Per un bambino è impossibile accettare l’idea di poter perdere la propria mamma. Quel pomeriggio del 29 aprile 1981, Nato se ne stava disteso sul prato del giardino di casa a pancia all’aria. Il cuore gonfio di solitudine, teneva lo sguardo puntato sulla lama di luce – una invincibile lightsaber – che dall’alto scendeva a frantumare il livore della cappa celeste. Sua madre se ne stava distesa in un letto d’ospedale al quarto piano di un grigio edificio, un banale incidente d’auto con marginali conseguenze. Ma per Nato, quel tetro palazzone di diversi piani, suddiviso in diversi blocchi opprimenti, era distante centinaia di migliaia di leghe, secondo il metro di misura del suo minuscolo cervello: sua madre, là dentro, sarebbe potuta scomparire per sempre e il suo intestino si era attorcigliato come la matassa dei cumuli lassù, sospinti dal vento di primavera. Resistette all’impulso di precipitarsi sulla tazza del water. Inspirò a pieni polmoni il piacevole sentore erbaceo che saliva dal prato, il ventre si ammorbidì e, senza rendersene conto, cercò un appiglio, una via d’uscita per allontanare l’orrendo pensiero. Fu allora che vide che lo scontro in corso tra i nembi faceva al caso suo. Ammaliato dalla visione, gli occhi sbarrati si concentrarono sul fendente accecante che si faceva strada tra il buio, aprendo uno squarcio che introduceva ad un altro mondo. Oltre quel passaggio, il cielo era un’immenso salone dorato senza volta né pareti, un innocuo maniero senza mura e senza torri, una sconfinata città senza palazzi e senza prigioni. Tutto quello spazio si andava popolando di arcangeli, di cherubini e serafini, di anime sante, di scoiattoli e coniglietti, lombrichi e farfalle, delfini e pesci volanti, di musicisti con ogni sorta di strumenti, di ballerine e ballerini, di una moltitudine che cantava danzava giocava gioiva al cospetto di Dio misericordioso. Non ebbe dubbi, là era il paradiso e lui vi si abbandonava perché il suo cuore reclamava una goccia di ristoro.
Nato, quel bambino di sette anni ero io, e da allora di anni ne son trascorsi trentacinque.
Ora, un sole schietto esalta l’azzurro della volta celeste, dove cumuli di bambagia si rincorrono a breve distanza, spinti da un vivace venticello a raccogliersi intorno alle cime biellesi, ancora imbiancate, questo mattino di inizio maggio del 2016.
Sto lottando con me stesso per lasciarmi alle spalle – così spero o m’illudo – l’inverno del mio scontento e ora scruto il cielo in cerca di quella lama di luce che non trovo. Perché tutto appare quieto e appiattito dentro l’atmosfera terrestre, non si indovina alcuna presenza lassù. Il dubbio è che la moltitudine celeste si sia nascosta dietro ai candidi cumuli, che il paradiso si sia allontanato, sospinto lontano dal disgusto per una umanità divenuta sempre più più scostante.
Mi ero crogiolato lungo interminabili giorni e settimane e mesi in un liquido torbido di confusione e scoraggiamento. Mi ero spinto fin sull’orlo dell’abisso e in quell’abisso avevo sognato di sprofondare la mia disperazione facendola finita per sempre.
Con la bella stagione mi stavo sforzando di iniziare la giornata andando a bighellonare lungo le strade di campagna. L’aria pulita, i profumi, il silenzio, a tratti rotto dal canto di usignoli e cince, mi regalavano l’illusione di una possibile rivincita che tardava ad arrivare. Il nemico era dentro di me e dalle battaglie ne uscivo quasi sempre sconfitto.
A cavallo tra aprile e maggio, le fioriture di acacia, sopravvissute ai temporali, mi stordivano col loro profumo inebriante che risvegliava il ricordo di certi amori giovanili, una nostalgia che azzannava l’anima. Senza la benché minima compassione, mi riportava al breve periodo in cui avevo avuto l’ardire di portarmi la ragazza di turno a pomiciare tra le radure nascoste nei boschi di robinie, sognando ogni volta di poter costruire con lei un futuro felice.
