La vita si stava risvegliando in quello scorcio di solitudine silenziosa chiamata stazione di Zeta.
Quasi nessuno abitava più nel limitrofo paesino sperduto. Solo case vuote e poche vecchie anime ad osservare la sabbia alzata dal vento sulla strada, mentre il tempo rubava loro un altro ricordo ancora. C’era la sabbia ma non il mare a Zeta. Tanta stanchezza ma altrettanta voglia di resistere. Una pace malinconica, interrotta solo dal rumore dell’attrito del vecchio vapore sulle rotaie.
Pochi occhi, avvolti da profondi solchi, si radunarono in attesa di scorgere quei coraggiosi stranieri, tanto valorosi da spingersi sino a quei dimenticati confini. Si trattava di un lungo viaggio, quello per Zeta, a prescindere dal luogo di partenza, e solo due potevano essere i motivi per intraprendere una simile avventura: curiosità, o desiderio d’invecchiare soli. Sfortuna o condanna, per dirlo con le parole degli abitanti di Zeta.
Scoccarono le ventuno e trentatré, mai un minuto di ritardo per il vecchio vapore, quando si aprirono rumorosamente gli sportelloni come gigantesche bocche dal fetido alito di stantio e ferro bruciato. Un fitto brusio si mescolò alla brezza serale quando i primi passeggeri fecero stancamente capolino fuori dalla carrozza. Un rituale al quale il guardiano della stazione era solito assistere in disparte.
Alcune ombre chiassose se ne stavano là, sul marciapiede rialzato limitrofo all’ingresso, poggiate con tutto il peso sul corrimano e con le teste sporte verso quegli stranieri folli. Un branco infiacchito di vecchie iene incartapecorite.
«Ah. Hai visto quel giovanotto tutto muscoli con quel ridicolo berretto?»
«Che io sia dannato se resiste tre giorni.»
«Tre giorni? Lo diamo in pasto al vecchio Sigmund e vedrete come correrà a prendere il treno per il capolinea, non ci penserà un attimo.»
«Sei proprio uno stronzo Bill.» Irruppe una vecchia signora di tutto punto vestita. Sfoggiava l’abito delle grandi occasioni. «Non capita spesso di ricevere stranieri così affascinanti. Questa volta ho intenzione di giocarmi bene le mie carte.» Si inumidì le labbra rugose ben sottolineate da un rossetto blu cobalto.
«Bill sarà anche stronzo ma tu sei una gran troia, Jeanette.» Si intromise con voce tonante Sigmund, il fabbro del paese. Un nerboruto ometto di ottantasei anni, il più basso, decisamente basso, dello sparuto gruppo rumoroso. Spalle larghe avvolte da un vecchio cappotto mimetico stropicciato e una pancia prominente portata con la dignità d’un re. «Quel rammollito scapperebbe dalla mia officina dopo mezz’ora e in lacrime, gridando aiuto alla mammina.»
«Potrei essere la sua mammina quando vuole. E quante volte vuole.» Il rossetto si stava disfacendo ai lati della bocca lussuriosa.
«Corbezzoli. Non farmici neanche pensare. Non merita una punizione tanto severa, nonostante tutto.» Gli uomini intorno a Jeanette si portarono la mano alla bocca, simularono un conato e scoppiarono all’unisono a ridere.
«Vi piacerebbe poter giocare con tutto questo.» Si strizzò con passione ciò che rimaneva dei suoi, un tempo avvenenti, seni. «Dareste tutto per farvi risvegliare dalla sottoscritta quello sgarbo alla vita che vi ciondola tra le gambe, ma io sono solo per pochi eletti.»
Le risa si levarono sino ai tetti delle case e divennero un virus capace di contagiare gli altri curiosi perditempo.
I nuovi arrivati, stremati dal lungo viaggio, alzarono lievemente il capo in direzione del baccano. Si trovarono ad osservare senza emozione il gruppo di bambini ottuagenari che si prodigava a deriderli senza alcun ritegno.
«Adesso basta!» La voce si levò potente sotto di loro, un tuono nel cielo sereno della notte, ad interrompere quel baccanale di suoni molesti. Non dovevano incontrarsi, non ancora. «Ogni cosa a suo tempo.» Ripeteva sempre il vecchio principale ogni qual volta la sua smania di gioventù da inesperto apprendista metteva a rischio l’esito di un lavoro. Cercò invano di ricordare il suo volto, sembravano passati secoli.
