Gli stivaletti batacchiavano sulla via acciottolata, e il rumore veniva ogni tanto sottomesso da quello delle ruote dei carri e gli zoccoli dei somari. Anna apriva la strada, affiancata da due guardie con la cappa dorata e la picca imbracciata con la punta verso l’alto, la spada a penzoloni che oscillava ad ogni passo. Riconobbe la fragranza che le stuzzicò le narici: Mele. Centinaia, rosse e succose, invitanti. Infilò la mano in una tasca dell’abito e ne estrasse qualche moneta. Puntò alla cassetta più piena e morsicò la buccia inondando il viso di succo.
«Marchesa, voi siete il sole che illumina la piazza questa mattina».
«Siete molto gentile». rispose lei, con la cordialità che la distingueva. «Queste mele sono la perfezione, me ne dia una cassetta. Berengario ne sarà felice».
«Vi sarà grato, mia signora. Il principe ama passeggiare come voi, e fermarsi sul lungo lago a scrutare le barche che passano. Un uomo romantico, marchesa. Gentile, altruista, non avreste potuto trovare di meglio».
Anna proseguì, e con le parole del mercante che le trottolavano in testa si ritrovò a seguire la strada verso la riva, dove la roccia frastagliata lasciava uscire una banchina di legno usata per l’attracco.
«Marchesa, fate attenzione. Può essere pericoloso». disse la guardia.
«Capitano, apprezzo i vostri riguardi ma temo che siano esagerati in questo momento. Non sono una bambina».
Si fermò al limitare della passerella e si lasciò accarezzare dalla brezza della tarda mattinata. Sentiva l’odore dell’acqua stantia e del pesce proveniente dal mercato. Le onde si fecero più intense, si scontrarono violentemente sui pali marci della banchina.
«Il lago vi saluta, mia signora». riprese la guardia.
Anna si mise a ridere, voltandosi verso il soldato. «Non ho mai sentito niente di più curioso e sciocco di questo».
«Oh, nient’ affatto credetemi. L’acqua, la montagna, quelle valli laggiù dall’altra parte della riva. Tutto è vivo in questo posto. Tutto quanto sorride alla meravigliosa creazione di nostro Signore». disse contemplativo il capitano.
«Venite la mattina presto, in compagnia del marchese. Vi convincerà ad apprezzare questo posto».
Anna volle dirigersi verso il lungolago. Le ombre sulla pietra del pavimento mutavano continuamente perché un folle vento soffiava dalle montagne a Nord ovest e spostava le nuvole spumeggianti contornate da un blu cobalto. Una lunga linea di frassini seguiva il percorso della regina tracciando una retta che terminava oltre un ponte e un fiumiciattolo sottostante.
«Marchesa! Marchesa Anna di Provenza?».
Anna, sentendosi chiamare si voltò. Le guardie bloccarono una donna, di media statura ma con due occhi neri e profondi. I capelli erano parzialmente raccolti da un fermaglio, ma le punte mosse cascavano sulle spalle e sventolavano armoniosamente con le correnti.
«Ci conosciamo?».
«Solo in parte a dire il vero. Sono la moglie di Giulio Gambarini, ci
siamo conosciuti alla festa di nozze. Devo dirvelo, eravate una sposa incantevole con tutti quei colori, le sfumature, una gran classe mia signora, davvero una gran classe». disse la donna.
«Non credo di meritare tutti questi complimenti, ma vi ringrazio comunque».
«Volevo solo assicurarmi che steste bene». disse lei con la parlantina simile ad un cavallo in corsa, senza staffe e sul punto di saltare un dirupo al di sopra delle proprie possibilità. «Un luogo affascinante, la valle del Benaco, i suoi profumi, le feste, mia signora. E non preoccupatevi troppo di vostro marito».
Il tono di Anna, come il suo volto, si fece serio.
«Mio marito, dite? Cosa c’entra lui?».
«Oh, mia cara». le rispose, accostandosi più vicina a lei. «Tutti sanno che la guerra è alle porte. Berengario è un uomo forte, ma sprovvisto di esperienza. Per fortuna il padre è ancora vivo e vegeto, finora almeno».
«Non credo di comprendere le vostre parole».
«Siete certa che il popolo possa accettare una donna, anzi, una regina straniera? Figlia di un’altra terra, certo meno ricca di questa. Torri del Benaco, mia cara è una città di artigiani, produttori e visionari. Ha bisogno di sovrani all’altezza, che possano conquistare e condurre una nazione al progresso».