E poi c’era stata lei, Ginevra, con la quale il sogno si sforzava di prendere corpo durante lunghi anni e poi era annegato nel bagno di una palude senza appigli.
Ora, in paese, dopo le abbondanti piogge che avevano in parte rovinato le fioriture per la delusione degli apicoltori, il sole era tornato anche per Dario Pozzo, che certamente se ne compiacque, ma non più di tanto, preso com’era dal risistemare le stanze dell’ostello appena liberate quella mattina dai pellegrini francigeni. La sera erano previsti nuovi arrivi, e lui aveva tante faccende da sbrigare quel giorno. Non aveva tempo di fermarsi a osservare lo spicchio di luce ritagliato fra le pareti e i tetti delle case lungo il corso principale, dove s’inseguivano quegli stracci di nuvole candide come la loro innocenza nel cielo tinta paradiso. Dario è una mente matematica, un esperto di economia che si esprime al meglio nella meticolosa gestione dei suoi affari personali, un umorista malgrado certi toni accigliati, un animo tenero e generoso, sepolto sotto un fascio di coperte protettive. Ed è pure un appassionato di storia locale. Per un certo periodo ha riversato i suoi saperi all’Università. Poi s’è invaghito del viaggiare lento e ogni tanto, in segreto, di qualche giovane pellegrina. Per questa ragione, e per amore del quieto vivere, s’è dedicato all’ostello dei viandanti che, nella bella stagione, fanno sosta in gran numero a Santhià, quarantaquattresima tappa dell’itinerario di Sigerico, lungo la via Francigena che scende giù dalla Valle d’Aosta.
Intorno alle 11 di quel mattino, transitando per piazza Roma dopo la camminata, dove mi ero fermato per il solito cappuccino, con il solito cornetto farcito con la solita composta di frutti di bosco, stavo giusto discorrendo senza molta fantasia dei capricci del tempo con Mario, quando lui venne interrotto dalla telefonata di un carpentiere che stava lavorando all’ampliamento di alcuni locali in un edificio di corso Nuova Italia, una porzione di stabile che aveva acquisito per destinare all’ospitalità delle frotte di pellegrini in cammino.
– Corra subito che prima di andare avanti è meglio che lei veda, – aveva annunciato la voce proveniente dal suo sempreverde Nokia.
– Arrivo, non mi metta fretta, – aveva tagliato corto Dario.
L’edificio si trova a pochi passi dalla piazza, basta passare dentro un androne ed eccoci arrivati.
– Posso venire con te?
Si limita ad un cenno di assenso mentre si asciuga il sudore dalla fronte con la manica della camicia, non ho capito se gli spiaccia un pochino, ma io ho del tempo da perdere e sono curioso. Un palazzo storico, un po’ pretenzioso, con un massiccio portone, stretto e alto, sormontato da un fregio in gesso, che fino a qualche anno prima aveva ospitato sotto quel fregio una targa riportante l’altisonante dicitura: “Napoleone Bonaparte primo console, superate le Alpi, i piani della battaglia di Marengo, in questa casa vegliando studiava. Addì 13 giugno 1800”.
La targa si rivelò una fake, anche se allora non si diceva così, nient’altro che il tentativo dell’intraprendente proprietario dell’epoca di far lievitare le quotazioni della sua abitazione.
Ad ogni modo, Dario accorre infastidito all’idea di trovarsi di fronte a qualche problema di ordine tecnico. E, invece, la sorpresa: la parete divisoria che i muratori stavano abbattendo rivela l’esistenza di un’intercapedine, un minuscolo vano, forse un armadio a muro che venne sigillato con tutto il suo contenuto nell’intento inequivocabile di qualche avveduto artigiano di lasciare ai posteri quelle testimonianze. Dario non vuole credere ai suoi occhi: diversi plichi pieni di carte risalenti a un paio di secoli prima, delizia per il suo palato di storiografo, una visione che per la sua sensibilità supera senza se e senza ma quella di una graziosa pellegrina britannica in abitino mozzafiato.
