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L’ego muore urlando

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Consegna prevista Agosto 2025

È la storia di Agata, una viaggiatrice scomparsa in India, e dell’uomo che la deve cercare. Mentre il ricordo del suo volto sbiadisce dagli occhi di chi l’ha incontrata, quello della sua crudeltà e bellezza, del suo coraggio e della sua disperazione, diventa una ferita, un tormento a cui si accompagna il sospetto che quella non fosse una semplice viaggiatrice, o una donna qualsiasi, bensì una Dea, un demonio, un’eroina la cui leggenda si fa sempre più ramificata e complessa, sempre più personale per colui che la cerca.

Avvicinandosi al mistero della sua scomparsa, egli dovrà decidere tra la verità e la propria salvezza.

«Ma mentre dicevo questo già pensavo a cosa sarebbe potuto accadere se il desiderio avesse incontrato il suo oggetto: la storia, a quel punto, si sarebbe sviluppata in tutt’altra direzione, non più nel senso orizzontale dello spazio che separa due persone, due amanti o due nemici, ma nel senso verticale di una caduta all’inferno… O di un volo verso la libertà!

Perché ho scritto questo libro?

Ho voluto saldare un debito che mi porto dietro dall’infanzia, quello verso l’archetipo del viaggiatore: un uomo o una donna che si spinge ai confini della condizione umana, sacrificando tutto per il sogno di un approdo lontano. Per anni ho rincorso questi avventurieri tra le pagine dei libri, finché una di loro – Agata – non mi ha chiesto di darle una casa: una storia abbastanza lunga, profonda e buia, da non intravederne la fine… Da potercisi nascondere per sempre.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Lo sconosciuto ricominciò a parlare mentre camminavamo lungo la sponda del fiume. Il cielo incombeva sulla città, ricalcando come un sudario la fisionomia scheletrica dei suoi palazzi, dei suoi alberi storti. «Ci sono due storie» disse. «La prima si svolge in quel tempo sospeso dove si svolgono le storie degli eroi, dei demoni e delle divinità, e di quei pochi, anzi pochissimi mortali che si sono guadagnati un posto in quel cielo lontano. La seconda storia, invece, deve ancora compiersi. Ma in un certo senso esiste già. Esiste perché io l’ho immaginata nei suoi tratti fondamentali. Questa storia, al momento, si trova in quel serbatoio di storie che non sono ancora state “incarnate” da qualcuno: storie che un uomo o una donna dovranno condurre, col proprio corpo e le proprie azioni, attraverso lo spazio intermedio delle avventure, dei pericoli e delle battaglie. Ecco, io una storia del genere credo di averla immaginata o, per meglio dire, intravista in un attimo di chiaroveggenza. Potremmo dire che l’ho vista proiettarsi dinanzi a me come l’ombra di un sole che sorgeva alle mie spalle, annunciando un giorno nuovo… Ma un giorno che nessuno sa come sarà! E adesso cerco qualcuno che purtroppo non sarò io, un viaggiatore che porti la mia storia a compimento»

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«Chi?» gli domandai. Ma in realtà lo sapevo già.

«Tu?»

«Io?»

«Ci sono due storie». Il suo tono era caldo, intimo e severo, i suoi occhi riflettevano il sole che li colpiva da ogni direzione, attraverso strati di smog, nuvole e incenso. Per questo mi sembrava impossibile andarmene di lì, perché tutta quella luce mi faceva pensare a un mondo in cui non era rimasto nessun angolo buio in cui andare a nascondermi dal mio destino. «Ci sono due storie, insomma, e io credo che esse siano legate tra loro in qualche modo. Non perché abbiano dei personaggi o delle vicende in comune, né perché l’una abbia causato direttamente o indirettamente l’altra, ma perché seguono lo stesso tipo di struttura espressiva: una tensione che separa e unisce due oggetti lontani nel tempo e nello spazio. Su questo piano le due storie hanno molto in comune, tanto da sembrare gemelle, e per il resto sono totalmente diverse. Poi, chissà… Se accetterai la mia proposta, forse scoprirai che questa seconda storia – quella che ho immaginato compiersi per mezzo di un viaggiatore come te – ha in realtà dimensioni ulteriori, più liriche e mistiche di quanto io non avessi previsto».

