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Le ragazze della terrazza

Le ragazze della terrazza
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Consegna prevista Gennaio 2024
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Milena è una giovane donna che è appena uscita da una dolorosa esperienza e trascorre per lo più apatica le sue giornate a letto; non è però di Milena che si narra bensì delle storie di alcune donne, ispirate dalle amiche che si recano a farle visita. Milena, vista la bella giornata, le fa accomodare nell’ampia terrazza e dopo un breve momento d’imbarazzato silenzio e relativi convenevoli, le ragazze in visita cercano in vari modi di aiutare l’amica a superare il momento con consigli vari. Milena, più silenziosa che mai, a un certo punto, si dissocia mentalmente e mentre gli odiati consigli, come istruzioni per l’uso, diventano mormorii indistinti, comincia a fantasticare sulle sue amiche. Proprio su loro immagina storie, anche un po’ surreali, che danno vita ai racconti. Gli stessi narrano in parte di complessi rapporti di coppia, in parte di veri e propri disagi psicologici e in parte di avvenimenti curiosi, surreali o misteriosi.

Perché ho scritto questo libro?

Da tempo sentivo la necessità di collegare fra loro i principali racconti da me scritti, pensando a una sorta d’introduzione alla lettura e al motivo che li fa nascere. Dopo vari tentativi, un giorno, nel relax della mia terrazza, ho ritenuto che proprio la terrazza poteva servire allo scopo, quella terrazza da sempre luogo d’incontro con amici e parenti più cari. Fu così che mi balenò il titolo “Le ragazze della terrazza” in cui la terrazza costituisce “il prologo” e” l’epilogo.”

ANTEPRIMA NON EDITATA

Un po’ alla volta erano arrivate tutte e ora le sedevano intorno nella grande terrazza avvolte dal primo tepore estivo. Milena non sentiva il tepore e si stringeva addosso la felpa della tuta da casa. Erano lì per lei eppure non riusciva a esserne contenta e il loro chiederle “come stai” quasi la infastidiva. Non si vedeva forse?

E poi i consigli, gli odiati consigli simili a istruzioni per l’uso di un qualsiasi aggeggio come se la vita e i suoi eventi potessero essere gestiti come tale.

Milena ascoltava i loro infallibili rimedi senza reagire fino a che le voci divennero un brusio indistinto, un incalzare senza senso su ciò che avrebbe dovuto fare e su ciò che avrebbe dovuto evitare.  Le sembrava di essere in una giostra che la sballottava incurante, sollecitata da consigli anche contrastanti, e proprio come in una giostra tutto le vorticava attorno.

Una di loro si accorse del disagio e disse «forse abbiamo esagerato; ti sei stancata?»

Milena, laconicamente, rispose «mi gira la testa», mentre nella testa mulinavano i saggi consigli, così saggi e assurdi.

Se ne andarono e lei poté nuovamente nascondersi nella sua camera a guardare il soffitto ormai incapace di fare qualsiasi cosa. Figurarsi seguire le istruzioni.

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Eppure sapeva che ognuna di loro aveva avuto problemi più o meno superati o più o meno ancora presenti con i quali convivevano. Pensò che ne avrebbe avute di cose da raccontare o meglio da rammentare con relativa distribuzione di consigli gratuiti non richiesti.

Sapeva di essere ingiusta, presa solo dal suo dolore e svuotata di qualsiasi altro sentimento, e che tutto quel parlare delle sue amiche, le loro esortazioni, erano solo modi seppure maldestri per aiutarla e sapeva pure che tutte loro in vari modi avevano sperimentato la sofferenza. Le venne un’idea. Perché non scrivere qualcosa che parlasse, in modo anche surreale delle sofferenze che le donne spesso si trovano a dover affrontare nel corso della vita?

Rifletté un attimo e poi, prese carta e penna, inizio a scrivere.

