Nën d’àmmalà!!, diceva mia madre quando uscivo di casa. E in quel nën d’àmmalà c’era qualcosa di oscuro, profetico, minaccioso. Scìscì, rispondevo, ma figuriamoci se pensavo a non ammalarmi, tra trattori, ruspe, sbanchi di terra, partite a pallone, gare a tappi di bottiglie, casette sugli alberi, nei campi, nelle grotte, gamberi al torrente, partite alla tedesca, tennis, biciclette, zombafùossë, pugnette, bombe, bombette, briscola, scopa, tressette, frëcà lë marròcchë, scampagnate, sigarette, campane, nascondino, tuzzulà a lë pòrtë dë nóttë, guardie e ladri con limite di nascondiglio “tutto il paese fìnë a lu bbìvië”… tutta vita, altro che malattie.
Chë ssì fàttë, disse mia madre con tono dolente quando scostata la cannìzza mi vide entrare in casa febbricitante.
Nijëndë, risposi.
Mìttëtë lòchë disgrasiàtë, mi indicò la poltrona sdraio di mia nonna e, tempo di sedermi, titlìk titlìk titlìk titlìk già era arrivata ciabattando a un centimetro dal mio naso e mi fissava ondulando la testa su un collo senza muscoli emettendo un TË SÌ MMALÀAAATË quasi strozzato in una cantilena di bile. Dopo qualche chì sci ‘ccìsë, e dopo aver evocato lë mùortë dë chi t’ha fàttë nàscë e ppàscë, allora partivano le 99 pòzze, pòzza shta cëcàtë lë fìjjë e cchì më l’ha dàtë, pòzza jittà lu sànghë, pòzz’avàjjë, pózz’avè lë bbènë, pòzza jittà lu vëlènë, pòzza calà ‘nu tòcchë, pòzza shcandà, etc…
Insomma, queste erano le operazioni di “primo soccorso”. Poi cominciava la lunga degenza in casa, mentre fuori tutta la vita prorompeva di gioia, gioco, risate. A volte Luciano, Mastroluco o Cico passavano a vedere se ero ancora vivo, ma le giornate da ammalato a Roio erano interminabili e le sere ancora di più: fuori sulle Pappardelle orde di amici giocavano a nascondino mentre noi in casa eravamo in silenzio nel grigio bluastro della televisione a vedere Portobello, la trasmissione più noiosa del mondo, che io non capivo e sono sicuro non capivano neppure i miei nonni e i miei genitori che pur la seguivano con tanta attenzione. Due ore di puntata nell’attesa di sentire parlare quel maledetto pappagallo che alla fine non parlava mai… una frustrazione infinita. E io morivo quando SU ZU KI! SU ZU KI! SU ZU KI! arrivava da fuori il coro che tutti quanti facevano allorchè Cico, che era velocissimo, rimaneva ultimo e poteva fare tana libera tutti al lampione in punta alle Pappardelle lato Calzettara scattando da sotto la panchina annànze a la càse dë za ‘Mmaculàta Lattàndë: Cico aspettava che chi cercava arrivasse vicino a lui per poi uscire fuori improvvisamente e bruciarlo in corsa nel rettilineo… non ce n’era per nessuno.
La febbre non passava… Èmma fà la pënëcëllëjnë, sentii mia madre dire a nonna Lucia ed entrambe si voltarono sincronizzate verso di me.
La pënëcëllëjnë? e che è? sicuramente qualcosa di brutto, pensai, a giudicare dai loro sguardi torvi.
Chë dè la pënëcëllëjnë?, chiesi.
È ‘na mëdecëjnë, rispose mia nonna.
Lë mëdecëjnë së dànnë e së pìjjënë, mìca së fànnë, continuai petulante.
No, chèssa nën zë dà e nën zë pìjjë. Chèssa së fà o të lë fànnë, rispose nonna enigmatica come una sfinge. Al mio sguardo perso, So’ sërìnghë, concluse.
Mia madre intanto con un po’ di gobba prendeva mesta un pentolino, lo riempiva d’acqua e lo metteva sul fuoco.
Sërìnghë? E cche ccàzzë, sùbbëtë lë sërìnghë uaglió, senza mànghë passà a lu mìjëdëchë… èjjalamajèllë nën zë fa ‘ccuscì!, biascicai cupo borbottando agitato come il maiale che ha capito che tocca a lui.
E qquànda më n’avèta fa’ dë sërìnghë?, chiesi incazzato.
Dìjëcë, rispose mia nonna con la calma e il tono rassegnato di chi conosce perfettamente diagnosi, prognosi e terapia.