Intorno alla sua figura carismatica tornò per qualche secondo il silenzio, tutti gli sguardi si volsero in direzione della panchina sulla quale sedeva. Il guardiano della stazione era solito osservare in disparte lo svolgersi delle operazioni d’accoglienza ma esistevano limiti che non dovevano essere valicati, gli abitanti del posto ne erano coscienti. Delle conseguenze, in particolar modo, erano consapevoli. Li fulminò volgendo la testa verso l’alto e rivolse loro un sorriso che non prometteva niente di buono. Se ne andarono. Qualcuno borbottò ben più di un’ingiuria nei suoi confronti ma il guardiano non ci fece caso, faceva parte del mestiere non offendersi.
I nuovi concittadini, o sedicenti turisti che presto sarebbero divenuti parte della comunità, svanirono all’interno della sala d’accoglienza. C’era stato più trambusto del solito quella notte, una situazione insolita per quanto potesse ricordare ma, alla fine, tutto andò come sempre era andato. Un lavoro noioso, il suo, ma di fondamentale importanza. «Noi siamo i guardiani dell’equilibrio.» furono le ultime parole del predecessore, prima di andarsene dal paese, a godersi la meritata pensione. Il garzone timoroso di un tempo, che adesso ne aveva preso il posto, non era riuscito a comprendere il senso di quelle parole. Molto tempo era trascorso prima che riuscisse ad abbracciare un solo millesimo del valore di quella frase enigmatica. Aveva dovuto comprendere se stesso, prima; poi il significato del compito che gli era stato assegnato.
Il treno fischiò destandolo dai pensieri. Si alzò lentamente, poggiando le mani sulle ginocchia. Si sentiva stanco. Essere il guardiano della stazione poteva sembrare un mestiere per fannulloni, in realtà richiedeva una notevole quantità di energie. Una pazienza smisurata e una non comune capacità di non annoiarsi. Come se non bastasse vegliava su quelle quattro povere anime del paese: ascoltava i loro bisogni, era ambasciatore delle infinite baruffe e gelosie di quei rozzi poppanti sdentati, si prodigava ad inserire nella comunità i nuovi arrivati senza che gli equilibri venissero stravolti. Insomma, quel signore silenzioso dall’aspetto pacifico, ben vestito e curato in ogni dettaglio, non era altri che l’autoproclamato sindaco di Zeta.
Posò sulla panchina un quaderno ben rilegato la cui copertina in pelle color cuoio aveva impressa la scritta in elegante corsivo registro passeggeri, posta al centro esatto di un cerchio dorato. Il guardiano, rimasto solo nella notte silenziosa, diede una decisa scossa alla polvere sul sedere, sistemò la cravatta decorata banalmente di una fantasia gessata, abbottonò i due lembi della giacca in seta color cenere e si accinse a ricevere i pellegrini appena giunti. Nessun abitante del paese conosceva la meta successiva del treno. Tutti arrivavano convinti che Zeta fosse il capolinea di un già stremante viaggio. Solo i più anziani del luogo avevano iniziato a propendere verso tesi più o meno azzeccate, pericolose da diffondere.
Dopo ventisette minuti di sosta, alle ventidue in punto, il treno chiuse i portelloni e ripartì così come era arrivato. Proseguendo la corsa, mai tornando indietro. Solo il guardiano aveva abbastanza conoscenze ed esperienza da poter raccontare cosa attendeva la stazione successiva, il vero capolinea, ma era ligio e fedele al ruolo che il destino gli aveva assegnato.
«Mai e poi mai dovrai raccontare ciò che hai visto.» Queste furono le prime parole di rimprovero del grande capo quando, dopo interminabili anni di manovalanza, la pianta delle sue scarpe posò curiosa sul suolo del capolinea.
I nuovi arrivati uscirono dalla sala col fare di minatori appena risorti da dodici ore di piccozza, in fila indiana e con passo cadenzato. Sei persone. Non gli era mai accaduto di trovarsi a gestire un numero tanto folto di viandanti in una volta sola, anzi, spesso se ne andava sconsolato dopo aver atteso invano seduto sulla panchina. Pensò a quanto lo alleggerisse da ogni pesantezza quel viaggio sino al capolinea. Si respirava un’aria di infinita libertà in quel luogo tanto diverso dalla stazione dove trascorreva gran parte della giornata. Solo chi riusciva a procurarsi un permesso speciale e il loro accompagnatore, il responsabile della stazione, potevano salire in carrozza verso l’ultimo scalo.
Zeta era solitudine. Il capolinea era… beh, le banali parole non consentono di spiegarlo, ma tutt’altro che solitudine.