Alessia (Vieni a prendere un caffè)

Alessia piangeva nel buio della sua stanza. A tratti sprofondava, sfinita, in sonni agitati come i suoi pensieri.

Andrea se n’era andato.

Le aveva detto semplicemente

«amo un’altra e voglio vivere con lei, se mi vuole ancora, perché mi ha lasciato. Capisco che per te sia doloroso ma devo tentare di riconquistarla, offrendole ciò che merita e che ha sempre desiderato: un rapporto vero alla luce del sole e non una squallida relazione clandestina.»

Quasi non riusciva a sentire le parole che Andrea, incurante del suo dolore, pronunciava ma avvertiva con crudele lucidità che la penetravano come lame roventi e si chiese come non sanguinasse, mentre mille pensieri vorticavano impetuosi nella sua mente.

“La mia rivale merita di più? E io come andrò avanti d’ora in poi? Evidentemente non è un suo problema! Da quanto tempo va avanti questa storia e come posso essere stata così cieca e sorda da non accorgermi di nulla, così convinta della solidità del nostro matrimonio?”

Questi pensieri le fecero percepire con amarezza quanto fosse crudele. Non bastava semplicemente dirle che non l’amava più, doveva pure sbatterle in faccia la sofferenza dell’altra. Tradita, umiliata e abbandonata!

Fu così che decise, pensando all’altra, per non odiarla e per non affogare nel dolore, di scrivere una storia che potesse essere dell’altra donna, la storia di un’altra sofferenza. Decise di chiamarla “La Sirena”

Cinzia

Era una piovosa mattina di novembre. Cinzia si era alzata presto, nonostante la notte insonne. Giù nella strada la attendeva la sua amica Lisa.

Controllò le poche cose che la sera prima aveva riposto nella piccola borsa da viaggio, un bacio frettoloso a suo marito ancora semi-addormentato dicendogli:

«Allora io vado, Lisa è arrivata, ci vediamo stasera, sul tardi.»

«Divertitevi, allora. Io me la spasserò a leggere e a guardare la TV tutto il giorno», rispose sbadigliando e con il chiaro intento di rimettersi a dormire.

Richiuse la porta dietro di sé e scese le scale.

«Ciao, scusa se ti ho fatto aspettare» – mentre apriva lo sportello.

«Ma no…sono appena arrivata», le rispose Lisa.

«Sei stata così cara a offrirti di accompagnarmi», aggiunse Cinzia, mentre si accomodava sul sedile e allacciava la cintura di sicurezza.

«Non dartene pensiero, a cosa servono allora le amiche?», ripeté Lisa.

Lisa mise in moto e partì. Nel breve tragitto continuarono a parlare incessantemente di banalità e pettegolezzi vari per tentare di allentare la tensione e distrarre la mente.

Erano trascorsi appena venti minuti quando entrarono in una grande area, parcheggiarono l’auto e scesero.

Il grande edificio su cui spiccava la scritta “Clinica” era lì davanti ai loro occhi. Per un attimo Cinzia rimase immobile, il cuore che batteva all’impazzata. Poi si scosse e le sue gambe presero a camminare da sole. Entrarono nel grande atrio che le accolse con la sua luce artificiale e l’odore di disinfettante. Fra loro calò il silenzio come una coltre spessa, anche il respiro era trattenuto.

Erika

Come ogni giorno era seduta al margine di quel prato viola. Sotto di lei il mare schiumava la sua rabbia contro gli scogli.

Il profumo di lavanda e l’odore salmastro alternavano nella sua mente attimi di stordimento ad altri di lucida consapevolezza.

Lì, immersa nella natura, poteva finalmente respirare.

Poco lontana una piccola chiesa in stile romanico sembrava benedire e proteggere l’infinita distesa d’acqua che nelle giornate più serene, quando il vento si ritirava come un ospite sgradito, si placava fino a posarsi sugli scogli quasi con cautela, come le mani di un timido amante sul corpo dell’amata.

