Possibile che la Signora Upupa non tenesse pulito il suo nido? Si chiese soprappensiero. Eppure i suoi vicini le sembravano degli uccelli per bene, ogni mattina non mancavano mai di dare il “buongiorno” e da quando la moglie aveva deposto le uova, il marito non faceva altro che darsi da fare per sfamare la sua famiglia.
Sentì una leggera carezza e si voltò.
Mario stava strusciando il lungo becco contro le piume verde oliva del suo collo. Mentre la osservava i suoi occhi avevano un’espressione preoccupata, tanto che Clotilde si sentì in dovere di rassicurarlo.
“Va tutto bene!” disse al marito. “Dicevo tanto per dire, in realtà quest’albero è una casa perfetta e la pineta è un posto splendido, lontano dall’inquinamento e dai pericoli dell’uomo.”
“Lo pensi davvero? Non ti crea così tanto fastidio vivere qua?” volle sincerarsi il Signor Picchio Verde.
“Ma no, è davvero il luogo ideale per metter su famiglia, avrei solo voluto che gli Upupa nidificassero un po’ più in là … Comunque non ha poi così importanza!” disse ancora Clotilde. “Fra qualche settimana potrò uscire in volo e respirare aria pura! E poi guarda, Mario, il cielo si sta già coprendo di nuvole scure … è probabile che oggi piova e forse l’acqua purificherà un po’ l’aria!”
A quelle parole, la poca luce che filtrava dai rami degli alberi si fece ancora più fioca e le gocce di pioggia cominciarono a cadere sul terreno coperto di aghi di pino.
Un silenzio improvviso calò su tutta la pineta, mentre il rombo del tuono risuonò lontano, poi il temporale avanzò e il luccichio del lampo abbagliò per un attimo l’intera riserva.
Tutti gli animali della pineta si rifugiarono nelle loro tane, solo gli alberi e gli arbusti più piccoli rimasero immobili a sfidare la furia del temporale.
Ai piedi del pino che offriva rifugio ai Signori Picchio Verde, uno strato di muschio, compatto come un tappeto, ricopriva buona parte del terreno e si arrampicava fin sulle radici nodose dell’albero.
Proprio sul soffice manto stava avanzando un piccolo lombrico dall’espressione terrorizzata.
Tutto affaccendato a trovare al più presto un riparo dalla pioggia, strisciava veloce verso un punto ben preciso del terreno, dove era sicuro ci fosse una distesa di foglie di ciclamino.
D’altra parte, in quel periodo dell’anno, la pineta era invasa da queste piantine e il lombrico, che si chiamava Marrico, sapeva che avrebbe potuto utilizzarne le foglie come un ombrello.
Prima che la pioggia cadesse copiosa ad inzuppare la macchia, il piccolo lombrico raggiunse la verde distesa tanto desiderata e ci si riparò sotto tutto tremante.
In giro non si vedeva nessuno e l’aria si era fatta più fredda del solito.
Sotto a quell’ombrello improvvisato, Marrico aspettava che il temporale passasse per poter raggiungere la sua casa.
Quella notte, infatti, era sgattaiolato fuori dal suo letto e senza dire niente a mamma e papà, era uscito per fare un giro per la pineta.
Sapeva che era assolutamente vietato vagabondare per la riserva, soprattutto di notte, ma la curiosità di scoprire il mondo era più forte di tutto.
A Marrico non importava di essere un lombrico, né di dover stare attento ad un’infinità di pericoli, sia notturni che diurni, lui non ne voleva sapere di doversi spostare solo sotto terra, all’interno di cunicoli umidi e bui. Amava, infatti, sentire il vento sulla faccia e la carezza del sole sulla pelle.
Che diamine! Pensava fra sé pieno di orgoglio. Sono un lombrico, però sono coraggioso come una tigre! Non ho denti e sono piccolino, è vero, ma queste sono le uniche differenze!
E così, mentre la pioggia continuava a cadere incessante e l’intera riserva naturale veniva rinfrescata da quel violento temporale, Marrico se ne stava sotto una foglia a forma di cuore a rimuginare sul suo destino.
