In una società divisa tra lavoratori e universitari, i secondi considerati negativamente dalla maggior parte della popolazione, il destino di Anchise sembra segnato fin dalla nascita: sarà un universitario. Nonostante l’impegno profuso dai genitori e dagli amici di famiglia nel fargli cambiare idea, Anchise si trova a seguire il destino che gli è stato assegnato. Ma, una volta entrato nel sistema universitario, si trova a vivere situazioni grottesche, alle quali non sa dare una spiegazione. Ciò nonostante, Anchise raggiunge il vertice della gerarchia: anche in questo caso non ha idea di come ci sia riuscito e, come sempre, sarà costretto a seguire il flusso degli eventi.
PARTE PRIMA – COME DECISI DI INTRAPRENDERE LA CARRIERA UNIVERSITARIA
Uno degli eventi più straordinari della mia ambigua esistenza è la nascita. Mia madre, quando avevo poco più di cinque anni, mi raccontò che appena nato feci una smorfia. La cosa fu reputata assai strana. Di queste smorfie, a parer dell’ostetrica, se ne vedevano molte: era la smorfia di uno di quei romanticoni scansafatiche che vogliono intraprendere la carriera universitaria. La cosa mandò su tutte le furie sia mia madre che l’ostetrica.
«Ma cosa si sarà messo in testa, questo neonato?» chiese mia madre indignata.
«Signora mia, cosa vuole che le dica? Cose del genere capitano tutti i giorni. Andrebbero scartati, signora mia, glielo dico io!» rispose benignamente l’ostetrica, mostrando un bel sorriso affabile.
«Ah! E si può fare?»
«Pare proprio di no. Però, signora mia, magari crescendo… ci ripenserà. Si faccia forza!»
Era ciò che diceva a tutte le madri che si trovavano in questa assurda situazione. Non era mica facile. Io adesso lo capisco bene. Anche se, in tutta sincerità, quando a cinque anni mia madre mi raccontò questo aneddoto, non mi comportai molto bene: scoppiai lacrime.
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La cosa le diede il pretesto di esclamare, riferendosi a mio padre: «Vedi tuo figlio? Si vede che è uno scansafatiche! Non ha mica cambiato idea. Queste sono lacrime universitarie!».
Di “lacrime universitarie” ne versai molte altre. In effetti, non sono mai stato troppo intelligente. Non che non capissi la matematica o robe del genere. È solo che non riuscivo proprio a capire i contesti. Vi faccio un esempio: quando mi portavano in chiesa, non capivo proprio cosa stessi facendo lì. Vedevo questo scalmanato dagli abiti variopinti, mentre blaterava robe incredibili che non riuscivo proprio a cogliere. Avevo paura di fare una brutta figura, così osservavo gli altri intorno a me per capire cosa dovessi fare. Ma a parte l’alzarsi e il sedersi in base alle voglie di quel matto che oltre a blaterare, gesticolava copiosamente (Dio mio! Perché i suoi abiti continuavano a cambiare tutti questi colori?), non riuscivo a cogliere il senso della mia presenza in quel posto.
La maggior parte dei presenti era sempre formata da anziani. Non potevo prendere troppo spunto da loro, così mi toccava sempre cercare con lo sguardo qualche ragazzino come me, nel tentativo di copiare il suo “stile”. Mi sentivo davvero un pesce fuor d’acqua. Ero sicuro che tutti quegli anziani, posando il loro sguardo colmo di esperienza su di me, pensassero robe del tipo “Questo ragazzino non sa proprio stare in piedi in questo posto. I ragazzini come lui dovrebbero piegare il ginocchio destro di quarantacinque gradi e tenere le mani sulle orecchie. Lo sanno tutti!”.
Dio santo! Io non lo sapevo proprio! Bisognava correre ai ripari. Era chiaro che fossero tutti intenti a confabulare tra loro. Non era possibile mostrarmi troppo interessato alle altre persone, quindi osservavo gli altri soltanto a intervalli regolari e senza dare troppo nell’occhio. Inoltre, le parole di quell’orso con la tunica mi colpivano da ogni dove. Non che ne capissi mezza, ma il suono era fastidiosissimo. Non mi permettevano di ragionare.
Un giorno riuscii a identificare un ragazzo un po’ più grande di me, che aveva proprio l’aria di uno che la sapeva lunga. Lo ricordo benissimo, perché per molto tempo lo considerai il mio “maestro di stile”. In effetti, posso dire retroattivamente che fu il mio primo maestro in assoluto. Aveva i capelli biondi, corti e non troppo curati. Occhi castani, pelle chiarissima, ma insomma, chi se ne frega? Il punto era il suo stile: quando bisognava rimanere seduti, si sporgeva in avanti, poggiando gli avambracci sulle ginocchia. Piegava leggermente la testa verso sinistra, mostrando quello che, almeno ai tempi, sembrava uno sternocleidomastoideo incredibilmente villoso. Come è ovvio, non conoscevo la parola “villoso”, figuriamoci “sternocleidomastoideo”. Ma la cosa più importante era il suo viso. Capii grazie a lui, per la prima volta, che in chiesa facesse molto figo mantenere un’espressione corrucciata e pensierosa. Avevo comunque dimostrato a me stesso di disporre di un ottimo intuito: il furbacchione del biondino sapeva proprio il fatto suo, perché notai che piegare la testa aiutasse a mantenere un’espressione seria.
Quando, invece, era richiesto di alzarsi, era fondamentale dimostrarsi indifferenti al cambio di posizione. E non era una cosa troppo facile. Il tuo corpo doveva alzarsi, ma il tuo viso doveva esprimere “Sai che c’è? A me non frega proprio nulla di alzarmi in questo preciso instante, perché ho pensieri troppo profondi che mi ronzano in testa. Potrei alzarmi e sedermi altre cinquanta volte di fila, a me non interessa proprio nulla, anzi. Sai che c’è? Adesso guardo anche verso la vetrata tutta colorata”. Avevo capito, infatti, che era una sorta di “mossa speciale” e tutti, guardandomi, avrebbero detto “Questo qui sa vivere”. Infatti, quando a causa di quei mille colori della vetrata non mi veniva una sorta di crisi epilettica, posso affermare di aver guadagnato una buona dose di rispetto ecclesiastico.
Rimasi soltanto con un unico dubbio, che tuttora mi affligge: il ragazzo era un po’ più grande di me, quindi c’era la possibilità che il mio comportamento non fosse adeguato. A volte mi sentivo come un bambino che passeggia con delle scarpe troppo grandi per il suo piedino minuto, ma quella era una sensazione che riuscivo a tenere a bada. Mi facevo forza pensando che anche gli altri presenti dovessero essere afflitti dalle stesse insicurezze. Per questo motivo, tentavo di dimostrare a tutti i costi il contrario.
Nonostante finissi molte volte per disperarmi, devo ammettere che me la cavavo abbastanza bene. Durante i primi anni della mia infanzia, mi capitava di piangere spesso, praticamente ogni volta che mi ritrovavo in una situazione in cui non riuscivo a capire il mio ruolo. Osservando gli altri, però, riuscivo quasi sempre a dimostrarmi “degno” delle situazioni, o almeno credo. Imitare i comportamenti altrui fu la mia unica via d’uscita. Dopo un po’ di tempo, così, mi abituai a quella costante sensazione, che potrei definire di inadeguatezza rispetto ai contesti. Tranne quando i miei genitori continuavano a parlarmi male dell’università. Quello non riuscivo davvero a capirlo.
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