Verso sera alcune donne del villaggio entravano nella chiesa per il vespro. Prima, volgevano il capo nella sua direzione e la raggiungevano con sguardi che sembravano di muto rimprovero.

Indifferente, nella sua meravigliosa terrazza di ametiste attendeva che la messa fosse quasi alla fine, poi lentamente si alzava e, riposto il plaid nello zaino, si avviava verso la chiesa.

Sospingeva, quasi timorosa, la robusta porta e appena entrata, avvertiva la sensazione di essere avvolta da un abbraccio protettivo.

Si sedeva in una delle ultime panchine e si godeva la semplicità di quella piccola chiesa senza sfarzi. Ne respirava fino in fondo la pace e il silenzio e anche la sua anima, come il mare, si acquietava.

Era il suo modo di chiudere la giornata da quando era giunta in quello sperduto paesetto, dove anche il turismo era raro a causa della costa selvaggia priva di spiagge e raggiungibile solo via mare.

La scrittrice posò la penna, rilesse attentamente chiedendosi chi era questa donna, che apparsa come un fantasma nella sua mente, come un quadro ai suoi occhi, aveva spinto la sua penna a dipingerla in parole.

Doveva assolutamente scoprirlo, perché non poteva lasciarla in quel limbo. Si mise a osservarla meglio.

Lisa (“Vieni anche tu da mia sorella”)

Se n’era andata d’impulso. In stazione aveva acquistato un biglietto per Milano, la città più lontana che le venne in mente, ed era salita sul primo treno.
Seduta accanto al finestrino, in uno scompartimento di prima classe, l’ultimo lusso che si concedeva, Sonia guardava fuori e pensava.
Era andata via, quasi da vigliacca, senza nemmeno lasciare un biglietto, un recapito.
Aveva semplicemente fatto la valigia e si era chiusa la porta dietro di sé – senza lasciarsi il tempo per ripensamenti e fuggire da quella vita che non le apparteneva, da un uomo che non era il suo. Soprattutto voleva fuggire dalla donna che era diventata, da tutto ciò che l’aveva portata a tradire sé stessa, a rinnegare i suoi sogni e i suoi desideri.
Aveva 35 anni e non aveva combinato niente di buono, aveva solo aspettato. Cinque anni erano trascorsi ad attendere che lui potesse concederle un po’ di tempo, ad attendere che qualcosa cambiasse. Fuggire così le era sembrata l’unica soluzione evitando che lui la convincesse di nuovo con false promesse.
Non sapeva cosa avrebbe fatto, ma, almeno, si sarebbe sentita viva, reale, utile.
Il treno correva via e le sembrava che a ogni fermata scaricasse un po’ dei suoi bagagli dolorosi facendola sentire sempre più leggera.
Era primavera, gli alberi in fiore segnalavano che la natura si stava pigramente svegliando. Le sembrava di vedere per la prima volta, dopo un tempo indefinito, in cui lui occupava tanto la sua mente da renderla cieca nei confronti del mondo circostante.
Anche i fili della luce avevano qualcosa di bello, d’espressivo, sembravano essere lì a ricordarle un percorso, una guida verso una meta ancora sconosciuta e il mare che si perdeva all’orizzonte le dava la sensazione dell’infinito e la speranza che ancora infinite possibilità l’aspettavano.
Era giovane e aveva ancora tanto tempo per riprendersi la vita.
Roberta (La notizia)

Un trillo risuonò minaccioso alle sue orecchie. Riemerse dal sonno interrotto per realizzare che era proprio il trillo del campanello.

S’infilò tremante la vestaglia con il triste presagio di un annuncio doloroso.

Nel soggiorno i mozziconi delle sigarette spente le ricordarono la sera prima quando una furia diversa dalle altre volte l’aveva resa vittoriosa restituendole un po’ di dignità.