Mentre parlava appoggiato al tronco di un albero, lo sconosciuto mi lanciava delle occhiate furtive, un po’ oblique e strane, con cui cercava di leggere in me i segni esteriori di un dibattito interiore in cui ponderavo se accettare o meno la sua proposta. Ancora non ne conoscevo il contenuto, né quale tipo di storia avesse immaginato per me, anzi per uno come me, eppure sentivo che a quel punto era tutta una questione di forma, che se egli mi avesse offerto l’immagine giusta sarei partito senza indugio, tale era l’impazienza e lo scalpitare dei miei ventiquattro anni. Lui lo sapeva. La mia vita – schiacciata a terra da quel cielo bianco, dal caldo che opprimeva ogni pensiero, infondendogli l’angosciosa irrequietezza del sogno – era in balìa delle sue parole: non semplici parole, ormai, ma incantesimi e poesie.

«Certe coincidenze non capitano tutti i giorni, a malapena capitano una volta nella vita: una vita tra le tante che potremmo vivere e aver vissuto»

«Ci sono due storie» lo incalzai.

«La prima offre alla seconda una direzione da seguire, due poli tra cui tendere il filo della narrazione per poi camminarci sopra come un funambolo che sfida l’abisso. La seconda storia indugia, tentenna, scalpita per uscire dal nulla in cui è intrappolata in attesa del suo eroe. Questo è un momento decisivo e molto delicato: è lo stadio della sua evoluzione in cui tutto può finire ancora prima di essere cominciato. Ora che la storia inizia ad avventurarsi fuori dal suo guscio, ogni tipo di ostacolo potrebbe stroncarla sul nascere: per questo bisogna prestare la massima attenzione, aprire bene occhi e orecchie in cerca di quell’Intruso di cui non voglio pronunciare il nome ad alta voce, quel Dio che cerca sempre di rubarci l’ispirazione e il coraggio di fare scelte eroiche, tali da mettere in pericolo la pace del mondo che invece vorremmo scuotere dalle fondamenta. Questo Intruso, più scaltro di ogni essere mortale, è capace di infiltrarsi nei nostri pensieri e di confondersi con essi. Assume la forma di un ragionamento formalmente impeccabile e saggio per farci soccombere alle ragioni della sua ragione. È colui che sta a guardia delle grandi rivelazioni poetiche, quelle che potrebbero minacciare il dharma… È l’indecisione prima di un bacio, è la pagina bianca di fronte allo scrittore, è il letto caldo e comodo all’alba di una grande avventura».

«Ci sono due storie… » dissi.

«La prima è la storia di uno yaksha esiliato in una foresta dell’India centrale, lontano dalla sua amata che invecchia senza di lui nella città di Alaka, sull’Himalaya. Un giorno, sopra la foresta dove sconta il suo esilio, lo yaksha vede passare una nuvola. Egli la contempla con invidia – lei libera di posarsi dove vuole, di obbedire solo al vento – e, mentre la vede abbassarsi fino a inghiottire la cima di un colle, gli viene un’idea: si rivolgerà alla nuvola e le chiederà di recapitare un messaggio alla sua amata. Ma prima lo yaksha dovrà convincerla ad affrontare il lungo viaggio. Allora comincia a descriverle, con parole di agghiacciante perfezione metrica, tutte le meraviglie naturali e architettoniche che sorvolerà durante il suo viaggio verso Alaka: i fiumi, le città, i fiori, le donne, i templi… Tutta l’India sorvolata in un centinaio di mandakranta fino ad arrivare sul monte Kailash»

«Ci sono due storie… »

«La prima è Meghadutt di Kalidasa, il più grande poeta dell’India classica»

«E la seconda?»

«La seconda storia, come ho già detto, è in attesa»

«Di cosa?»

«Del viaggiatore che la porterà al culmine delle sue possibilità narrative. Questa storia, per diventare la leggenda che ambisce a diventare, deve prima affrontare i piaceri e i dolori del corpo, ovvero dell’esperienza incarnata. Solo allora, quando avrà trasceso questo piano intermedio, potrà ascendere al piano superiore, che è quello dei miti che trasformano i loro personaggi in esseri immortali, fermi come il mozzo di una ruota al centro del tempo che gira senza fermarsi»

«E per fare questo», lo interruppi, «serve che qualcuno incarni questa storia, ovvero che le presti il proprio corpo. Se però la storia vuole proseguire il suo viaggio, ovvero diventare leggenda, dovrà in qualche modo uscire dal corpo che l’ha traghettata fino a quel punto: questo come si fa? Forse sacrificando il viaggiatore?».