Perché sono nato lombrico? Si chiedeva. Io, che avrei voluto girare il mondo sulle ali del vento e tuffarmi nel mare fino a non avere più fiato … Potevo nascere gabbiano oppure gazzella, o ancora uno squalo martello dei Mari del Sud oppure un leone nella savana … Anzi no, facciamo un ghepardo, che è più veloce! Se devo sognare, lo faccio alla grande!
Ma la realtà era che Marrico era davvero un lombrico e quello sarebbe rimasto per tutta la vita.
Tuttavia questo non gli impediva di trasgredire costantemente alla regola fondamentale della sua famiglia: spostarsi solo al di sotto della terra, evitando di uscire sia di giorno che di notte.
Naturalmente la mamma non faceva che raccomandargli di essere prudente ed era assolutamente indifferente a quello che i lombrichi chiamavano “il mondo di sopra”, ma Marrico avrebbe voluto mostrarle almeno una volta l’intensità della luce durante un tramonto o come fosse romantico il cielo di notte quando era colmo di stelle … Se avesse potuto farlo, era certo che la mamma avrebbe capito perché lui si ostinasse a voler vivere in superficie.
Per questo, quella notte, era uscito dalla sua casa senza dire niente a nessuno e si era messo a vagabondare qua e là. Purtroppo, però, si era allontanato un po’ troppo e non ce l’aveva fatta a rientrare prima dell’alba. Adesso era sicuro che i suoi familiari avessero scoperto la sua fuga e fossero preoccupati per lui.
Per tutti i corbezzoli! Pensò. Era stata tutta colpa di quel grosso tasso, se aveva fatto tardi ed era stato sorpreso dall’acquazzone! Quando lo aveva visto si era nascosto finché non era scomparso nella boscaglia, poiché non era ansioso di diventare il suo pasto quotidiano, ma ora si ritrovava solo ed infreddolito in una piccola foresta di ciclamini, senza la possibilità di poter tornare a casa.
Soprappensiero e ormai vinto dalla stanchezza, si appoggiò ad un gambo dietro di lui per schiacciare un pisolino, quando una voce lo fece saltare dalla paura.
“Ohi, ohi, ohi!” disse la voce misteriosa alle sue spalle.
Marrico sentì il cuore rimbalzargli in petto e credette di essere spacciato.
Adesso mi volto e mi trovo a quattrocchi con un merlo affamato, pensò fra sé senza avere il coraggio di girarsi.
Tutto tremante aspettò che il grande becco arancione si chinasse su di lui, ma non successe nulla.
Dopo qualche secondo, sentì di nuovo quella voce sconosciuta che gli diceva:
“Ehm, scusa, ti ho spaventato?”
A quel punto Marrico decise che poteva arrischiarsi a vedere chi avesse pronunciato quelle parole e quando si voltò si trovò di fronte un bellissimo fiore dai petali fucsia.
“Wow!” esclamò il lombrico. “Ma sei un fiore punk?”
“Punk?” domandò stupito il fiorellino.
“Sì, con quella cresta colorata che ti ritrovi in testa…!”
“Ma che dici? Questi sono i miei petali ed io sono un ciclamino!”
“Un ciclamino?” disse stupito Marrico. “Ma non sei spuntato un po’ troppo presto?”
“Perché dici così? Io non ho potuto scegliere il momento in cui sbocciare … semplicemente mi sono ritrovato qua fuori, senza ricordarmi come ci fossi arrivato.”
“Davvero? Ma senti … sarai mica venuto dallo spazio,eh?” chiese il lombrico con sospetto.
“Ma quale spazio! Tu sei tutto matto! Te l’ho detto, sono un ciclamino!” si arrabbiò il piccolo fiore.
“E allora, se sei un ciclamino, come mai non sei sbocciato insieme a tutti gli altri? Sei l’unico fiore che ho visto in giro ad avere quella strana pettinatura … sembra che ti abbiano asciugato i petali con il phon!”
“Non mi sono asciugato proprio un bel niente! Tutti i ciclamini hanno i petali come me e adesso te lo dimostrerò!”