Il cuore accelerò i battiti mentre le gambe faticavano a raggiungere la porta. Il campanello suonò di nuovo mentre Roberta con mani tremanti girava la chiave nella serratura. Cauta aprì la porta. Davanti a lei due carabinieri stavano blaterando qualcosa che al momento non riusciva ad afferrare. Stette con il corpo fermo ad ascoltare.

«È lei Roberta Stasi?», ripeterono

«Sì..» – balbettò

«Signora, deve seguirci, deve venire con noi in centrale.»

«Perché?  Che cosa è successo? Non sarà capitato qualcosa a mio marito?» Poi, come a giustificarsi, aggiunse: «ieri sera abbiamo litigato.»

«Signora, la prego – disse uno dei due carabinieri – le spiegheranno tutto in centrale. È meglio che si vesta.»

Roberta fece entrare i carabinieri e ritornò in camera a vestirsi. Tremante e confusa non trovava niente e ogni movimento era diventato complicato.

“Devo calmarmi” pensò.

Aprì il cassetto del comodino e ne tirò fuori una boccetta di tranquillanti. L’aprì e ne fece scendere una ventina di gocce direttamente in bocca.

Poco dopo fu di nuovo nel soggiorno e disse:

«Sono pronta.»

Aprì il cassetto del comodino e ne tirò fuori una boccetta di tranquillanti. L’aprì e ne fece scendere una ventina di gocce direttamente in bocca.

Poco dopo fu di nuovo nel soggiorno e disse:

«Sono pronta.»

Teresa (Occhi)

Nel silenzio ovattato un suono secco, ripetuto, la riportò alla realtà. Si guardò attorno con la mente intorpidita per capire.

La stanza, una spoglia camera, era immersa nella penombra ma le tapparelle abbassate facevano filtrare raggi di luce indicando che era giorno.

Teresa non riconosceva quel posto e a fatica, nella sua mente, si formò una domanda:

“Dove sono? Perché?”

Cercò di ricordare com’era finita in quella stanza che non apparteneva alla sua casa, ma non ci riuscì, aggredita da uno spiacevole torpore che le impediva di pensare e vedere chiaramente. Faceva fatica a tenere gli occhi aperti e aveva voglia di dormire. Sprofondò di nuovo nel sonno.

Quando riaprì gli occhi, era più lucida e cercò di alzarsi dal letto. Fu allora che si accorse di avere le mani legate e un bavaglio alla bocca. Il panico la aggredì e la svegliò completamente. Si tirò su con fatica, si avvicinò alla finestra e sbirciò fuori tra le fessure delle tapparelle: davanti alla casa c’erano parcheggiate due auto e intorno, oltre un cancello malandato, solo campagna. Non riconosceva niente di quel posto, né le auto parcheggiate. L’ultimo consapevole ricordo era fermo al suo ritorno a casa dall’ufficio e poi il buio. Si sedette e cercò di concentrare la memoria a quel momento.

Era rientrata un po’ più tardi perché si era fermata a comprare qualcosa per cena. Aveva parcheggiato la macchina, ne era scesa con la borsa del lavoro e della spesa e, percorso il vialetto della piccola unifamiliare dove abitava, aveva infilato la chiave nella serratura ed era entrata. Ricordò un particolare che solo ora aveva importanza: la porta si era aperta appena girata la chiave ma aveva pensato che, nella fretta di uscire, si era semplicemente richiusa la porta alle spalle senza chiudere.

Entrata in casa aveva compiuto gli stessi gesti di sempre: appoggiato la borsa del lavoro nel piccolo ingresso e quella della spesa in cucina; poi era entrata in camera per togliersi gli abiti formali dell’ufficio e indossare una comoda tuta; aveva acceso la segreteria telefonica per sentire se c’erano messaggi importanti ed era ritornata in cucina con l’intento di preparare una deliziosa cenetta per quando sarebbe rientrato suo marito. Poi più nulla. Si concentrò ancora e ricordò di avere sentito un rumore alle sue spalle e la presenza di qualcuno. Aveva avuto un piccolo sussulto e forse pensato che era suo marito rientrato prima del solito ma poi, eccolo, il ricordo annebbiato e terrificante: si era sentita afferrare alle spalle, forse aveva gridato e poi il nulla, fino ad ora.