I ricordi fluivano privi di controllo, impressi nella cellulosa di una vecchia pellicola ingiallita. Li osservava stupito, domandandosi quale fosse la fonte della rinata curiosità capace di riportarlo tanto indietro nel tempo. La mano scivolò ad accarezzare il vecchio registro, impolverato d’inedia e inerzia, divenuto da anni un trascurabile accessorio esteriore al pari della giacca indossata ogni sera.
Li salutò cordialmente, fu ripagato da indifferenza. Non si offese.
«Fa parte del tuo mestiere, mai offendersi.»
«Basta, capo!» Non riusciva a togliersi quegli ammonimenti dalla testa, quella sera. Tutto si stava svolgendo come sempre, molto diverso dal solito. Quell’esclamazione fuori luogo non fu degnata di uno sguardo dai passeggeri. Controllò i biglietti come niente fosse accaduto. Non riuscì però a contenere la sorpresa per quello che i suoi occhi ebbero a leggere. Eppure si trattava di documenti in regola, firmati dal titolare della ferrovia, validati e timbrati.
Scalo temporaneo.
Sei, e in un colpo solo. Sbalorditivo. Qualcosa stava cambiando, o forse era già cambiato e non se ne ero accorto fino ad allora.
Per il momento si limitò a sorridere pensando alle facce di quei vecchiacci invidiosi nell’accogliere questa notizia. Con un gesto elegante invitò gli ospiti verso l’uscita della stazione, una piccola porta a fianco della sala d’attesa. Si mossero all’unisono, testa bassa, senza emettere fiato. Uno sparuto branco di pecore stanche in balia dei comandi del pastore. Avrebbero trovato da soli il loro posto nel paese, come a chiunque era già accaduto prima, senza alcuna eccezione. La notte sarebbe passata, anche per quegli sfortunati viandanti, e i sensi si sarebbero destati dal torpore provocato da quel viaggio.
Tornò a sedersi sulla panchina, ripiegò i documenti saggiandone il peso e li posò i delicatamente nel taschino interno della giacca. Lontano, molto lontano da Zeta, il treno emise un suono che solo lui riuscì a percepire mentre il vapore consacrava la propria danza al vecchio motore. Scomparve presto all’udito e ai sensi, lasciandogli dentro l’incomprensibile malinconia di sempre. Senza ulteriori remore, avvolto dal silenzio notturno tornato padrone di Zeta, posò il registro passeggeri sulle ginocchia e lo aprì, promettendo a se stesso di dare soltanto una sbirciatina.
Sarebbero stati giorni interessanti.
Diciassette anni aveva Zoe e avrebbe voluto mangiarsi il mondo. Alla fine, fu il mondo a mangiare lei.
Dodici metri quadri. Tre metri per quattro. Una minuscola fortezza priva di fossato, ultima roccaforte tra la vita e l’abisso. Nessuno, persino il più spericolato tra gli ottimisti, avrebbe avuto un minimo di esitazione a definire la sua condizione esistenziale una prigionia.
Eppure, per quello scricciolo di ragazzina di quaranta chili o poco più, quelle mura rappresentavano i confini dell’unico luogo al mondo in cui fosse ancora possibile respirare. Come potevano comprendere gli altri, così diversi da lei? I vecchi compagni di scuola la chiamavano Gollum, strega, fica di legno. Tornava a casa e piangeva ripensando alle continue vessazioni subite, a quanto fosse inadeguata a vivere in mezzo agli altri ragazzi, e a quanto gli adulti fossero stronzi. Nessun professore l’aveva mai difesa apertamente, si limitavano a girarsi dall’altra parte e, li aveva colti in flagranza di reato più di una volta, a farsi una risatina sotto ai baffi.
Aveva imparato a non provare più niente, non le interessava quali fossero i pensieri di quei mostriciattoli puzzolenti e pieni di brufoli, anzi, si faceva delle grasse risate quando qualcuno passava sotto la sua finestra e gridava a squarciagola l’ennesimo soprannome ridicolo. E poi, sì, un po’ Gollum si sentiva davvero, bella rintanata nella propria grotta a difendere l’unica cosa al mondo che le fosse rimasta di speciale: la propria intimità.
