Luca ha lasciato il suo paese e ora la sua nuova casa è Londra, dove lavora come cameriere su turni estenuanti. Un giorno il cellulare squilla e la voce del padre lo riporta in Basilicata, sua madre sta morendo e lui deve tornare a casa. Qui tornano a galla tutti i problemi che si era lasciato alle spalle: una terra lacerata dall’estrazione del petrolio, gli amici di un tempo, che ora non si possono più chiamare così. Poi c’è la politica, disinteressata al bene reale e famelica di potere. Una vita, questa, che sembra essere un capitolo definitivamente chiuso, un passato da custodire, con tutta la rabbia e l’amore che si porta dietro. Inizia così il ritorno alle sue origini, un viaggio che strappa definitivamente quel velo che Luca ha voluto mettere sopra le sue radici, che ora si mostrano per quello che realmente sono.
Capitolo uno
Spesso aveva avuto la sensazione che non sarebbe rientrato nemmeno per le vacanze di Natale e Pasqua, come facevano tutti quelli che erano andati via da Viggiano. D’altronde, non aveva né il coraggio né la forza, e nemmeno un motivo reale o una minima giustificazione per farlo. Ora però, in un modo che non avrebbe mai immaginato, Luca doveva ritornare. Erano passati quattro anni.
In tutto quel tempo non aveva fatto altro che fuggire dai suoi ricordi: ogni volta che qualche pensiero riemergeva dal passato, lo scansava come si fa con le pozzanghere piene di acqua lurida sulle strade sterrate dopo lunghi e spaventosi temporali.
Non era stato facile all’inizio. Con il tempo poi, e con la baldoria che offre Londra, era riuscito poco a poco a crearsi una realtà diversa, quasi parallela. Spesso le ore estenuanti di lavoro nei bar, nei pub o qualsiasi altro shit job gli si presentasse davanti, avevano affaticato il suo corpo e il suo spirito fino ad annullare anche il più infimo barlume di quei momenti passati. Alla fine delle giornate di lavoro, rimaneva spesso seduto al tavolino di un bar del centro, i capelli castani spettinati nella parte superiore e corti ai lati, gli occhi stanchi e afflitti che attraversavano la vetrina e fissavano inermi il viavai di gente in giro per la City. Quando era sicuro di potercela fare, e tutto era momentaneamente dissipato dopo il suo shot di vodka, indossava la sua giacca alzando il colletto per coprirsi le guance. E ritornava a casa nelle gelide sere inglesi.
Poi, quel pomeriggio, una telefonata: «Tua madre sta male» aveva detto secco suo padre, senza troppi giri di parole.
Quando era apparso il nome di suo papà sul display del cellulare, la sua prima e istintiva reazione era stata di non rispondere. Perché farlo? Ancora non gli era chiaro che dovevano lasciarlo in pace, così lontano com’era? Subito dopo però, per quello strano sesto senso che si accende in circostanze inaspettate, aveva risposto con la sensazione che quella chiamata avrebbe cambiato il corso delle cose. Il padre lo aveva salutato appena, nonostante fossero passati molti mesi dall’ultima volta che si erano sentiti. Lui aveva voluto così: tagliare i contatti con tutti e sapere il meno possibile di quanto succedesse a Viggiano. Ma quelle poche parole, così nette, avevano avuto su di lui l’effetto di quei tonfi che si sentono nel silenzio dell’oscurità. Mentre rimaneva attaccato al telefono senza sapere cosa rispondere, Luca si era accorto tutto a un tratto che, per via di quella necessità di allontanarsi, non aveva mai considerato che il tempo sarebbe passato anche a Viggiano e, con esso, anche la vita.
«Non sappiamo quanto tempo le rimanga, sai come sono queste malattie. Si può trattare di settimane, forse mesi» aveva detto il padre con la voce rotta. «Faremo tutto il possibile, ma sinceramente…» aveva sospirato. «Non so fino a quando potremo.» Silenzio.
Il padre sospeso nell’attesa di una risposta, una qualsiasi reazione. Luca era riuscito a farfugliare solo qualche parola insensata.
«Certo, certo.» Sembrava che stesse parlando da solo.
«Dove ti trovi?» lo incalzò allora il padre. «È tanto che non abbiamo tue notizie, stai bene?»
«Sì, sto bene. Tutto a posto» aveva risposto lui sentendo una fitta tra le costole e un’impellente esigenza di chiudere al più presto quella conversazione. D’un tratto antichi bruciori di stomaco erano ricomparsi e ora sentiva che quei buchi di un tempo non si erano mai rimarginati.
