Era martedì e si stava svolgendo la funzione dedicata al miracolo dello scioglimento del sangue della Santa. Non molti sanno che il miracolo non si compie solo sul sangue del patrono della città, San Gennaro, ma anche sulle reliquie di Santa Patrizia. L’evento prodigioso si verifica puntualmente ogni martedì e ogni 25 agosto. Santa Patrizia è molto amata. Patrona delle partorienti, dei naviganti, dei bisognosi e delle ragazze in cerca di marito. Ha numerosi proseliti in città e tra questi vicoli.
Mi inginocchiai a pregare con trasporto.
“Grazie per questo dono prezioso”, sussurrai con voce commossa. Un riflesso in una porzione di specchio di una vetrata, mi mostrò il viso sporco di terra, gli abiti logori e le mani sudice e lacerate dalle quali svettavano intermittenti le mie unghie sporche e spezzate. Una smorfia divertita mi spuntò sul viso osservando i volti disgustati della gente intorno, che al mio passaggio si allontanava in fretta.
Ridevo soddisfatta, perché loro erano ignari della mia felicità.
Sentivo ancora tra le mani nude la terra umida, le radici spigolose che mi graffiavano, i sassi che mi tagliavano. E le mie dita ferite che tastavano una superficie di metallo. Uno scrigno arrugginito incastrato tra i detriti, protetto dalle braccia longeve di radici centenarie. Mi aveva travolta quell’emozione che sopiva il dolore. La frenesia di tendere le braccia verso il passato, mi ottundeva i sensi. Nella mente solo l’odore di erba, di fanghiglia, e la storia di mia nonna che scorreva come un film.
Tastai nella borsa per assicurarmi che quella scatolina antica fosse ancora lì.
Poi rivolsi uno sguardo d’intesa alla Santa mentre uscivo.
Mi feci strada tra i passanti giungendo dinanzi a una delle botteghe più affollate.
Il nonno era intento a servire dei clienti affascinati dai suoi pastori realizzati interamente a mano. Era l’artigiano più gentile e il più geniale del quartiere.
Lo sapevano tutti e anche i suoi concorrenti lo rispettavano.
Infilai il portone del palazzo antistante e salendo i gradini raggiunsi l’appartamento dei nonni. Appena ne varcai la soglia si spalancò la visuale sull’ingresso colorato, ricco di gingilli e piccoli angioletti di varie forme e colori che ornavano le pareti mentre aleggiava nell’aria un delicato profumo di sapone di Marsiglia. Su una madia attigua alla porta di ingresso era adagiata Turchina, la bambola dagli occhi di cielo della nonna, spettatrice attiva e memoria del passato. L’accarezzai sfiorandone i contorni, fino a percepire con le dita il foro all’altezza del petto. “Il suo cuore ti dirà chi sei”, aveva scritto la bisnonna, riferendosi a Turchina, nella lettera di addio alla figlia, prima di abbandonarla in orfanotrofio. E in effetti quella bambola dagli occhi trasparenti e dai riccioli biondi ci aveva donato le istruzioni per ritrovare quel piccolo scrigno antico.
Lo stringevo tra le mani serrando la presa come fosse una reliquia preziosa, chiedendomi se contenesse delle risposte sulle origini di mia Nonna Anna.
Un leggero brivido mi pervase mentre rivivevo quelle ultime settimane, e la sensazione di aver raggiunto un traguardo fondamentale. Ogni scena, ogni ricordo di una vita complessa e intensa mi scorrevano nella mente mentre mi risuonava netta la voce calda e intensa di mia nonna che mi narrava la sua storia.
Ogni parola era incisa nel mio profondo, quel suo racconto dettagliato, le sue emozioni, i suoi dolori, le sue gioie, la sua pazienza e quell’alleria con la quale affrontava la vita e che spargeva da sempre nelle nostre vite.