Neppure lo psichiatra dal quale era stata portata un anno prima e con la forza dalla madre era stato in grado di intrufolarsi davvero in quel labirinto impossibile qual era il suo mondo interiore. Una seduta la settimana, per tre mesi. Un salasso per una madre single con lavoro part-time e un mutuo da pagare, qualche miglioramento aveva iniziato comunque a far timidamente capolino nella quotidiana disperazione. Quell’uomo parlava, parlava, parlava fino a stordirla e la guardava in un modo che, senza riuscire a spiegarselo, le metteva i brividi. Solo un estraneo dall’eloquio forbito che, però, in qualche modo era riuscito a fare breccia nel suo sconosciuto dolore. Si era fidata a tal punto del grande luminare che in una seduta, l’ultima della sua vita, gli aveva permesso, più pietrificata che consenziente, di mettere una mano sotto la maglietta. «Devi imparare a sbloccarti.» Le aveva detto prima di dare sfogo ai comandi del viscido esserino che aveva tra le gambe. Le aveva sfregato per qualche secondo i capezzoli mentre lo sguardo sulla sua faccia diveniva sempre più raggelante, poi, in un’accelerazione opprimente verso il fondo del baratro, Zoe era scoppiata a piangere, urlando. Era uscita di corsa dallo studio, intimamente sconvolta ma forte di una rinnovata certezza, più solida che mai: non avrebbe permesso a nessuno di sconvolgere il suo mondo. Mai più.
Il Dottor Luminare Psichiatra aveva parlato a lungo con la madre sconvolta, preparandosi la strada ad una eventuale confessione della ragazzina che in realtà sapeva, alla luce di una decennale esperienza di molestatore impunito, non sarebbe mai venuta alla luce. “Soffre di paranoia” “Dissociazione dalla realtà” “Tendenze autolesionistiche” “Tende persino a inventarsi storie per autogiustificare il proprio fallimento sociale”. Aveva sentito tutto, non aveva perso una parola dalla sua camera, così vicina al salone nel quale lo psichiatra e la madre stavano discutendo. Alternava paroloni incomprensibili a spiegazioni semplici, come se avesse a che fare con una bambina. Era un manipolatore, un fottuto manipolatore, come ogni altra persona sulla faccia della terra.
Quello, la sua camera, era l’unico luogo nel quale poteva vivere la propria vita, le sue avventure. Riempiva innumerevoli quantità di fogli bianchi con disordinati girigogoli d’inchiostro; una calligrafia terribile dava vita a immagini mentali partorite da una fantasia sopraffina. Non amava la tecnologia e tantomeno i social, nuovi signori dell’era tecnologica. Facebook, Instagram, Tik Tok, Twitter… una sfilza di sinonimi sfigati creati per dare un nome diverso alla sventura conficcata nel cervello dei propri coetanei: disagio. O estinzione, ma questo era da considerarsi più una conseguenza inevitabile che un semplice sostantivo. Tuttavia la disagiata, per i fedeli del nuovo paradigma (a)sociale, era lei. La stronza, la rachitica, l’anoressica Zoe.
Fu in un momento di noia, durante una ricerca su internet, che scoprì di non essere sola, non del tutto quantomeno. Nonostante la sua fuga dal mondo, il suo desiderio di sparire alla vista di tutti, erano comunque riusciti ad ingabbiarla concettualmente, a definirla. Hikikomori, che nome idiota. Erano riusciti a rovinare l’unica cosa bella affibbiandole un nomignolo cretino. Qualcuno, certamente i più, l’avrebbe trovato un termine affascinate, esotico, ma non si avvicinava minimamente a definirla. Niente avrebbe potuto definirla. La complessità di un dolore non può essere determinata dal narcisismo della pragmaticità.
Spense il cellulare. Se veramente fosse esistito qualcuno simile a lei, poteva star certa che non avrebbe mai desiderato incontrarla. Quindi, caso chiuso. Si tengano pure i loro nomi altisonanti e dimentichino il nome Zoe.
«Zoe.»
Appunto.
«È pronta la cena.»
«Quindi?»
Un’esitazione. La conosceva fin troppo bene. Stava per chiederglielo, di nuovo.
Miriam era conscia del mulino a vento nel quale si era mutata la figlia ma in sella al rachitico destriero chiamato Speranza, si prodigò nella vana impresa. Accadeva almeno una volta a settimana e nell’ultimo anno mai era riuscita a tornare dall’avventura con una misera vittoria in tasca.
«Ti andrebbe di cenare con me, in cucina, stasera?»
«Sai già la risposta, perché continui a chiedermelo.»
«Un giorno mi dirai di sì. Spero.»
«Non stasera. Probabilmente mai, ma non voglio distruggere del tutto le tue speranze.»
Non riusciva proprio a non diventare cattiva quando parlava con Miriam, era più forte di lei. Si faceva schifo da sola a trattarla come una pezza da gettare nel vomito ma quei conati disgustosi stimolati dalla sua stessa immagine riflessa nei vetri della finestra erano il nutrimento perfetto per la propria solitudine. La sua fuga nell’oblio. Tutto ciò di cui aveva bisogno. Il perverso desiderio, un’esigenza primaria al pari di nutrirsi, di fuggire dal mondo al di fuori del suo quattro per tre.
