Due anni prima, esattamente il giorno del suo diciassettesimo compleanno, aveva incominciato a lavorare come sarta per un’importante fabbrica che si occupava di produrre cappelli di tutti i tipi e, in particolare, quelli a larghe tese per le donne. Le piaceva quel mestiere, innanzitutto perché, dati i risultati, si sentiva particolarmente portata per i lavori che richiedevano una manualità esperta, precisa, paziente. E poi, la sensazione del tessuto che scorreva ora veloce, ora lentissimo sotto le sue mani metodiche le trasmetteva, a tratti, la gaiezza del pelo liscio di un cagnolino. E infine, sì, c’era da ammetterlo, il prodotto finito quanto assomigliava agli indumenti che sbirciava sulle riviste di moda!
Le prime occupazioni, comunque, risalivano ancora più indietro, quando, poco più che bambina, si faceva carico delle scarpe e della fame dei fratellini. Erano sette in tutto, quattro maschi e, inclusa lei, tre femmine. Mary non l’avrebbe mai annoverato tra gli impieghi. Non lo considerava affatto un dovere calato dall’alto, ma più come una necessità a cui si fa fronte con animo premuroso e sollecito. Era lei la più grande, d’altronde, non poteva esimersi dall’impegno di andare a prenderli a scuola quando le lezioni terminavano, di scortarli fino a casa, di accendere il fuoco per riscaldare gli avanzi della cena e, se le rimaneva tempo, di acconciare il pranzo mescolando nuovi ingredienti. Quando era di buon umore e quando la legna abbondava indugiava accanto alla stufa mescolando zuppe di verdure, di cui soprattutto Michael andava goloso. Vista la sua abilità nel cucito, poi, tutti in famiglia, genitori compresi, si affidavano a lei quando avevano vestiti e calzature da rattoppare. Allo sguardo stanco di sua madre che, quand’era stravolta, piegava le sopracciglia leggermente all’ingiù mentre la punta, per contro e a sua insaputa, si alzava verso l’interno conferendole il dissonante aspetto di uno Charlot privato, non sapeva dire di no quando, sfinita da una lunghissima giornata trascorsa tra i macchinari di uno stabilimento che detestava, le porgeva con mano incerta la veste sgualcita.
Era stata Margaret a dirle dell’opportunità.
«Si tratta del lavoro più pagato in città, quanto sarebbe bello poterci entrare!» Le rovesciò addosso una volta il suo entusiasmo di sposa ragazzina.
«Ma perché non ci vai tu, allora?» le fece osservare, pensando che il suo mestiere nella fabbrica di cappelli le andava più che bene. Certo, la paga lasciava un po’ a desiderare, ma era la condizione che accomunava la gran parte non solo dei più giovani, ma anche delle loro famiglie. Ci si arrangiava, in qualche modo.
«Lo sai che puoi arrivare a guadagnare anche più di venti dollari a settimana?» Margaret era stata ben informata da Katherina, che ci lavorava da qualche mese, fin dalla nascita di quella nuova, curiosa, industria.
«Un motivo in più per andarci, allora» le ribadì, celando lo stupore nel sentire la cifra. La sua intera retribuzione mensile ammontava suppergiù a quella somma.
«Almeno va’ a dare un’occhiata! Fallo per me» insistette, con quell’aria della bambina che, a diciott’anni appena compiuti, aveva da poco smesso di essere. «Lo sai che John non vuole che io continui a lavorare. Dobbiamo pensare ai figli che arriveranno. Ma tu sei libera. Libera come un uccellino fuori dalla gabbia» ammiccò all’amica, facendola ridere, suo malgrado.
Con quel ritornello antico come l’infanzia riusciva sempre nell’impresa di strapparle un sorriso e, con un po’ di fortuna, anche la promessa di un’azione futura. La sorte era stata favorevole anche in quell’occasione. Mary si sentì incuriosita, anche se non lo ammise subito.