Anna non rispose. Si voltò e riprese i suoi passi, in parte turbata dalle parole della moglie di Gambarini. Sapeva che, derivando in qualche modo dalle terre dei Franchi, alcuni avrebbero potuto vederla come un’insidiatrice al trono. Ma aveva scacciato quel pensiero molte volte, ed ora era tornato.
Pavia, capitale d’Italia,915 D.C
Giugno…
Fortuna volle che a presiedere la seduta fosse proprio il Cardinale Martino. Nella stanza erano riunite le più facoltose cariche di duchi, sul lato destro del salone. Cupi e autorevoli sui banchi di legno, vestivano abiti di molteplici colori che andavano da un nero con gli orli ricamati a colori poco meno sgargianti, mantelli leggeri e copricapo sui quali risaltava, spesso sui fianchi la casata di appartenenza. I vescovi dall’altro lato vestivano di un rosso acceso ed i volti ponderati eguagliavano quelli dalla parte avversa. Il motivo di quel clima inquieto era che Carlo il Grosso, re d’Italia e dei Franchi era morto, e ogni potenza armata avrebbe potuto scatenare una guerra per prenderne il posto, per cui spettava ai rappresentanti di Dio e alla nobiltà arrivare ad un compromesso.
«Come tutti sapete, oggi abbiamo il compito di eleggere un nuovo re d’Italia. Un onore, al quale assistere con devozione, serietà e indulgenza per la sopravvivenza del nostro amato paese».
«Non vi sembra esagerato, Cardinal Martino, parlare di sopravvivenza. Un termine piuttosto selvaggio, il vostro». lo interruppe un duca, il quale rispandeva al nome di Pietro Cascina.
«Non mi sembra affatto sprovveduto usare un termine tanto serio. Signori, è un momento di grande tensione e non abbiamo tempo da perdere. Migliaia di insurrezioni, massacri e disordini ci attendono se non prendiamo la scelta più giusta entro poche ore».
«Se avete convocato questa elezione, immagino abbiate un nome da proporre». lo invitò un cardinale, De La Crois.
«Posso assicurarvi che il marchese Berengario sarebbe un’ottima guida. Facoltoso, intelligente, educato nelle strategie militari e nell’arte della politica…».
«E figlio di una vostra carissima amica nonché alleata, dico bene?». Pietro Cascina inclinò la testa, protendendo il volto in avanti come per convincere il cardinale a vuotare il sacco.
«Non cambia il fatto che il ragazzo ha tutta la mia stima, e porta l’impronta del padre».
Una risata arrivò dalla seconda fila dei titolati e tutti si voltarono verso l’uomo con i capelli bianchi e corti, impeccabilmente curati. Un viso ancora più liscio e ordinato, gli occhi azzurri intensi ed una cicatrice sul collo.
«Volete erudire anche noi su cosa vi diverte tanto?». disse Martino.
«Siete prevedibile, cardinale. Anch’io ho un nome, e lo reputo ugualmente capace, anzi, avendo lui una maggior esperienza di comando direi, molto più capace del vostro giovane marchese. Il suo nome è Guido, duca di Spoleto».
«Allora non rimane altro che votare. Signori, Alzi la mano chi è a favore di Guido da Spoleto».
Dei venticinque presenti, undici erano i conti che levarono i voti per Guido.
Martino volle assicurarsi la vittoria.
«Ora, alzi la mano chi vota a favore del giovane Berengario».
La maggioranza delle mani apparteneva ai vescovi, e ai nobili che simpatizzavano per la chiesa. I mormorii imbottirono la stanza e Martino ebbe l’impressione che Gisella non avesse parlato solo con lui, ma avesse convinto anche altre cariche ecclesiastiche a patteggiare con lei. Lo aveva sempre pensato. Una donna astuta, e pericolosa.
«Brucerei piuttosto che vedere incoronato quel tiranno. A morte il marchese!».
