Lo specchio rifletteva l’immagine di una ragazza arruffata e sporca. I riccioli scomposti di un castano ramato ricadevano sul naso a patatina, piccolo e schiacciato, e sul volto tondo cosparso di tracce di terra. Risi di gusto e mi ripulii accuratamente. In quella cornice illuminata dalle lampadine a neon emersero due occhi verdi accesi, gioiosi e impazienti.
Il colore delle mie iridi, la luce che le rendeva vive, fluide, come due sfere liquide, mi illuminava il volto e riusciva a definirmi. Delineava perfettamente quel brulichio intenso di emozioni, sogni e speranze che scoppiava nel mio cuore, nel cuore di Armanda Fierro. Madda, così da sempre mi chiamavano tutti, addolcendo quel nome che mio padre mi aveva imposto per onorare l’eroe della città: Maradona. Non mi consideravo particolarmente attraente. Il mio riflesso riproduceva un volto tondo, guance piene, sopracciglia spesse e labbra a cuore che mi donavano sempre l’aspetto dell’eterna bambina. La mia statura sotto la media e il mio fisico esile mi inducevano a dedicarmi maggiormente a nutrire la mente. Tutti mi definivano graziosa, e forse era anche vero, ma non riuscivo a convincermene perché mi sentivo oscurata dalla bellezza, di certo non ordinaria, di Delia ed Emma, le mie due statuarie sorelle. Il loro aspetto non mi turbava, non ero invidiosa, le ammiravo, me ne vantavo, ero fiera di affiancarle quando uscivamo, ma sentivo il bisogno di eccellere in qualcosa. Così, ero giunta alla conclusione che alla fine potevo distinguermi sapendo cose. Quando mio nonno mi raccontava dei suoi pastori, dei simboli in essi racchiusi e delle leggende della città, o quando mi parlava delle commedie di Eduardo De Filippo, lasciandomi spaziare tra i mille risvolti di quelle vicende, inducendomi a riflettere sul loro significato, sull’insegnamento che ne potevo trarre, restavo sovente a bocca aperta. Mi donava ogni volta piccoli strati di consapevolezza e così, a un certo punto, avevo compreso quanto fosse indispensabile per me conoscere il mondo, e tutte le sue possibili sfaccettature. La conoscenza mi faceva sentire più forte. Più sicura.
Tornai fibrillante in cucina dalla nonna, la osservavo mentre, seria e compassata, era intenta a dare gli ultimi punti a un piccolo mantello nero, destinato a una miniatura del nonno. Mi resi conto che aveva chiuso in uno dei suoi cassetti anche gli ultimi eventi. Ora non era tempo di rimuginare.
«Siediti» mi disse senza neppure alzare lo sguardo. Completò lentamente il lavoro. Ripose in una scatola gialla il mantello, piegandolo con cura, poi ricollocò l’ago e il filo nella cassettiera del cucito. Infine, cambiò occhiali e mi prestò attenzione. Mi avvicinai e appoggiai sul tavolo la cassetta di metallo con il suo contenuto.
«Sono riuscita a trovarla, nonna, ora finalmente conoscerai il tuo passato» spiegai emozionata. Mi fissò negli occhi, seria, per un tempo indefinito. Non parlò, ma io sentivo che voleva sapere. Come se stesse unendo dei piccoli puntini per creare un’immagine di insieme. «Finalmente avrai le tue risposte» aggiunsi trionfante.
Lei scosse il capo, stringendo gli occhi come se stesse viaggiando in qualche dimensione alternativa e scrutasse, attraverso gli spifferi del tempo, la verità. Con la stessa espressione di quando leggeva le sue carte o di quando raccontava uno dei suoi sogni rivelatori.
«No, non si tratta di risposte, ma di una direzione» disse. Poi aggiunse: «In qualche modo ci guiderà e ti condurrà su un sentiero utile».
«Nonna, ma si tratta del tuo passato non del mio» dissi aggrottando la fronte, incredula.
«Il tuo futuro è una conseguenza del mio passato, la tua stessa esistenza è dipesa dalle mie scelte, dal mio cammino. Ma c’è altro. Abbiamo condiviso lo stesso sogno, non a caso, Madda, questa vicenda fa parte della tua storia, come della mia, di certo. Con il tempo troveremo il collegamento.»
“Annina la maga” veniva chiamata da ragazza. Tutti la guardavano con timore e ammirazione.
Era in grado di prevedere gli eventi. La gente faceva la fila per ricevere i suoi consulti. Maneggiava con cura e rispetto i suoi tarocchi antichi, li spargeva sul tavolo con le sue dita affusolate e curate e poi, stringendosi il mento per concentrarsi, forniva il suo responso. Non parlava molto, ma cercava sempre le frasi più adatte per donare sollievo.
