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Io questa poesia… poesia, ma nemmeno ci venga la fantasia di chiamarla poesia, questa goliardata, questo scherzo in forma di parole, l’ho scritto in dieci minuti in un giorno che il lockdown mi costringeva in casa, come tutti. Dopo ore di studio, tra libri di fisica quantistica e mucchi di Winston spente, a un certo punto non reggo più. Non ricordo in particolare cosa o chi mi fa interrompere lo studio, chiudere PC e libro e prorompere in un potente Limortitoi. Ma tant’è.

GENESI

Un giorno mi chiama Elisa. Che io non conoscevo, se non per fama. E mi fa: «Senti, ma sei tu l’autore de Limor titoi? No, perché è geniale (non sono sicuro dell’aggettivo, ma il concetto era quello) e io vorrei che ne facessimo una pubblicazione. La accompagniamo con delle illustrazioni, secondo me viene una figata. Pensa che mia nipote piccola la sa a memoria». Quelle cose che ti arrivano così, dall’Universo senza che mai tu ci abbia sperato.

Io questa poesia… poesia, ma nemmeno ci venga la fantasia di chiamarla poesia, questa goliardata, questo scherzo in forma di parole, l’ho scritto in dieci minuti in un giorno che il lockdown mi costringeva in casa, come tutti. Dopo ore di studio, tra libri di fisica quantistica e mucchi di Winston spente, a un certo punto non reggo più. Non ricordo in particolare cosa o chi mi fa interrompere lo studio, chiudere PC e libro e prorompere in un potente Limortitoi. Ma tant’è. Dopo un quarto d’ora l’arazzo castimatorio è imbastito. Pochissime correzioni, la composizione castimesca è nata compiuta. Delle tre presenti in questo volume è quella meno rivista, rimaneggiata. Ispirata da chissà quale angelica altezza. Poi sono venute le altre due, meno comiche, dove la goliardia lascia spazio alla filosofia della goliardia.

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Io sono uno di quelli che hanno sempre pensato che a salire su un palcoscenico son buoni quasi tutti, basta sapersi divertire. Ma per essere attore (che poi sarebbe il mio mestiere), ci vuole ben altro. Bisogna sceglierlo, farsi scegliere, sceglierlo se non per la vita almeno come ossessione. Per questo, per analogia, non mi sono stati mai tanto simpatici quelli che, convinti di aver qualcosa da dire di interessante, dall’oggi al domani si mettono a scrivere.

Ed ecco che in diretta mi sconfesso. Sto pubblicando. Poesie, poi. Io che ho sempre detto che è una piaga sociale questa della libertà di tutti di sconfinare nel campo dell’arte come se fosse normale. Ecco, io allora non dovrei pubblicare. Allora, per ora, pubblico per scherzo. Che poi, non è che sono 500 pagine, 50 pagine, che sarà mai. Per aver avviato, stimolato, condiviso e promosso questo scherzo ringrazio Elisa Costa, paziente quando io non rispondevo alle sue telefonate, tenace nei momenti vacui di stallo e donna dall’intelligenza meravigliosa. Non è che le sue illustrazioni impreziosiscano i testi, ne sono parte integrante, ne completano e arricchiscono il senso, rendono icona ciò che per mesi, sui gruppi WhatsApp è stato solo un audio, che ha varcato i confini del Salento per viaggiare addirittura nel Nord, perfino alla Svizzera.

Il prof. Mirko Grimaldi mi ha fatto un dono enorme accettando di spendere il suo tempo e il suo sapere per introdurre queste bagatelle scritte da me. Il suo contributo mi onora e lusinga. Confesso qui pubblicamente che io invece di studiare Filosofia, a vent’anni avrei voluto studiare Lettere per fare linguistica. Dunque lo vorrei nelle mie giornate perché mi raccontasse il miracolo del linguaggio, di che cosa è che accade nel cervello in quell’intervallo di tempo compreso fra l’attimo prima, quando una manciata di gruppi neurali prendono luce, e l’attimo dopo, in cui la lingua è lì a raccontare al mondo del mondo. Ringrazio te, che hai acquistato questo libro e so che ne acquisterai molte altre copie per regalarle ai tuoi amici, parenti, affini. Nel caso tu non lo facessi, a maggior ragione, con tutto il mio ardente cuore salentino, ti dedico la poesia che stai per leggere alle prossime pagine: LimorTitoi.