Mi affacciai in cucina, Anna Esposito cuciva silenziosa. La sua immagine confortante mi donava benessere mentre sorridendo emozionata ne contemplavo la nota capigliatura riccia tenuta sulla nuca da una pinza elegante e quei suoi occhi verdi trasparenti e acuti in grado di osservare l’anima della gente.
Ne ammiravo il portamento, quelle sue spalle dritte e solide, capaci di sostenere senza tentennamenti ogni virata della vita.
Ferma sulla soglia osservavo i suoi gesti minuziosi, quella calma saggia che le consentiva sempre di non abbandonarsi a esondazioni emotive impreviste.
Manteneva il sangue freddo e riusciva a controllare gli eventi. L’aveva appreso da bambina. L’ esperienza in orfanotrofio, la guerra, i suoi lutti dolorosi, l’avevano plasmata. Rammentai ogni sussulto, ogni passo di una vita intensa nella quale ogni gradino, ogni rupe e ogni voragine l’avevano erudita, forgiando per lei una corazza spessa per affrontare gli inverni più duri.
Era una donna profondamente solida e tutti noi ci lasciavamo contenere dalle sue recinzioni elastiche. Sapeva orientare, ci guidava e attraverso le sue lenti tutto pareva possibile.
Varcai la soglia della stanza salutandola. Appena mi vide, un moto di paura per il mio aspetto le corrugò il viso, ma osservando i miei occhi ardenti, capì. Tra noi era da sempre attivo un linguaggio silenzioso.
“Vai a pulirti Nennella. Non lo sapevo che lavoravi in miniera. Le buone notizie si raccontano con la faccia pulita”.
Poi, prelevò un asciugamano dall’armadio e mi invitò a rinfrescarmi il viso.
Lo specchio rifletteva l’immagine di una ragazza arruffata e sporca. I riccioli scomposti di un castano ramato ricadevano sul naso a patatina piccolo e schiacciato e sul volto tondo cosparso di tracce di terra. Risi di gusto e mi ripulii accuratamente. In quella cornice illuminata dalle lampadine a neon emersero due occhi verdi accesi, gioiosi e impazienti.
Il colore delle mie iridi, la luce che le rendeva vive, fluide, come due sfere liquide, mi illuminava il volto e riusciva a definirmi. Delineava perfettamente quel brulichio intenso di emozioni, sogni e speranze che scoppiava nel cuore di Armanda Fierro. Madda, così da sempre mi chiamavano tutti addolcendo quel nome che mio padre mi aveva imposto per onorare l’eroe della città: Maradona.
Non mi consideravo particolarmente attraente. Il mio riflesso riproduceva un volto tondo, guance piene, sopracciglia spesse e labbra a cuore che mi donavano sempre l’aspetto dell’eterna bambina. La mia statura sotto la media e il mio fisico esile mi inducevano a dedicarmi maggiormente a nutrire la mente. Tutti mi definivano graziosa, e forse era anche vero, ma non riuscivo a convincermene perché mi sentivo oscurata dalla bellezza di certo non ordinaria di Delia ed Emma, le mie due statuarie sorelle. Il loro aspetto non mi turbava, non ero invidiosa, le ammiravo, me ne vantavo, ero fiera di affiancarle quando uscivamo, ma sentivo il bisogno di eccellere in qualcosa. Così, ero giunta alla conclusione che alla fine potevo distinguermi sapendo cose.
Quando mio nonno mi raccontava dei suoi pastori, dei simboli in essi racchiusi e delle leggende della città o mi parlava delle commedie di Eduardo lasciandomi spaziare tra i mille risvolti di quelle vicende, inducendomi a riflettere sul loro significato, sull’insegnamento che ne potevo trarre, restavo sovente a bocca aperta. Mi donava ogni volta piccoli strati di consapevolezza e così a un certo punto avevo compreso quanto fosse indispensabile per me conoscere il mondo, e tutte le possibili sfaccettature. La conoscenza mi faceva sentire più forte. Più sicura.