«Qui sono cambiate molte cose. Ogni giorno ne esce una nuova» aveva cercato di trattenerlo il padre percependo il suo stato d’animo. «Comunque,» aveva poi detto all’improvviso «se non vuoi ritornare non sei obbligato a farlo. Tua madre non dirà niente, come al solito.» Fece un’altra pausa e respirò profondamente un paio di volte. «Sicuramente ne soffrirà molto» disse poi tutto d’un fiato. «Non voglio dirtelo per farti sentire in colpa, ma è stata così male quando sei andato via.»
Subito dopo aver riattaccato, Luca si era diretto verso il suo mini appartamento a Bayswater. Moscow Road gli era sembrata più vuota del solito. Anzi, quella strada non era mai stata affollata ogni volta che l’aveva percorsa di ritorno dalla metropolitana, e lui se ne era reso conto solo in quel momento. Per quattro anni aveva sempre seguito lo stesso percorso, e adesso si era accorto che camminando lungo quel marciapiede così curato, con le aiuole perfettamente tagliate ai lati, poteva quasi sentire i suoi stessi passi. Il freddo dei pomeriggi invernali non era mai stato così forte per lui, ma ora sembrava penetrare fino alle ossa. Quelle strade così anonime e ordinate erano solo l’appendice di una vita non vissuta, di un corpo vagante senza un’anima che ne dirigesse il cammino.
Ora però quel torpore doveva finire, così come era iniziato quando era atterrato a Stansted.
Nel suo mini appartamento con parquet e letti a castello, ribattezzato Widow Hostel, i suoi compagni fumavano lo spinello della buonasera, o evening joint, per salutarsi dopo una giornata di lavoro. Come sempre l’atmosfera era vivace, e Riccardo lo accolse passandogli il prodotto olandese che girava da poco in città. Senza quasi salutare, si sedette e aspirò due tiri lunghissimi trattenendo il fumo per pochi secondi, coi polmoni pieni, e rilasciandolo poi tutto d’un colpo come faceva sempre. La cucina come al solito era sporca, coi piatti incrostati dalla sera prima ammucchiati dentro al piccolo lavandino, e le pentole ancora sui fornelli. Per non parlare degli schizzi di salsa sulle pareti e delle briciole di pane impastate con qualche liquido non meglio identificato e schiacciate sul pavimento. Per di più, secondo i turni stabiliti, quella sera toccava a lui lavare i piatti, e poi mettersi a cucinare.
In quell’appartamento vivevano in quattro, tutti provenienti dal continente: Riccardo, un romano calvo in cerca della sua fortuna da imprenditore nella capitale inglese e in fuga dalla città eterna per via di tutta quella corruzione che la stava paralizzando, Pablo e Fernando, spensierato spagnolo il primo, portoghese cupo e palestrato l’altro. Tutti, come lui, “impiegati nell’industria del catering”: camerieri a tempo pieno e con le ossa spezzate che riempivano le statistiche sempre più allarmanti di giovani del Sud Europa, formati e a spasso nei loro paesi, che si trasferivano in Inghilterra per servire i sudditi di sua Maestà nelle ore di pausa pranzo o durante le notti delle loro sbornie. Riccardo, come Pablo e Fernando, si era trasferito in quella terra promessa credendo di dare una svolta alla sua vita. Si sbagliava. Per sopravvivere avevano dovuto arrabattarsi in tutto: dai ristoranti fino al richiestissimo sandwich-boy, l’ormai conosciutissima figura del ragazzo-pubblicità-vivente che si aggirava fra Leicester Square e Trafalgar con un cartello piazzato addosso, per dieci o dodici ore e una paga giornaliera di cinquantacinque sterline circa. Un lavoro sporadico ma molto ambito per via di quei lauti guadagni che in tanti altri posti erano un miraggio.
La concorrenza era sempre più agguerrita. Dall’inizio della crisi non si contavano più le persone provenienti dai cosiddetti PIGS che stavano affollando l’Inghilterra, e Londra in particolare. Aveva letto da qualche parte che gli italiani nella sola capitale erano oltre cinquecentomila, per la maggior parte stabilmente residenti lì, fuggiti dal paese d’origine per “mancanza di futuro” oppure “stanchi di assistere a come tutto stesse andando a fondo” irrimediabilmente, e senza molte possibilità (e volontà) di salvarlo, come diceva un articolo su uno dei maggiori giornali. Buona parte della stampa inglese stava diventando ogni giorno più conservatrice: pubblicava articoli velatamente razzisti per ingraziarsi qualche politico populista che stava cavalcando l’onda del malcontento, ormai dilagante anche lì. Una cosa era però certa: si stava assistendo a una vera e propria diaspora.