PREFAZIONE

Esterno notte. Piove a dirotto. Trincea della Grande Guerra. Si sente uno sparo di fucile ravvicinato. Sentinella: «Chi va là?». Jacovacci: «Ma che fai, ahò, prima spari e poi dici chi va là?». Sentinella: «È sempre mejo ’n amico morto che ’n nemico vivo! Chi siete?». Jacovacci: «Semo l’anima de li mortacci tua!». Sentinella: «E allora passate!». In questa storica scena del film La grande guerra, Mario Monicelli coglie tutta la forza comunicativa (evocativa) dell’espressione romanesca “mortacci tua!”. Per rimanere in ambiente romanesco, l’imprecazione è stata nel tempo declinata in diversi modi: da li mortacci tua e de tu’ nonno, a li mortacci tua e de tu’ nonno in cariola, sino a li mortacci tua e de tu’ nonno ’n cariola co’ le zampe de fora. Le ultime due imprecazioni sono collegate a periodi in cui le epidemie facevano così tanti morti che i letti a disposizione degli ospedali non potevano contenerli tutti: allora i defunti venivano trasportati e parcheggiati nelle corsie su dei giacigli improvvisati detti “cariole”. Maestro nell’uso letterario de li mortacci è stato Giuseppe Gioacchino Belli, con l’irriverenza che lo contraddistingue; cito solo un esempio in cui il poeta rappresenta la voce di un popolano che impreca contro il Papa Re Leone XII, colpevole di aver proibito il consumo di alcolici all’interno dei locali: “Ne pô ppenzà de ppiú sto Santopadre, pôzzi avé bbene li mortacci sui e cquella santa freggna de su’ madre?” (Non ha nient’altro a cui pensare questo Santo Padre, possano averne bene li mortacci suoi e quella santa fregna di sua madre?) Nell’uso parlato quotidiano la ritroviamo modulata in vari modi e con effetti diversi (dove la forza offensiva perde via via vigore): L’anima de li mortacci tua, L’anima de li mejo mortacci tua, mortacci de Pippo, ecc. Ovviamente l’imprecazione è diffusa in altre regioni: dal veneto va a remengo ti e i to’ morti, che abbreviato diventa ti e i to’ morti (con varianti di pronuncia locali di pura origine fonetica come ti ta morti), al campano chi t’è mmuort con la variante rafforzativa chi t’è stramuort (diffuso poi in area meridionale), al lucano chi t’è murt, chi t’è stramelamurt, al pugliese li murt tuu, per arrivare al nostro salentino li muèrti/morti toi, li muerti toi squagghiati, ecc. In tutte le varietà dialettali, soprattutto quelle centromeridionali, i defunti imprecati possono prendere le sembianze di parenti diversi: madre e padre, sorella, fratello, zio, cugino, sino a esplorare tutte le possibilità parentali. È probabile che l’origine di questa imprecazione si perda nella notte dei tempi, quando, già Homo Sapiens, abbiamo iniziato a interrogarci sul senso della vita e della morte sviluppando i riti funebri. Una volta inventato il culto dei defunti, non potevamo immaginare modo migliore per offenderci se non quello di imprecare contro i parenti a noi più cari che non ci sono più. Benché oggetto di tabù e per secoli punito con pene gravi, il turpiloquio è antico quanto l’uomo e lo ritroviamo ben documentato nell’Epopea di Gilgamesh come nella Bibbia (Ezechiele, 16, 30), così come nella cultura greca e romana; e poi nelle novelle arabe Mille e una notte, in Dante e Boccaccio, nei poeti provenzali, nella tradizione giullaresca medievale e financo nei Fioretti di San Francesco, dove il diavolo viene tenuto a bada con parolacce che sorprendono in bocca a un santo, però di indubbia efficacia espressiva; e gli esempi potrebbero continuare. Secondo il neurologo britannico John Hughlings Jackson: “Colui che per la prima volta ha lanciato all’avversario una parola ingiuriosa invece che una freccia è stato il fondatore della civiltà”. Non possiamo sapere quanta carica ironica contenesse la frase di Jackson, però non è difficile intuire che imprecazioni, parolacce e bestemmie hanno avuto e hanno funzioni sociali di un certo rilievo. In un bel volume di qualche anno fa, L’osceno è sacro, Dario Fo metteva bene in evidenza come attraverso queste manifestazioni linguistiche si possono capire la cultura, i valori, le doti positive e negative di un popolo (pensiamo, solo per fare un esempio, alle iscrizioni pompeiane). Nato per sfogare rabbia, odio, indignazione (o frustrazione), il turpiloquio, con l’evoluzione delle società, ha assunto anche funzioni di tipo retorico: lo sapevano bene il commediografo greco Aristofane o, in modo diverso, il poeta latino Marziale, che lo sfruttavano per raggiungere effetti satirici e di critica della società in cui vivevano. Se Aristofane e Marziale sfruttavano il turpiloquio ottenendo risultati letterari di rilievo, nei giorni nostri la comunicazione politica l’ha utilizzato più che altro per “sintonizzarsi” con l’uomo della strada, per arrivare in modo diretto a chi si sente escluso, vessato dal sistema, agitando le emozioni più profonde e incontrollate. Bossi celebrava il celodurismo e parlava di Berluskaz; Grillo, che di aristofanesco ha ben poco, ha basato la formazione di un movimento sul vaffa… e organizzava i vaffa day: per lui i suoi avversari sono “padri puttanieri che chiagnono e fottono…”. Ma torniamo al punto da cui siamo partiti. In questo godibilissimo libretto, Marco Antonio Romano declina magistralmente, con una verseggiatura bisogna dire ben controllata, tutte le sfumature del salentino li morti toi. Romano sfrutta bene i codici dialetto e italiano giocando, in modo equilibrato, su registri alti e bassi per descrivere tutte le sfumature che questa imprecazione può avere in diversi contesti conversazionali e di vita. L’autore non ha pretese letterarie: è chiaro che lo scopo è goliardico, ma mi pare si tratti di una goliardia che in qualche modo si lega alla tradizione dei goliardi medievali che ci hanno lasciato poesie in latino (i Carmina burana per esempio), scritte e cantate: si tratta di spiriti errabondi, irriverenti e ribelli, ideologicamente indipendenti, che dietro la lente dell’ironia e del sarcasmo ci restituiscono una realtà disincantata, che strappa un sorriso e in qualche caso una amara riflessione. Buona lettura!