Tornai fibrillante in cucina dalla nonna, la osservavo, mentre seria e compassata era intenta a dare gli ultimi punti a un piccolo mantello nero destinato a una miniatura del nonno.
Mi resi conto che aveva chiuso in uno dei suoi cassetti anche gli ultimi eventi. Ora non era tempo di rimuginare.
“Siediti”, mi disse senza neppure alzare lo sguardo.
La nonna completò lentamente gli ultimi punti. Ripose in una scatola gialla il mantello piegandolo con cura, poi ricollocò l’ago e il filo nella cassettiera del cucito. Infine, cambiò occhiali e mi prestò attenzione.
Mi avvicinai e appoggiai sul tavolo la cassetta di metallo con il suo contenuto.
“Sono riuscita a trovarla nonna, ora finalmente conoscerai il tuo passato” spiegai emozionata.
Mi fissò negli occhi seria, per un tempo indefinito. Non parlò, ma io sentivo che voleva sapere. Come se stesse unendo dei piccoli puntini per creare un’immagine di insieme.
“Finalmente avrai le tue risposte”. Aggiunsi trionfante.
Lei scosse il capo stringendo gli occhi come se stesse viaggiando in qualche dimensione alternativa e scrutasse attraverso gli spifferi del tempo la verità. Con la stessa espressione di quando leggeva le sue carte o mentre raccontava uno dei suoi sogni rivelatori.
“No, non si tratta di risposte, ma di una direzione”
Poi aggiunse:
“In qualche modo ci guiderà e ti condurrà su un sentiero utile”.
Aggrottai la fronte incredula.
“Nonna ma si tratta del tuo passato non del mio”.
“Il tuo futuro è una conseguenza del mio passato, la tua stessa esistenza è dipesa dalle mie scelte, dal mio cammino. Ma c’è altro.
Abbiamo condiviso un sogno, lo stesso non a caso Madda, questa vicenda fa parte della tua storia, come della mia, di certo. Con il tempo troveremo il collegamento.”
“Annina la maga”, così veniva chiamata da ragazza. Tutti la guardavano con timore e ammirazione.
Era in grado di prevedere gli eventi. La gente faceva la fila per ricevere i suoi consulti. Maneggiava con cura e rispetto i suoi tarocchi antichi, li spargeva sul tavolo con le sue dita affusolate e curate e poi stringendosi il mento per concentrarsi forniva il suo responso. Non parlava molto, ma cercava sempre le frasi più adatte per donare sollievo.
“Se le persone vengono da me vuol dire che hanno bisogno di essere ascoltate. Desiderano un conforto perché stanno soffrendo per qualche motivo. Ognuno di loro conosce le proprie risposte, ma talvolta preferiscono tormentarsi e immaginare di trovare le soluzioni altrove, perché in questo modo possono fingere di non assumersi la responsabilità di certe scelte. Alle persone piace credere alla magia, ma io cerco semplicemente attraverso le parole, le corde giuste per condurli dove sanno già di dover andare.” Concludeva quando le dicevamo che era magica.
Non si faceva mai pagare. Diceva che portava male, ma in realtà non voleva arricchirsi sulla sofferenza della gente. Lo riteneva profondamente immorale.
Da bambina avevo assistito a quei consulti seduta su una piccola sedia accanto a lei e ogni volta i suoi verdetti rasentavano la precisione. Dettagliati persino nelle descrizioni di luoghi e persone.
La gente la guardava con gli occhi spalancati quando lei stessa rivelava loro la ragione per cui erano lì. Talvolta elencava situazioni e ambiti lavorativi prima che loro aprissero bocca.
E dalle loro espressioni rapite e vagamente spaventate comprendevo che inquadrava perfettamente persino i dettagli più intimi.
Malgrado negasse sempre, io la vedevo quella luce dentro. E la sentivo, la percepivo netta perché in parte l’avevo ereditata anche io quella sua capacità di sognare eventi che poi si verificavano puntuali.