«Se le persone vengono da me vuol dire che hanno bisogno di essere ascoltate. Desiderano un conforto perché stanno soffrendo per qualche motivo. Ognuno di loro conosce le proprie risposte, ma talvolta preferiscono tormentarsi e immaginare di trovare le soluzioni altrove, perché in questo modo possono fingere di non assumersi la responsabilità di certe scelte. Alle persone piace credere alla magia, ma io cerco semplicemente, attraverso le parole, le corde giuste per condurli dove sanno già di dover andare» concludeva sempre quando le dicevamo che era magica.
Non si faceva mai pagare. Diceva che portava male, ma in realtà non voleva arricchirsi sulla sofferenza della gente. Lo riteneva profondamente immorale.
Da bambina avevo assistito a quei consulti, seduta su una piccola sedia accanto a lei, e ogni volta i suoi verdetti rasentavano la precisione. Dettagliati persino nelle descrizioni di luoghi e persone.
La gente la guardava con gli occhi spalancati quando lei stessa rivelava loro la ragione per cui erano lì. Talvolta elencava situazioni e ambiti lavorativi prima che loro aprissero bocca. E dalle loro espressioni rapite, e vagamente spaventate, comprendevo che inquadrava perfettamente persino i dettagli più intimi. Malgrado negasse sempre di essere magica, io la vedevo quella luce dentro. E la sentivo, la percepivo netta perché in parte l’avevo ereditata anche io quella sua capacità di sognare eventi che poi si verificavano puntuali.
«Mandali via, nonna» le avevo chiesto una notte prima di dormire. Lei mi aveva accarezzata pazientemente, raccontandomi aneddoti e tentando di alleviare i miei timori, ma i suoi occhi avevano parlato e avvertivo netto il suo disagio per quelle doti che neppure lei sapeva spiegare. «Forse siamo delle streghe» le avevo mormorato spaventata quando era sceso il buio. Lei mi aveva canzonata ridendo di gusto.
«Punta la bacchetta, Madda, e trasforma in mostri tutti i cattivi» aveva detto. «Poi saliamo sulla scopa e girelliamo insieme dove ci piace» mi aveva incitata divertita, porgendomi un bastone con le setole ormai consunte. L’immagine di noi su quella ramazza spennacchiata aveva stemperato ogni tensione ed ero scivolata nel sonno senza preoccuparmi di essere catturata dai miei inquietanti sogni rivelatori, e dalla fanciulla vestita di bianco che sempre li precedeva per introdurli.
Solo quando avevo sognato la bisnonna che mi esortava a trovare lo scrigno, la nonna aveva manifestato una profonda inquietudine, perché aveva realizzato che era lo stesso sogno, uguale anche nei dettagli, a quello che aveva sempre fatto lei.
«Se sei stata invitata, c’è un motivo» diceva visibilmente turbata.
Ora lo scrigno era dinanzi a noi, scolorito e consunto dal tempo e dall’umidità. Mi sentivo profondamente coinvolta, al punto che le mani tremavano mentre mi accingevo a scoprirne il contenuto. Il lucchetto era arrugginito, tentai di infilare la chiave nella serratura, ma ormai risultava inaccessibile. Così, forzai con una tronchese, ma non si resero necessari gesti particolarmente bruschi. La ruggine, il tempo e l’acqua avevano reso quella serratura fragile. Il morso delle tenaglie recise con un colpo secco il lucchetto e i segreti di quello scrigno furono privi di difesa. Il passato e il presente stavano per ricomporsi raccontando il loro vero volto. La superficie era resistente, così dovetti fare uno sforzo consistente per sollevarla, ma non appena ci riuscii il suo contenuto si disvelò.
La nonna osservava seria, compunta. Sembrava tranquilla, quello scrigno era una porta sul suo passato eppure non sembrava scossa, almeno in apparenza. La nonna era dotata di solide recinzioni dietro le quali sistemava le sue emozioni; quindi, difficilmente riuscivi a leggere i suoi sentimenti. Li celava oltre il suo sguardo sicuro. Poi un giorno mi aveva raccontato la sua vita, la sua voce rotta al ricordo dei suoi affetti più cari aveva tradito la sua fragilità, evidenziando il valore di quei ricordi unici, di quei sentimenti profondi rimasti inalterati. E allora l’avevo intravista, quella bambina sola e spaventata che traeva forza dal suo inconscio che le sussurrava segreti. Lei che affrontava la vita stringendo tra le braccia la sua bambola dall’orecchio reciso. Lei che correva tra gli alberi con il suo Giuseppe mentre le bombe tuonavano sulla città. E ancora ne avevo osservato le sembianze corrotte, alterate, scompaginate e scolorite, mentre riversa su un prato inerme e privata di una parte di sé cercava di trovare la forza di non scomparire. Ogni suo passo, ogni suo batticuore, l’avevano resa ancora più forte ai miei occhi. I suoi lutti dolorosi l’avevano costretta a costruire, ancora ragazzina, una barriera dietro cui ripararsi. Come se nascondendo le emozioni in un angolo del cuore, a cui solo lei aveva accesso, riuscisse a gestirle o ignorarle più facilmente. Aveva imparato a riporle a scomparti per poterne controllare la paura, e disinnescare il dolore, ma ne conosceva ogni sussulto. E aveva appreso sia nelle pene che nelle gioie come assaporarle senza fare indigestione, senza esserne sopraffatta. Lentamente, senza troppi sorrisi, senza troppe lacrime, le assaggiava con parsimonia, come un cibo bollente che si lascia raffreddare.