– Per oggi il lavoro termina qui, – sentenzia Dario e, di fronte a tanta risolutezza, i muratori non possono far altro che andarsene in un altro cantiere.
– Ma sappia che non torneremo prima di una settimana, – bofonchiano quelli mentre fanno su i loro attrezzi.
Per farla breve, da quell’ammasso di carte contenenti ricevute, appunti, contratti, resoconti contabili, saltano fuori anche diversi fogli di un diario di viaggio appartenenti a un certo conte Filiberto Durandi, probabile cugino contemporaneo dell’insigne giurista, drammaturgo e storico santhiatese Jacopo Durandi, “Cavaliere e Consigliere dell’Ordine Militare De’ SS. Maurizio e Lazzaro”, nonché “Presidente nella Regia Camera de’ Conti”.
Ebbene, a quanto pare, questo presunto cugino aveva la mania pure lui di scrivere e il più voluminoso dei faldoni saltati fuori dal muro come scheletri risorti a confrontarsi con un mondo del tutto cambiato, quello che ha subito attratto l’attenzione per dimensioni e magnificenza, comprende due fascicoli. Il primo riporta sul frontespizio in bella grafia, pur con qualche scoloritura causata dal tempo e dall’umidità: “Introduzione al viaggio da compiersi al santuario di Oropa – (sotto) avendo la missione di ritrovare le chiavi… (tratto scolorito) del Paradiso.
[…]
E’ giovedì 9 giugno 2016, lo stesso giorno in cui due secoli e un anno prima il conte Filiberto si mise in cammino sotto un cielo di caligine che minacciava di scaricare altra pioggia sui campi devastati dal maltempo e da una temperatura che non superava mai i quindici gradi.
Ora Dario è davanti a me che osserva la mia asina, mi chiede se mi son portato appresso le fotocopie del diario del Durandi, così, per cercare delle corrispondenze con la mia esperienza e magari per riflettere sui quesiti che gli erano stati affidati.
Si è portato dietro una macchinetta fotografica che mi sembra vecchia di qualche decennio, ma mi sbaglio, è un apparecchio digitale. Sono le nove e ci troviamo sulla piazza centrale di Santhià. Lui ha informato a mia insaputa il sindaco che, insieme ad alcuni consiglieri e curiosi del comune, sono venuti a salutarmi. Il mio amico scatta un po’ di foto con lo sfondo del municipio e del Duomo. Fioccano le battute sulla mia tenuta e la mia compagna di viaggio, quattro risate per tener testa all’emozione, poi saluto tutti e mi avvio con Gentile al mio fianco verso l’uscita del paese. Cercherò di evitare quanto possibile le strade asfaltate, ho studiato attentamente il percorso che giocoforza sarà diverso da quello del mio precursore. A quel tempo la strada sarà stata quella che portava ad Ivrea, una strada percorsa soltanto da esseri animati, al massimo trainanti carri o diligenze di legno. Io, invece, devo evitare il traffico motorizzato, acciaio e plastica in corsa, che cambierebbe il senso del cammino.
[…]
E’ passato da un po’ mezzogiorno quando, dopo aver zigzagato percorrendo il reticolo dei viottoli che ritagliano la geografia dei campi coltivati, raggiungiamo la periferia del paese. Il sole a picco arroventa l’aria che mi investe salendo da terra. Sete, gambe molli. A un bivio, il cartello di un agriturismo semi nascosto in una conca circondata da piante e arbusti fioriti, ortaggi e filari di erbe aromatiche mi attrae con la forza di una calamita.