«Ti compro un cellulare nuovo se esci, anche cinque minuti soltanto, e non solo per andare in bagno.»
«Non me ne faccio niente. Che si fottano le foto, i selfie, i like. Li lascio volentieri a te e a quei decerebrati che ti scopi ogni sera.»
Seguì ancora un silenzio, più lungo questa volta. Aveva passato il segno e accadeva troppo spesso nell’ultimo periodo. Ma non avrebbe chiesto scusa, mai. Non a quella donna debole che un tempo chiamava mamma.
Era rimasta sola, all’improvviso, questo era vero, ma ai suoi occhi non esisteva giustificazione per essere diventata una dannata prostituta. Inizialmente aveva immaginato una temporanea situazione di libertinaggio post abbandono, il buon vecchio chiodo scaccia chiodo. Ma le serate si facevano sempre più intense, la stanza da letto che un tempo era di entrambi i suoi genitori divenne affollata di spasimanti, mai respinti. Sentiva i suoi gemiti, le urla false di chi finge senza esserne cosciente e le parole irripetibili che quei gentiluomini le rivolgevano senza alcuna vergogna per se stessi. La immaginava distesa, con lo sguardo vitreo verso i ricordi e in mano, ben salda, una banconota da cento euro. Le faceva schifo quella donna, non l’avrebbe mai perdonata.
«Ti lascio il piatto davanti alla porta.»
«Fa’ come vuoi.»
«Mi è passato l’appetito. Vado a farmi un giro.»
«Te l’ho detto, fai come vuoi.» Scandì le parole come parlasse ad un’anziana signora mezza sorda. «Non devi dirmi dove vai o cosa fai. Non mi interessa.»
«Buonanotte amore mio.»
Zoe non poteva vedere le lacrime grigie della madre cadere sul pavimento mescolate al mascara sbiadito, ma non faticò a immaginarle. Si stupì di quanto fosse incapace di provare qualcosa, anche solo un briciolo di pietà o compassione, nei suoi confronti.
La porta dell’appartamento sbatté con violenza lasciandole, dietro a quel rumore, un moto di spavento.
Aprì con circospezione la porta di camera, il suo castello inespugnabile, stando ben attenta di essere davvero sola. Avevano già provato a stanarla con tecniche simili ma lei era troppo furba per farsi fregare, per finire mescolata con altri orribili essere umani che l’avrebbero, presto o tardi, tradita. Con un gesto fulmineo afferrò la ciotola e richiuse la porta a doppia mandata.
«Sto diventando una bestia.» Sussurrò tra sé e sé.
«Salvami!» gridò all’unica persona al mondo alla quale avrebbe porto la mano. Un cadavere sepolto sotto tre metri di terra insieme alle sue speranze.
Ida Cecchii (proprietario verificato)
Romanzo dalla trama enigmatica, in certi momenti malinconica, scritto con stile narrativo comunicativo e coinvolgente arricchito da alcune scene fuori dal reale.
I personaggi sono tanti ma gli intrecci insoliti delle loto storie, attraverso una serie di emozioni, suggestioni, paure, rabbie, cioè con una gamma infinita di reazioni “umane” legano la mente del lettore conquistando.
La solitudine è il “punto di inizio e di arrivo” e in ogni persona si cela sempre qualcosa di misterioso.
Erika Ugolini (proprietario verificato)
La lettura di questo romanzo mi ha permesso di soffermarmi a riflettere che nella nostra società sempre di più gli esseri umani vivano le loro esistenze come monadi disconnesse.
Spesso la sofferenza e il dolore sono tenuti nascosti e vissuti privatamente, causando ancora più dolore e senso di alienazione.
I personaggi prendono vita nel romanzo e ci portano nel loro mondo interiore, ognuno con il proprio trauma, la propria sofferenza, i sogni e le speranze.
Ci prendono per mano e ci conducono ad una riflessione personale.
Mi sono affezionata alla piccola Zoe che quasi mi sembra di averla conosciuta realmente.
Consiglio questo libro a chiunque voglia intraprendere un viaggio dentro se stesso e verso l’altro, a chi pensa che la comprensione e la connessione con le esperienze e le problematiche della condizione umana di fronte alla sofferenza ci permetta di accorciare le distanze emotive e di uscire dal senso di isolamento.
A chi spera o crede nella redenzione e nelle seconde possibilità.