Detto questo, il fiorellino prese a girarsi in ogni direzione in cerca di suoi simili, ma quello che vide furono solo distese verde scuro di foglie di ciclamino.
“Smettila di agitarti così o ti andrà la pioggia negli occhi!” gli raccomandò il lombrico.
“Ma, non capisco …” gli disse il fiore con espressione smarrita. “Eppure ero sicuro che saremmo stati in tanti …”
“Certo, certo …” tagliò corto Marrico. “Facciamo così, partiamo dalla cosa più semplice: inizia col dirmi il tuo nome, va bene?”
“D’accordo!” disse il fiorellino tutto convinto. “Mi chiamo Ciclamino”.
“Ciclamino? Ma non ce l’hai un nome vero e proprio? Che ne so, tipo Antonio o Patrizio … Io, ad esempio, non mi chiamo mica Lombrico, ma Marrico!”
A quelle parole Ciclamino fu colto da un attacco di risa e rise così tanto da mettersi a piangere.
Quando riuscì a riprendere fiato, guardò il viso accigliato del giovane lombrico e gli disse:
“Scusa, ma anche tu hai un nome parecchio strano!”
“Cosa c’è di così buffo in Marrico?”
“Beh, ma fa rima con lombrico!”
“E allora? E’ una tradizione di famiglia: mio padre si chiama Enrico, mio fratello Federico e mia madre Ludovica.”
“Sono contento per voi, ma io che cosa posso farci se mi chiamo solo Ciclamino?”
“Eh, non lo so! Dovremmo chiedere ai tuoi genitori, ma in giro non vedo nessuno.”
“Non è possibile che io sia l’unico ciclamino in tutta la pineta!” si lamentò il fiore.
“Eppure è così, te lo posso assicurare! A me piace fare lunghe passeggiate nei dintorni e non ho mai incontrato un fiore come te!”
“Oh, povero me!” cominciò a piagnucolare Ciclamino. “E adesso come farò a sopravvivere da solo?”
“Ma dai!” cercò di consolarlo Marrico. “In fin dei conti hai bisogno solo di un po’ d’acqua e qua, se non smette di piovere, ce ne sarà fin troppa!”
“Lo so, ma la solitudine mi peserà. Con chi potrò fare due chiacchiere, se non c’è nessun altro a farmi compagnia?”
Marrico ci pensò su qualche momento, poi l’espressione sconsolata del viso di Ciclamino lo intenerì.
“D’accordo!” disse allora. “Vorrà dire che passerò a trovarti ogni volta che potrò, ok?”
“Sarebbe bellissimo!” lo ringraziò il fiorellino e sorridendo rilasciò nell’aria un profumo delizioso.
“Per tutte le ghiande! Che cos’è questo odore così buono?” chiese stupito il lombrico.
“E’ la mia corolla … Dopo tutto sono pur sempre un fiore!” gli disse Ciclamino facendogli l’occhiolino.
“Già! E probabilmente non sarà poi così spiacevole passare un po’ di tempo in tua compagnia!” gli rispose Marrico.
In quel momento, un grosso gocciolone di pioggia si staccò da una foglia e cadde proprio in testa al lombrico.
“Corbezzolina! Mi sono inzuppato completamente!” disse Marrico asciugandosi la fronte.
“Ih, ih!” rise Ciclamino guardando il compagno tutto fradicio. “Ti conviene avviarti verso casa, altrimenti dovrai imparare a nuotare!”
“Già! Io odio strisciare sotto terra, ma penso che stavolta sia il caso di fare un’eccezione!” e così dicendo iniziò a scavare un buco nel terreno finché non fu sprofondato per metà.
Poco dopo, quando il cunicolo era già ben avviato, emerse di nuovo dalla piccola apertura e salutò allegramente il nuovo amico con la promessa di rivedersi al più presto.
Intanto il cielo non accennava a schiarirsi e la pioggia continuava a tamburellare sulla terra bagnata.
Una volta rimasto solo, Ciclamino si chiese che cosa avrebbe fatto nei giorni a venire, senza sapere che da quel momento in poi la sua vita sarebbe stata un’autentica avventura.
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