Sotto la tettoia alcuni tavoli, in parte occupati da clienti: un paio di donne eleganti intente a confabulare davanti a una ciotola di insalata, un uomo di mezza età in maniche di camicia che maneggia il telefonino, ha tutta l’aria d’essere un rappresentante; poi un vecchio corpulento, non vedente – lo si capisce dal tipo di occhiali e dal volto inespressivo mentre rumina il suo pasto, e poi il bastone da passeggio bianco appoggiato ad una sedia. – Si accompagna ad una donna di gran lunga più giovane, capelli biondo stinto, fisico giunonico, una rumena o moldava o giù di lì. La badante mi dico. Ad ogni modo questo è il posto giusto per la pausa pranzo. Lego Gentile a uno dei pali che sostengono la copertura della tettoia, lontano dai tavoli, la vezzeggio un pochino accarezzandola sul muso e mi accomodo poco distante dal cieco.
Nemmeno cinque minuti e Gentile comincia ad agitarsi e a ragliare per il divertimento dei commensali che si lasciano andare a commenti e risate, frantumando il silenzio che regnava fino a quel momento. Ed ecco che, dall’altra parte del cascinale, si leva una raffica di ragli modulati che ricordano la tromba di un piroscafo. Arriva il gestore che – Non si preoccupi, – mi dice, – questo è il paradiso degli animali e gli asini avvertono subito la presenza di altri individui come loro. Se vuole le faccio fare un giro nei paraggi, porti anche la sua bestia. Lo ringrazio, ma prima vorrei ordinare, che non ho molto tempo, devo riprendere il cammino che sono in ritardo sulla tabella di marcia.
Insalata di riso Venere con dadini di zucchine, carote e mandorle al profumo di menta e maggiorana, roast beef con patate al forno: divoro tutto con malcelata voracità, annaffiato con un quartino di rosso della casa, uvaggio leggero di barbera, nebbiolo ed erbaluce, mi racconta l’oste. Arrivato al caffè, prima di saldare il conto gradirei fare un giro nel recinto degli animali, come mi è stato promesso, perché intanto la mia asina non ha smesso di ragliare, sbattere la coda e cercare di staccarsi dal palo a cui l’ho legata. Senonché, l’uomo cieco e obeso si solleva in piedi sbuffando, con Giunone che scatta a sostenerlo, si accosta al mio tavolo, lasciandosi andare pesantemente su una sedia.
– Mi ascolti, – esordisce. Naso tozzo che mi ricorda un tubero, respira ansimando. Si leva gli occhiali e mi pianta in faccia il suo sguardo spento. Con voce rauca, esibendo una lingua cremosa, mi sussurra il suo segreto: – Non sono cieco del tutto. Ipo-veden-te, – scandisce.
– Ho visto l’asino e ho visto lei. Immagino stia venendo su da Roma, credevo fosse uno straniero che torna in patria dopo il suo bel pellegrinaggio, ma parla bene la nostra lingua.
Osservo Giunone che intanto si è accomodata pure lei, si aggiusta i capelli con fare civettuolo, gli occhi cerulei sono attenti, pare interessata al dialogo.
– Non vengo da Roma, vado semplicemente ad Oropa. Poca cosa, come può ben comprendere.
L’uomo adesso rimette gli occhiali e solleva il viso verso un punto indefinito del cielo. Tace, sembra cercare ispirazione ed è a questo punto che, davanti a me, vedo in lui l’indovino Tiresia, l’uomo a cui gli dei avevano concesso di essere in tempi diversi sia uomo che donna, l’uomo che fu reso cieco da Era poiché aveva rivelato davanti a Zeus il segreto che la donna in amore prova piacere nove volte più dell’uomo. Zeus, per compensare il danno subito, gli concesse la facoltà di prevedere il futuro.
– Già, la Madonna Nera.
Schiocca la lingua biancastra. – Ma mi dica, cosa va cercando ad Oropa con un asino al seguito?
– E’ una storia complicata, – gli rispondo, come risponderò spesso a tutti a questa domanda.
– Sarebbe troppo lunga da raccontare, non ho tutto questo tempo, – cerco di tagliar corto.
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