Pèeeppë! Oi Pèeeppë! Va’ a lu bbàgnë e pìjjë la pënëcëllëjnë dèndrë a lu shtëipë, currë va’. Nonno camminando a modo suo come un vecchio robot, senza sollevare i piedi da terra, praticamente pattinando, andò. Il caso volle che proprio in quel momento in televisione passasse la pubblicità della siringa Pic indolor, “la siringa niente male” e io mi ero incantato a guardare la faccia del bambino della reclàme che da preoccupata diventava addirittura sorridente dopo l’iniezione. Sarà così anche per me? È un segno? Fantasticavo ebete.
Ma la pënëcëllëjnë më la faciàitë ‘nghë la Pìc ìndolor?, chiesi.
Mi ignorarono.
Intanto nonno Peppe era tornato con una scatola piatta e lunga, l’aveva appoggiata sul tavolo e si era rimesso sulla sua poltrona sdraio.
Pèeeppë! Oi Pèeeppë!, di nuovo nonna Lucia riattiva nonno Peppe, Va’ a la càmmërë e pìjjë la cascèttë ca shta dèndrë a lu taratèurë càndë a la fënèshtrë, cùrrë va’. Nonno, che si era appena seduto, ‘Natavòtë, ruggì; poi borbottando si rialzò e andò in camera di malavoglia, e tornò con un qualcosa tra le mani avvolto in un panno che era una canottiera di lana a costine ingiallite. Nonna aprì il panno sul tavolo della cucina, e venne fuori uno strano oggetto, una vecchia scatoletta d’acciaio che sembrava arrivare direttamente dal medioevo. Che sarà mai? Con la rapidità di chi quella scatoletta la conosceva bene, tra lo sferragliare di cinghie metalliche mia nonna sganciò la fibbia della barra che correva lungo il dorso del coperchio, che ribaltandosi divenne manico e trasformò la scatoletta in pentolino. Diabolico. Aperto il coperchio, tirò fuori una piattella tutta bucherellata e poi il corpo panciuto di una siringa di vetro con tacche graduate di colore rosso, uno stantuffo anch’esso di vetro ma satinato e un lungo e grosso ago con attacco in metallo.
Mi sentii svenire.
Uagliò, ch’èta fa’ ‘nghë quèssë?
Fui ancora ignorato.
Mia madre prese siringa, stantuffo e ago e li calò nell’acqua che già bolliva nel pentolino sul fuoco e chiuse la manopola del gas. Poi tornò al tavolo, prese la scatola del medicinale, la girò più volte per cercare la scadenza e poi tirò fuori sfilandola di lato una specie di cartuccera di plastica bianca scricchiolante con inseriti tanti flaconcini tozzi con testina metallica. Ne prese uno e reinfilò la cartucciera all’interno. Tornò ai fuochi e con un colino tirò fuori siringa, ago e stantuffo dall’acqua bollente, li mise in una mappìna pulita e portò tutto sul tavolo. Qui montò il Kalašnikov davanti ai miei occhi terrorizzati: tolse con un coltello la capsula d’alluminio dalla testa della boccetta, infilò l’ago all’interno attraverso il tappino di gomma che la chiudeva e mise la boccetta sottosopra tenendola insieme alla siringa con la mano sinistra e tirando lo stantuffo abilmente con la destra fermandosi ogni tanto a dare schìcchere con le dita e a far tornare un po’ in dentro lo stantuffo per eliminare bolle d’aria. L’operazione durò un paio di minuti circa e quando il liquido fu tutto nella siringa, dopo averla estratta la direzionò al lampadario per meglio vederla premendo leggera sullo stantuffo fino a far zampillare fuori un paio di gocce. Mia nonna intanto aveva poggiato sul tavolo alcol e ovatta.
Si girarono sincronizzate verso di me. Pronti.
Io mi alzai in piedi, andai su e giù e, dopo un paio di “Në lla vòjjë fa’ la sëringhë” senza nessun riscontro da parte loro, chiesi dimesso di poter stringere tra i denti un fazzoletto. Mi diedero un tovagliolo di cotone spesso. Mi calai pantaloni e mutande e mi misi sul divano in silenzio a faccia in giù stringendo il tovagliolo tra i denti. Senza farsi attendere mia madre passò una volta sola dall’alto verso il basso nella parte superiore della chiappa sinistra il batuffolo imbevuto di alcol e partì veloce TTÀC (altro che Pic…). ‘Na curtëllàtë uagliò. Poi cominciò lentamente a spingere dentro la medicina con lo stantuffo nel bruciore che si faceva sempre più forte… màmma mè chë dëlòrë! Ed era solo la prima di dieci.
Per far sì che non si formasse un nodulo, ogni sera dovevo cambiare chiappa, diceva mia madre. Il risultato fu che mi vennero due noduli, uno per chiappa, e dopo qualche giorno non potevo neanche più stare seduto.
Le febbri grazie a Dio se ne andarono prima che finissi il ciclo di punture e potei tornare alla vita. Quando finalmente uscii di casa Nën d’àmmalà!, urlò mia madre sulla soglia. Scìscì, risposi, e richiusa la porta më grattëivë lë pàllë fìnë a la piàzzë.
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