La prima volta che mise piede dentro lo studio di High Street non ne fece parola con nessuno. In fin dei conti, voleva solo gettare uno sguardo all’interno di quell’edificio imponente a quattro piani. Aveva sentito, negli ultimi tempi, che un numero sempre maggiore di ragazze stavano venendo assunte. Molte dial-painters, così le chiamavano per il lavoro che svolgevano, si facevano promotrici esse stesse di nuove assunzioni. “I nostri soldati in Europa hanno bisogno di noi, quello che costruiamo a loro può essere di aiuto!” esclamavano non senza una punta di orgoglio. Là dentro, difatti, stavano sedute tutto il giorno con la testa piegata in avanti, a dipingere diligentemente di una pittura fluorescente i quadranti della strumentazione utile all’aeronautica e anche quelli degli orologi che poi i militari americani avrebbero indossato, ricavandone il vantaggio di vedere pure al buio quei numeri luminosi.
Venne accolta con un caloroso sorriso da una signora sulla quarantina che era responsabile di valutare la tempra e le attitudini delle giovani. La portò su, fino al quarto piano; era lì che le ragazze lavoravano. Lo stanzone in cui si ritrovò era immenso e accoglieva, calcolò a occhio e croce, più di un centinaio di dipendenti.
«Io sono Elizabeth Rooney, ma puoi chiamarmi anche solo col nome» disse presentandosi cordialmente la signora. «Vieni, andiamo di là a parlare.» E agitò la mano destra indicando un posto indefinitamente avanti, mentre la sinistra sostò un momento sulla schiena della ragazza, come per infonderle maggior affabilità.
Si mossero, ma gli occhi di Mary non riuscivano a distogliersi dallo spettacolo così insolito che il nuovo ambiente le offriva. Orologi di tutti i tipi e di tutte le dimensioni erano ordinati sui vassoi che ciascuna ragazza aveva accanto. Ognuna, pareva, aveva almeno un vassoio dal quale attingere per compiere il lavoro. Dipingevano svelte, senza distrarsi. Solo di una riuscì a intercettare lo sguardo mentre passava. Ma ciò che di gran lunga le fece più effetto, non fu né la benigna accoglienza di Mrs Rooney, né il numero delle dial-painters assise, una di fianco all’altra, su lunghissime fila di panche e sedute. Fu la luce. La luce che emanava quel materiale che impregnava non solo l’attenzione delle lavoratrici, bensì anche i loro vestiti e gli oggetti circostanti. Tutto pareva soffuso d’un alone mai visto.
Elisa Adamoli (proprietario verificato)
Ho letto questo romanzo storico e mi ha subito colpito dalle prime pagine.
Man mano che continuavo mi ha interessato sempre piu’ la vicenda di queste ragazze sapendo che e’ una storia vera !
Lo consiglio a tutti
Bianca Misitano
Un romanzo storico che coniuga una meticolosa opera di documentazione, necessaria a scoperchiare una storia vera ancora non abbastanza conosciuta, con una verve evocativa e creativa che vi catturerà dalla prima all’ultima pagina. Leggetelo!
Brigida (proprietario verificato)
Un romanzo che porta alla luce una storia vera vecchia di più di cent’anni e allo stesso tempo totalmente attuale. Il lavoro è il tema centrale cui ruotano attorno le vicende umane: l’amicizia, l’amore, gli imprevisti. L’autrice ci dona pagine emozionanti dall’inizio alla fine.
Alessandra Valentini (proprietario verificato)
Questo romanzo storico mi ha coinvolto e fatto immedesimare nelle protagoniste pagina dopo pagina, per l’appassionata ricerca di una verità troppo a lungo taciuta. Non conoscevo gli eventi realmente accaduti narrati e quindi l’ho trovato interessante e illuminante. Ho apprezzato molto anche lo stile dell’autrice.
Rosalba Centola (proprietario verificato)
Dopo aver letto il libro, che mi ha affascinato per le vicende raccontate e per il finale sorprendente, invito i lettori più esigenti a seguire il mio esempio. Buona lettura
Laura La Bella (proprietario verificato)
Non vedo l’ora di avere il Romanzo tra le mani, l’anteprima mi ha messo tantissima curiosità…è una storia veramente interessante e sembra anche scritta molto bene