L’uomo dalla cicatrice superò la ringhiera di legno che chiudeva i posti a sedere, sfoderò un coltello e diede una spallata al vescovo di Pavia che barcollò e ricadde trascinandosi dietro altri prelati. Una mano afferrò il mantello cercando di bloccarlo, ma questo si strappò, squarciandosi a metà. Le grida alimentavano la confusione, e quando un giovane duca placò l’assassino alle gambe, questo reagì colpendolo con una gomitata dietro la nuca, alla base del collo. Le braccia ancoravano saldamente le ginocchia, soffrendo sotto i colpi martellanti del sicario. La lama brillò in aria e attraversò la testa di Francesco Tanella. Il sangue si rigettò sui corpi vicini e l’uomo, ancora più furioso continuò la corsa per raggiungere il cardinale Martino.
«Guardie!». esclamò qualcuno, e mezza dozzina di soldati armati di picca sfondarono la porta. Ignorando la mischia di vescovi e nobili che si accalcavano per uscire dalla stanza, fecero a spallate finché non raggiunsero l’uomo un attimo prima che lanciasse il coltello, sicuro di uccidere. Il sicario si contorse, trafitto dalle punte di metallo che lo colpirono, ancora e ancora, fino a svenire con un ultimo rigo di sangue sulle labbra.
Verona, 915.
Giugno, quattro giorni dopo l’attentato a Pavia.
«Un triste giorno per tutti, Berengario». disse in lacrime, Gisella. La corte era riunita, ancora una volta, ed il palazzo di Verona si era riempito con cinquecento personaggi, per dare l’ultimo addio a Francesco. Un numero considerevole, per chi doveva celebrare i due funerali più imponenti e sentiti degli ultimi anni. Nello stesso istante in cui Francesco IV Tanella, amico e alleato fedele di Berengario veniva assassinato brutalmente, Eberardo, padre del marchese di Friuli, emanava l’ultimo sospiro di vita. Una doppia condanna per il principe, un momento di grande prova per Anna. Alla notizia, strinse Berengario in un abbraccio consolatorio, e lo baciò. Tutto sommato, seppur dolorante per la perdita, il marchese si dimostrò forte, deciso, determinato, e Anna lo guardava come nel giorno delle sue nozze, a stringere mani, sfoderare sorrisi spenti e accettare i cordigli delle famiglie amiche. Si presentarono altri amici, che a parte il caso di Filippo Rizzo, non erano stati presenti alle nozze. Davide Mancini, figlio di un noto capitano della milizia cittadina che stava facendo passi enormi nella sua carriera da ufficiale di cavalleria, i fratelli Barbieri Marco ed Enrico che governavano le province agricole di Roma e alcune al confine con la Toscana, la famiglia Greco, con il loro rampollo Bruno che aveva molte influenze a Roma e Daniele Fontana, governatore di Peschiera del Garda, la quale alleanza aveva permesso di aprire i commerci con Mantova.
«Siamo tutti molto, molto addolorati per l’ingiustizia che si è accanita contro la tua famiglia, Berengario. Se dovessi aver bisogno di qualsiasi cosa, faccelo sapere». disse quest’ultimo.
«Sono grato di tanta gentilezza. Era un ottimo padre, e Francesco, anche se era il frutto del tradimento di Eberardo con una serva, è stato accolto in famiglia come un fratello, per me». rispose lui. «Dio avrà buona considerazione di voi, e della vostra famiglia. Scusate, ora vorrei raggiungere la mia sposa».
«Certamente». lo congedò il Fontana.
Il tardo pomeriggio, quando le salme furono seppellite, Berengario si riunì nella sala, assieme alla madre e ad Anna.
«Dobbiamo scoprire chi può aver fatto una carognata del genere». disse Gisella in preda alla rabbia.
«Madre, già conosciamo il mandante dell’omicidio. E comunque non servirebbe a nulla denunciarlo al papa».
«Dobbiamo radunare un esercito contro di lui».
«Madre!». la aggredì Berengario. «Servirebbe solo ad aizzarci contro le famiglie più vicine alla chiesa di Roma, e che sono contrari al nostro potere».
«Dunque figlio, lasciamo perdere? Siamo in balia di pazzi che sono pronti ad affrontare il clero pur di non averti sul trono».
Anna entrò nella conversazione. «Non preoccupatevi, Gisella. Se non possiamo muovere guerra contro il duca di Spoleto in modo legittimo, possiamo trovare una buona ragione per farlo».
Gisella si alzò, stupefatta.
«Anna, dal giorno in cui vi ho incontrata, sapevo che sareste stata una benedizione per questa famiglia». Spostò lo sguardo, incrociandolo con Berengario. «E un’ottima regina».
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