“Perché?” si chiese ancora.

Dal piano di sotto voci indistinte, sussurri, ordini la riportarono al presente.

Cercò di convincersi che stava sognando, un brutto incubo dal quale presto si sarebbe svegliata.

Ahimè non era un sogno!

Udì passi sulle scale e una chiave che girava nella serratura.

Nella porta si stagliò una losca figura: un uomo con un cappuccio dal quale s’intravvedevano solo gli occhi azzurri e gelidi.

Daniela (La Rottamazione)

Non poteva credere che stesse veramente accadendo!  Anche se era da un po’ che circolava quella voce, la storia della “rottamazione”, non ci credeva perché non poteva essere vero.

Quel giorno invece erano venuti, trafelati, a riferirle che avevano le prove, che avevano visto tutto: una cerimonia che si svolgeva in gran segreto, una specie di rito!

«Venite! Venite! Presto!» – Avevano quasi gridato i suoi colleghi – «È vero, succede realmente! Hanno obbligato anche il cappellano ad officiare il rito!»

«Sapete li convincono che “è meglio così.” Insomma una specie di lavaggio del cervello o peggio!»

«Di che state parlando?» – Proruppe, spazientita, Daniela verso Erika.

Nella voce stridula un lieve accenno di stupefatto terrore.

«La rottamazione! – Rispose Luca al posto di Erika – Quella di cui si parla scherzosamente esiste davvero. Non se ne vanno spontaneamente, lì obbligano facendo credere che è meglio e che è giusto per tutti, sia per loro che per i giovani che li sostituiranno e avranno un lavoro!» Concluse, il respiro sempre più affannato.

«Esiste davvero!», Fece eco Erika.

Nella voce traspariva una nota di amara stanchezza.

«Abbiamo visto con i nostri occhi cosa succede e dove si svolge e, fra una settimana, si ripete quella cosa “quella specie di rito”.»

«Venite a vedere anche voi» Ripresero a parlare insieme Luca e Daniela

«Venite, venite a vedere con i vostri occhi!»

Troverai qui tutte le novità su questo libro

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Il libro parla della sofferenza, di abbandono, di rimorsi, ripensamenti, senso del dovere, d’amore e di bisogno d’amore. Accanto a racconti conclusi ne troviamo altri lasciati sospesi, come se la scrittrice invitasse il lettore stesso a trovarne il senso, a tracciarne l’epilogo. Tuttavia non mancano qua e là episodi ironici, surreali o atmosfere da romanzo giallo in cui l’autrice entra ed esce, modifica, ci ripensa, ci consola.

    Luisa Zancanella

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Mirella Pieroni
Mirella Pieroni, nata ad Ancona, laureata in sociologia, ha lavorato in Trenitalia svolgendo prevalentemente attività di Marketing. Sposata con due figlie vive a Falconara M.ma di Ancona e ormai libera dal lavoro, si dedica alla famiglia, alla nipotina e ad altri piacevoli svaghi come la lettura, la scrittura, la cucina e i viaggi. Sin da giovanissima ha coltivato la passione per la scrittura, assecondando il proprio bisogno di tradurre in parole, le sensazioni e le immagini collegate a questo universo emozionale. I suoi primi scritti sono stati poesie e solo successivamente inizia a scrivere racconti, principalmente con figure femminili come protagoniste. Le storie, non riconducibili a un vissuto autobiografico, hanno a volte tratto spunto da una personale rielaborazione di accadimenti non distanti dalla realtà e altre volte, sollecitata da stimoli vari, originati dalla sua fantasia.
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