«Ho un fratello» disse lo sconosciuto, senza dare seguito al mio commento. «No, non quello che abbiamo fatto cremare oggi!» si affrettò ad aggiungere. «È un altro fratello. Un uomo triste e solo, dotato di grande intelligenza e cultura. Ma la sua mente è offuscata da certe inclinazioni malsane, la più malsana delle quali, secondo me, è il bisogno irrazionale di concentrare ogni energia verso l’adorazione di questa o di quell’altra creatura femminile, sia essa Dea, donna reale o prodotto della fantasia. Lui chiama questa cosa “amore” – oppure bhakti, devozione – e se ho ben capito dalle poche parole che ci siamo scambiati negli ultimi vent’anni è un modo tutto suo di intraprendere il percorso verso la liberazione. Ma non so… » disse con aria tormentata, passeggiando in cerchio tra le erbacce seccate dal vento.

«Ci sono due storie… »

«La seconda inizia con mio fratello, il maggiore dei tre che eravamo fino a pochi giorni fa. L’altro ieri sono stato a casa sua per comunicargli la morte di Joy e lui ha reagito a malapena. Era in una condizione pietosa: i capelli arruffati, pieni di polvere e briciole di pane, i vestiti sporchi e in tutta casa un odore disgustoso di cibo andato a male. Sembrava un’ombra che aspetta il calare delle tenebre per svanire nel suo elemento! Ho provato in vari modi a scuoterlo ma non ci sono riuscito. Era consumato dalla perdita di un amore che per mesi l’aveva tenuto in piedi come i fili di una marionetta. Un giorno lei se n’è andata senza dire nulla, sparita senza lasciare traccia, e lui è ricaduto nella depressione che lo accompagna da quando era giovane, consumando quel po’ di felicità e serenità che gli deriva da un’infanzia felice. Gira per casa in vestaglia, con le mutande sporche e la barba lunga. Tra i divani e i vecchi mobili impolverati si aggira di tutto: topi, scarafaggi, lucertole, persino piccioni e pipistrelli che riescono a entrare chissà come, visto che non apre quasi mai le finestre. A volte si arrabbia con uno di questi intrusi – magari un topo che gli rosicchia il tubo del lavandino – e passa intere notti a dargli la caccia come se fosse Jim Corbett e il topo una tigre mangiatrice di uomini. Non dorme e non mangia finché non lo riesce a catturare, o finché non cade stremato a terra. Si risveglia ore dopo, con gli occhi gonfi e la schiena flagellata da zanzare e cimici dei letti, e non sa neanche dove si trovi! A malapena ricorda il suo nome! Si guarda allo specchio e gli sembra di guardare il volto di qualcuno che implora il suo aiuto da un mondo parallelo, a cui solo lo specchio gli darebbe accesso… Allora che fa? Butta via lo specchio! È matto, ti dico! Non piange mai – dice di non esserne capace – ma fa molto di peggio… » disse a voce bassa. Si guardò intorno come se stesse per confessarmi qualcosa di scandaloso. «Lui prega!» esclamò inorridito. «Prega come farebbe un cristiano o un musulmano, rivolgendosi a un Dio che secondo lui lo ascolta e a cui importa qualcosa di quello che gli succede. Ti rendi conto?! No, è un’assurdità che non può essere tollerata, specialmente da un uomo colto e intelligente come lui. Ma adesso non è di questo che volevo parlare»

«…»

«La cosa che davvero conta, secondo me, è che nella storia di mio fratello e della donna che è scomparsa – pare misteriosamente – io credo di aver visto qualcosa: chiamiamolo un varco, un guado o un ponte che, in un momento di chiaroveggenza, mi ha permesso di attingere a quella corrente di storie disincarnate che, per accedere al mito, devono prima passare dal mondo dei sensi e della carne. A questa corrente ho attinto una storia, anzi la sua fondamentale struttura espressiva che è quella di una tensione tra oggetti lontani nello spazio e nel tempo, una tensione che, a poco a poco, si trasforma nella “radiazione maligna” di cui scriveva Sándor Marai in quell’incantevole libricino di cui ho dimenticato il nome… Un calore che brucia, fa male e al tempo stesso aiuta a vivere. Provai ad avvertirlo. Gli dissi che più aumentava la distanza tra il desiderio e il suo oggetto e più diventava tagliente il filo che lì univa sopra l’abisso: più difficile camminarci sopra. Ma mentre dicevo questo già pensavo a cosa sarebbe potuto accadere se il desiderio avesse incontrato il suo oggetto: la storia, a quel punto, si sarebbe sviluppata in tutt’altra direzione, non più nel senso orizzontale dello spazio che separa due persone, due amanti o due nemici, ma nel senso verticale di una caduta all’inferno… O di un volo verso la libertà! Ho covato questo accenno di storia per tre giorni, l’ho sentita crescere come un figlio dentro di me, mettendo braccia e gambe che prima o poi le permetteranno di andare lontano. E adesso che ho questo dono, questa storia da consegnare a un viaggiatore, eccolo qui di fronte a me, in carne e ossa! Anche lui italiano come lei… Che terribile coincidenza!».