Arrivato a Londra, anche Luca aveva condiviso con gli altri ragazzi la stessa necessità di cercare una nuova via, diversa e lontana da quella avuta in Basilicata. Durante quegli anni aveva sentito che, al di là di tutto, era questo il vero legame che lo univa a tanti altri giovani presenti oltremanica: tutti fuggivano da qualcosa che ufficialmente si chiamava “crisi”, ma nella realtà non era altro che una fuga da se stessi e da quel baratro che alimenta la sensazione di non avere alternative.
Quella sera di girare per Piccadilly, bere e tentare di rimorchiare proprio non ne aveva voglia. Disse che la testa gli scoppiava e corrugò la fronte per dare maggior credibilità alla sua menzogna. Aveva bisogno di distendersi e starsene tranquillo, anche la luce iniziava a dargli fastidio.
«Secondo me non hai fumato abbastanza» disse Riccardo, con una risata da ebete, passandogli di nuovo lo spinello.
Luca, dopo aver spento la canna finita nel vecchio e traboccante posacenere, raccolse il suo piatto e lo lasciò nel lavandino. «Chiudete bene quando andate via» disse poi andando verso il letto. Lo stato d’animo, l’erba che ormai gli aveva fatto effetto e una certa stanchezza resero il suo inglese più marcato del solito dalla sua lingua materna.
Capitolo due
Era stanco e a un certo punto sentì l’esigenza di scomparire per intero sotto le coperte. Il torpore prendeva in pieno i muscoli e si propagava per ogni dove, lasciandogli soltanto una tenue lucidità prima del sonno. La canna aveva parzialmente diradato i pensieri cupi, ma per un qualche oscuro motivo aveva risvegliato, nitida e potente, l’immagine del castello di Viggiano. Quel ricordo se ne stava lì, davanti ai suoi occhi, come una fotografia del suo passato. Dal castello si poteva contemplare tutta la valle che si espandeva intorno a quel suo paesino sperso tra gli Appennini.
Nel suo ricordo, tutto o quasi era rimasto incontaminato nonostante le scoperte petrolifere che si erano fatte da qualche anno e che avevano convertito quel posto, un tempo tanto insignificante, in un luogo di conquista. Poteva vedere nitidamente il viale alberato che collegava le due montagne che formavano il piccolo borgo: sulla prima pullulavano case disabitate, un tempo destinate a turisti pugliesi che ormai a malapena ci mettevano piede; sull’altro, il paese vero e proprio in cui le costruzioni antiche, quasi come se fossero scavate nella roccia, seguivano l’evolversi della montagna e la circondavano per intero, fino a culminare in alto, appunto, col castello. Lassù aveva trascorso molte sere durante le estati della sua adolescenza. Lui e i suoi amici si sentivano padroni dell’intera valle e si rigeneravano, lontano da tutti, in quel prato così in alto e così vicino al cielo e a quelle stelle dense e fitte.
A Londra si vedeva solo smog in cielo: “Fog everywhere” aveva detto Dickens nel romanzo Bleak House, libro che Luca aveva faticato a leggere quando girava in cerca di lavoro in quella città che sentiva così poco sua. Da allora le cose erano sicuramente cambiate in peggio.
Il castello poi era il luogo dove aveva perso la verginità. Era stato un evento non programmato, come molte cose nella sua vita. Un pomeriggio di un lunedì di fine ottobre, quando il freddo della montagna avanzava implacabile e l’estate era ormai un ricordo, era andato alla piazza del Pisciolo dove ogni giorno si incontrava con i suoi amici. Tutti i ragazzi della sua età avevano come punto di riferimento il muretto dietro al bar, dove potevano appartarsi per fumare e soprattutto tenere la situazione sotto controllo, protetti com’erano dai pini alti alle loro spalle e dalla baracca dalle lamiere arrugginite che formava il Milan bar davanti. Il Pisciolo garantiva il riparo da qualsiasi genitore o parente che si fosse avvicinato. Nello scorgere dei volti sospetti o delle auto incerte, si diffondeva la voce e si avvisava subito chi poteva correre il pericolo, una tacita solidarietà che garantiva una mutua protezione.
Quasi tutti i suoi coetanei avevano fumato lì la loro prima sigaretta, bevuto la prima birra o dato il primo bacio: era il luogo dell’iniziazione alla trasgressione. Quel pomeriggio era andato lì per fumare la sua Marlboro Light ma, una volta arrivato, si era accorto che non c’era quasi nessuno. La maggior parte dei suoi amici era al corso per la cresima che ogni lunedì le educatrici impartivano con dubbia dedizione, in un periodo in cui sopravvivevano per inerzia alcuni valori cattolici. Il corso durava fino alle sette e l’attesa si sarebbe fatta lunga a sufficienza da fargli decidere di tornare a casa, ma una voce lo chiamò dall’interno del bar. Era Maddalena, e se ne sorprese. Non erano particolarmente amici. Si conoscevano perché avevano frequentato le scuole medie insieme, ma non aveva avuto altro sentimento nei suoi confronti se non una sana e naturale indifferenza. Esitò un momento, ma alla fine ritornò sui suoi passi quando lei gli fece cenno di avvicinarsi. Gli offrì una sigaretta e, meccanicamente, si sedettero sul muretto.