Estrassi un sacchetto che conteneva una curiosa bottiglia quadrata di vetro verde opaco, con intarsi e decori lungo tutta la superficie. Terminava con un collo largo e un tappo di metallo ben saldato. Al suo interno, un panno stinto, probabilmente impermeabile, avvolgeva una fotografia ingiallita e alcuni oggetti. Si trattava di gioielli che all’apparenza sembravano di grande valore: un girocollo di brillanti, un piccolo bracciale di rubini intarsiato con elaborati ricami, un orecchino dalla montatura tempestata di diamanti con al centro un cameo, infine quattro anelli adornati di pietre preziose.
La foto in bianco e nero mostrava una donna con indosso un abito elegante, che le delineava le curve voluttuose, intenta a maneggiare un tamburello sopra un piccolo palco. Un uomo bruno, con pantaloni larghi e giacca dalla vita stretta e piccoli risvolti, suonava il pianoforte sorridendole sotto la pedana.
Il viso della donna era raggiante, con lo sguardo divertito puntava complice il giovanotto bruno.
Per un momento quel suo volto soddisfatto non mi permise di identificarne l’identità.
«È mia madre» sussurrò la nonna puntando il volto della donna con occhi stretti e concentrati. «La piccola immagine che ha applicato nel ciondolo a forma di cuore, unico cimelio con il quale mi ha lasciato in orfanotrofio, ne trasmetteva la sua infelicità.»
Ricordai quel pendaglio a forma di cuore che qualche mese prima avevo ritrovato in un baule in soffitta, contenente il ritratto di un volto malinconico, con gli stessi lineamenti della donna della fotografia.
«Questo scatto, invece, appartiene alla sua vita prima di me. Quando sognava un futuro roseo, quando immaginava che quell’uomo, che la osservava incantato, avrebbe condiviso la sua vita con lei» concluse la nonna, sviscerando con convinzione le emozioni di sua madre, come se lei stessa gliele avesse riferite, come se, mentre quella foto veniva scattata, fosse stata presente anche lei.
«Dici che lui è tuo padre?» chiesi indicando il giovane dal profilo aquilino e dalla capigliatura folta e bruna.
«Sì, è lui» asserì certa, senza spiegarmi da cosa derivasse la sua convinzione.
Quando i suoi occhi rilucevano di una tale intensità, sapevo che nessun dubbio poteva essere contemplato. Non manifestò alcun interesse per i numerosi gioielli. Restò invece a osservare quella foto. La sua eredità era il volto dei suoi genitori. Credo volesse imprimerli nella mente per immaginarne l’anima, la vera natura riposta dietro la luce che trasmettevano quei loro sguardi innamorati.
Lo scatto li avevi ripresi da vicino per cui poteva scrutare i dettagli delle espressioni e le pieghe del volto di quella donna che l’aveva ospitata nel suo ventre. Dell’uomo era solo possibile immaginarne il viso. Si evidenziava solo il suo profilo, e, malgrado fosse seduto, si evinceva comunque la sua statura imponente e la corporatura robusta, ma non era possibile identificarne lo sguardo o l’ovale del viso.
Io ricercavo in quegli oggetti un’illuminazione. Desideravo fornirle risposte. Volevo identificare quell’uomo per scoprirne l’identità. Intendevo donare alla nonna le sue origini.
Rimase per un momento a contemplare quegli oggetti, come se, per un attimo, avesse avuto accesso a un universo parallelo, dove avvertiva la presenza di chi l’aveva generata. Poi voltò pagina. E, senza ulteriori commenti, ripose ogni cosa e mi diede un bacio sulla guancia.
«Nonna, posso prendere in prestito la fotografia?» chiesi quasi mormorando per il timore di irritarla. «La tratterò con cura e poi te la restituirò. Sento che ha ancora qualcosa da raccontarci.»
La nonna annuì. «Sì, certo. Come ti ho detto, credo che riguardi anche te» disse, guardandomi intensamente oltre, come quando leggeva il futuro nelle carte.
***
«Questo sgabuzzino ha sempre un odore gradevole. È ammucchiato l’inverosimile e, nonostante ciò, non si percepisce nemmeno un leggerissimo sentore di muffa o di polvere» esordì Delia, osservando l’ambiente con aria assorta e analitica.
Stavamo recuperando delle bottiglie di vetro per riporvi le conserve di pomodori freschi. Consuetudine stagionale.
«Finché la nonna lo ordinerà, ci sarà sempre la sua impronta e il suo profumo» sussurrai, accennando un lieve sorriso.
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