Mirko Grimaldi
Centro di Ricerca Interdisciplinare sul Linguaggio
Dipartimento di Studi Umanistici
Università del Salento

IMPRECARE CON STILE (GRAFICO)

Se pensate che “li mortacci tua” sia una espressione da non usare mai, allora abbandonate già la lettura di quello che segue, e anche la visione. Si tratta di una espressione universale, che si presta a numerosissime interpretazioni. Anche noi in Veneto abbiamo il nostro equivalente, che viene tradotto dai veneziani in “i to morti cani” (trad: “i tuoi defunti sono dei cani”). In genere viene usata sempre come insulto, mentre dal Centro al Sud può avere altre valenze. Ma quante informazioni in realtà sono nascoste in questa invocazione? Già, perché di volta in volta questa frase può essere: imprecazione, esortazione, sorpresa, apprezzamento, insulto, scoramento, deprezzamento, critica costruttiva e distruttiva, vezzeggiamento, ecc ecc… tutto dipende dal contesto, dal tono, dalla gestualità. Questo saggio aveva quindi bisogno di un apparato grafico che facesse capire le storie che girano intorno a questa frase. Un disegno pulito, limpido, che contrastasse “il gergo” che per mancanza di informazioni adeguate viene percepito come qualcosa di negativo, sporco. Il disegno di Elisa non si presta a interpretazioni, si staglia limpido, con la sottile ironia di chi non irride ma sorride, come perfetto complemento di un testo rocambolesco che ci spinge a capire quante insidie e meraviglie si nascondono nella lingua parlata dagli umani. Elisa disegna con semplicità, e si sa quanta difficoltà si nasconde nel disegnare concetti complessi senza troppe sbavature, li mortacci sua!

Massimo Giacon
Illustratore e designer
Insegnante presso lo IED di Milano

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Marco Antonio Romano e Elisa Costa
Marco Antonio Romano frequenta il liceo classico e all’ultimo anno entra in pianta stabile in una compagnia teatrale fra le più note del Salento. Ci resta fino al 2012, quando, insieme ad altri colleghi e colleghe, fonda la compagnia della quale è presidente e con la quale ha l’opportunità di portare in scena opere classiche del teatro nazionale.

Elisa Costa, conseguita la maturità classica si trasferisce a Milano per frequentare l’Istituto Europeo di Design e si specializza nel design di etichette per il food & beverage.
Insieme ad Adriana Adamo fonda lo studio LabelDesign e nel 2020 vince il premio Designer dell’Anno per Olio Officina a Milano. Collabora inoltre con case editrici, per cui disegna copertine di libri e riviste.
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