«Ci sono due storie… »

«La seconda mi ha fatto pensare alla prima, quella dello yaksha esiliato nella foresta. Così ho riflettuto su quali immagini avrei potuto offrire alla mia nuvola messaggera per convincerla ad affrontare il viaggio, dunque a vivere la storia che avevo immaginato per lei»

«Ci sono due storie»

«Nella seconda c’è mio fratello che vive da solo in una grande casa coloniale, non lontano da qui. È la casa dove siamo cresciuti. Un tempo era una buona casa – solida e spaziosa, con un’ala riservata alla servitù che non abbiamo mai avuto – e se l’avessimo venduta quando sono morti i nostri genitori avremmo anche guadagnato una bella cifra. Ma Joy ed io abbiamo deciso di lasciarla a nostro fratello senza pretendere la liquidazione della nostra parte: sapevamo che avrebbe fatto questa fine… Sai, ai suoi tempi è stato un ottimo musicista classico. Purtroppo ha abbandonato la musica e i concerti prima che diventasse famoso e facesse carriera. È diventato schiavo delle sue muse, una donna in fila all’altra, tutte attratte dal suo carattere e dal suo destino tragico. L’ultima di queste, quella che è scomparsa senza dire niente, sembra avergli portato via l’ultimo brandello di forza fisica, morale e spirituale che gli rimaneva»

«Lei chi era?»

«Una viaggiatrice come te. Una donna straordinaria… O è così che la descrive mio fratello»

«Che altro?»

«Era molto giovane, anche lei italiana, ma il suo nome non lo ricordo. Viveva in una delle stanze che mio fratello affitta per pagarsi le spese di manutenzione. Conoscendo il suo trascorso sentimentale, posso immaginare che lei non abbia fatto nulla per incoraggiare la sua passione, ma in qualche modo l’ha fatto innamorare»

«Quindi non è la prima volta che succede?»

«No, lui è sempre stato in cerca di una donna verso cui concentrare i suoi sforzi devozionali, creature giovani e inesperte che lui potesse venerare come Dee in carne e ossa. Ma quelle non erano Dee, ti dico, erano maschere che l’amore avrebbe dovuto consumare, facendone cenere tra le dita. Invece mio fratello ha sempre scambiato il mezzo per il fine, e il suo amore, invece di consumare la maschera, invece di disintegrare l’immagine che si frapponeva tra lui e la verità, lo ha reso schiavo di queste illusioni… Donne che l’hanno masticato e risputato a pezzi»

«Ci sono due storie… » dissi di nuovo.

«La seconda inizia con mio fratello ma prosegue senza di lui. Ha fatto qualche tentativo di rintracciarla ma senza ottenere nulla di concreto. In giro nessuno sa niente della viaggiatrice, alla polizia il suo nome non risulta registrato da nessuna parte, in nessuna dogana aerea o terrestre dell’India, e nei luoghi che diceva di frequentare nessuno ha mai sentito pronunciare il suo nome. Sono sicuro che mio fratello non la vedrà mai più in vita sua. Morirà presto, soffocato da un pezzo di pane raffermo mentre insegue da giorni un topo. Lo troveranno dopo settimane grazie all’odore di putrefazione che farà insospettire i vicini, e al suo funerale ci sarò solo io, seduto in disparte come oggi»

«E lei, la viaggiatrice, non saprà mai che lui è morto»

«E che è stata lei a ucciderlo!».

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Stefano Francesco Bernoni
Stefano Francesco Bernoni (Milano, 1991).
A ventisei anni, dopo gli studi di giurisprudenza, si trasferisce in India, nella città sacra di Varanasi, per scrivere “L’ego muore urlando”. Qui, per sei anni, ha lavorato, viaggiato e studiato su centinaia di libri, cercando - in ogni esperienza vissuta, come nelle ore solitarie della scrittura - il linguaggio necessario a cavarsi questa storia di dentro. Infine eccola…
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