«Allora, non mi hai detto come ti trovi al liceo classico. Pensavo volessi frequentare lo scientifico» chiese Maddalena. L’aria fresca le aveva fatto arrossire le guance paffute rendendo le sue lentiggini meno evidenti.
«Non credo di esser così portato per la matematica. E poi non avrei resistito cinque anni in una scuola così lontana: per arrivarci, bisogna svegliarsi ogni mattina alle sei e fare un’ora e mezza di autobus» rispose con assoluta sicurezza, quasi come se avesse imparato quella parte a memoria. Poi calò il silenzio. Anche Maddalena non parlò per qualche istante, limitandosi solo a lanciargli alcune occhiate senza farsi accorgere. Nel tardo pomeriggio autunnale le Marlboro si illuminavano con maggior intensità formando dei puntini arancioni sospesi nel buio. Di lì a poco sarebbero usciti i suoi amici e lo avrebbero raggiunto dietro al bar.
«Senti, andiamo a fare un giro da qualche parte? Una passeggiata in un posto più tranquillo? Tra un po’ si riempirà di gente e non avremo più modo di parlare» disse poi Maddalena. Luca rimase spiazzato dalla proposta. Cosa significava quel “andiamo in un posto più tranquillo”? Che intenzioni aveva?
«Preferirei rimanere qui» rispose seccamente.
«Dai, sei proprio…» Non aveva ancora finito la frase quando lo afferrò energicamente per il braccio e iniziò a trascinarlo.
«Ma dove stai andando?» chiese Luca infastidito, accennando a liberarsi senza troppa convinzione.
«Ti porto lassù» disse Maddalena indicando il castello e iniziò a salire per quella salita ripida che univa il Pisciolo con la parte superiore del paese.
Maddalena non mollava la presa del suo braccio e lui la seguiva borbottando parole a caso. Quanto più salivano per la stradina, più sentiva il fiatone aumentare.
«Mia nonna fa questa strada almeno due volte al giorno, tu dovresti farla di corsa» cinguettò sarcastica. In realtà provava una sorta di piacere latente nel vedere quella ragazza così motivata a portarlo fin sopra la vetta del paese. Non aveva mai visto in lei un oggetto del desiderio, ma quel suo impeto e i capelli chiari e lunghi che sbattevano sulle spalle a ogni suo passo gli procuravano quella che molto probabilmente fu la sua prima eccitazione. E poi quella vitalità che d’un tratto mostrava, e che Luca non aveva mai avuto occasione di conoscere, la rendeva ancora più sensuale.
Arrivarono alla punta del castello, ormai completamente al buio. Non si vedeva granché dei sentieri mezzi franati che portavano al prato, ma ugualmente li percorsero con la perizia di chi in quel luogo ci era stato molte volte. Maddalena lo condusse sotto al muretto della punta opposta all’ingresso, seguendo il cammino a forma circolare. Seduti per terra, al riparo dal vento, Luca sentì che la fatica andava diminuendo e i muscoli si rilassavano. Rare volte era salito fin sulla vetta in autunno e quasi sempre lo aveva fatto per vincere qualche scommessa o per fumare in un posto diverso con gli altri. Ora se ne stavano seduti sull’erba fresca e il cielo non era così limpido come in estate. Nell’oscurità si poteva distinguere il contorno delle nuvole, e anche lì rimasero in silenzio a guardare l’orizzonte dove le sagome delle montagne recintavano la valle.
Maddalena si avvicinò a lui, si rannicchiò sul suo petto per proteggersi dal freddo e, quasi istintivamente, iniziò a baciarlo sulla guancia. Fu in quel momento che sentì per la prima volta che avrebbe agito senza alcun controllo, e le prese la testa tra le mani avvicinandola alla sua.
Solo un’altra volta aveva baciato una ragazza, durante una gita a Napoli. Ma era successo per scherzo: doveva pagare un pegno per aver perso durante uno di quegli inutili giochi che si facevano, per passare il tempo, quando con la scuola andavano a fare i cosiddetti “viaggi di istruzione”. Era stato un bacetto innocente, breve, e imbarazzato. Adesso, invece, era tutto diverso. Sentiva che Maddalena lo baciava con un’altra forza, con un’intensità che gli provocava un piacere nuovo, e quando gli sussurrò “Puoi fare di me tutto quello che vuoi” sentì un’insolita sensazione di effimero potere e la consapevolezza che qualcosa nella sua vita stava per cambiare.
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.