“Mandali via nonna”, le chiedevo di notte prima di dormire.
Lei mi accarezzava paziente raccontandomi aneddoti tentando di alleviare i miei timori, ma i suoi occhi parlavano e avvertivo netto il suo disagio per quelle doti che neppure lei sapeva spiegare.
“Forse siamo delle streghe”, le mormoravo spaventata quando scendeva il buio.
Lei mi canzonava ridendo di gusto.
“Punta la bacchetta Madda e trasforma in mostri tutti i cattivi”, diceva.
“Poi saliamo sulla scopa e girelliamo insieme dove ci piace”, mi incitava divertita porgendomi un bastone con le setole ormai consunte.
L’immagine di noi su quella ramazza spennacchiata stemperava ogni tensione e scivolavo nel sonno senza preoccuparmi di essere catturata dai miei inquietanti sogni rivelatori e dalla fanciulla vestita di bianco che sempre li precedeva per introdurli.
Solo quando avevo sognato la bisnonna che mi esortava a trovare lo scrigno, la nonna aveva manifestato una profonda inquietudine, perché aveva realizzato che era lo stesso sogno, uguale anche nei dettagli a quello che aveva sempre fatto lei.
“Se sei stata invitata c’è un motivo”, diceva visibilmente turbata.
Ora lo scrigno era dinanzi a noi, scolorito e consunto dal tempo e dall’umidità. E mi sentivo profondamente coinvolta, al punto che le mani tremavano mentre mi accingevo a scoprirne il contenuto.
Il lucchetto era visibilmente arrugginito, tentai di infilare la chiave nella serratura, ma ormai risultava inaccessibile. Così, forzai con una tronchese piuttosto acuminata, ma non si resero necessari gesti particolarmente bruschi. La ruggine, il tempo e l’acqua avevano reso quella serratura fragile. Il morso delle tenaglie recise con un colpo secco il lucchetto e i segreti di quello scrigno furono privi di difesa. Il passato e il presente stavano per ricomporsi raccontando il loro vero volto.
La superficie era resistente, così dovetti fare uno sforzo consistente per sollevarla, ma non appena ci riuscii il suo contenuto si disvelò.
La nonna osservava seria, compunta.
Sembrava tranquilla, quello scrigno era una porta sul suo passato eppure non sembrava scossa, almeno in apparenza. La nonna era dotata di solide recinzioni dietro le quali sistemava le sue emozioni; quindi, difficilmente riuscivi a leggere i suoi sentimenti. Li celava dietro il suo sguardo sicuro. Poi un giorno mi aveva raccontato la sua vita, la sua voce rotta al ricordo dei suoi affetti più cari aveva tradito la sua fragilità, evidenziando il valore di quei ricordi unici, di quei sentimenti profondi rimasti inalterati. E allora l’avevo intravista quella bambina sola e spaventata che traeva forza dal suo inconscio che le sussurrava segreti. Lei che affrontava la vita stringendo tra le braccia la sua bambola dall’orecchio reciso. Lei che correva tra gli alberi con il suo Giuseppe mentre le bombe tuonavano sulla città. E ancora ne avevo osservato le sembianze corrotte, alterate, scompaginate e scolorite mentre riversa su un prato inerme e privata di una parte di sé cercava di trovare la forza di non scomparire. Ogni suo passo, ogni suo batticuore, l’avevano resa ancora più forte ai miei occhi. I suoi lutti dolorosi l’avevano costretta a costruire ancora ragazzina una barriera dove ripararsi. Come se nascondendo le emozioni in un angolo del cuore a cui solo lei aveva accesso, riuscisse a gestirle o ignorarle più facilmente. Aveva imparato a riporle a scomparti per poterne controllare la paura, e disinnescare il dolore, ma ne conosceva ogni sussulto. E aveva appreso sia nelle pene che nelle gioie come assaporarle senza fare indigestione, senza esserne sopraffatta.
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