I
Venti anni fa
Contemplava l’orizzonte. Mentre tramontava il sole, le onde si scagliavano l’una contro l’altra.
Qui non c’era. Sospirò: cercare oltre sarebbe stato inutile. Non erano i confini giusti.
Un uomo gli si avvicinò per chiedere da accendere. Victor era estraneo a tutto ciò.
L’uomo rimase, si appoggiò al parapetto della nave e domandò: «Andata o ritorno?».
«Ritorno.»
«Anch’io. Non male il viaggio. Il suo?»
«Come i precedenti» rifletté. «Mia moglie aveva fatto una scommessa: “È impossibile che, su sei miliardi di persone, nessuna abbia ciò che cerchi”.»
«E?»
«Con questo, ho vinto io.»
«Congratulazioni!» scherzò. «Ma, se posso chiedere, che cosa cercava?»
Sorrise deluso: «Un umano non troppo umano».
Quella lunga notte, dopo essere tornato a casa, Victor non riuscì a dormire.
Si alzò dal letto, entrò nello studio, dove erano conservate le sue invenzioni, e barrò dalla gigantesca lavagna l’ultimo Stato in cui aveva sperato. Diede uno sguardo al mappamondo accanto.
Tutto qui?
Aveva da poco visto un film in cui delle macchine intelligenti, ribellatesi ai propri creatori, per proseguire la lotta sfruttavano come fonte di energia miliardi di esseri umani, dormienti e ignari: se solo fosse stato così; se, da eletto, fosse bastato svegliarsi e uscire dalla caverna delle illusioni per raggiungere la verità! Tutto sarebbe stato lì, in un mondo, per quanto terribile, meno dimenticabile, meno contingente di quello reale.
Victor, alla soglia dei cinquant’anni, aveva conosciuto tutto: ogni lettura gli pareva una rilettura, ogni racconto che ascoltava suonava tanto familiare da fargli venire la nausea, ogni emozione, ogni pensiero, ogni azione erano incatenati alla stessa natura. Altre realtà immaginava – e più si discostavano da questa Storia, più le sognava –, visitandole con la mente. La frase che ripeteva più spesso era “Lo so”, e quando qualcuno glielo faceva notare, egli pronunciava un altro, più doloroso “Lo so.” Per qualsiasi domanda aveva una o più risposte, a cui era già tornato e ritornato; ma una domanda, la più importante, era rimasta in sospeso.
Fin da quella spiaggia d’infanzia, sapeva che qualcosa, l’unica inconoscibile con la ragione, gli era sfuggita; una forza che delizia e terrorizza, che subito rimandava alla grandezza universale. Da quel giorno, sapeva che Dio era. Era? Gli egoistici riflessi che l’uomo era riuscito a ricavare non spegnevano, anzi accrescevano il desiderio di comprenderlo nella sua inumanità. Aveva navigato alla ricerca delle sue tracce per una vita – nessun porto sicuro lo accontentava –, ipnotizzato dal blu. E ancora, mancava.
Si guardò attorno. Ebbe un’idea.
E se lo avesse costruito? E se lo avesse… inventato?
La decisione era presa: il giorno seguente avrebbe cominciato, avrebbe infuso nella forma e materia umana l’essenza divina. Uscì dallo studio, tornò a letto e, grazie alla nuova consapevolezza, si addormentò subito.
Ma il giorno seguente, per Victor, l’alba non sarebbe sorta.
Gettò il mappamondo, smantellò le altre creazioni, si mise all’opera. Il primo mese lavorò lucido e concentrato; presto si accorse che la stanza era troppo piccola per contenere materiali, strumenti necessari e la macchina che andava formandosi, così si spostò nel salone; presto dovette affittare un gigantesco appartamento poco distante da lì.
Il terzo mese iniziò a dormire a fatica: il pensiero della sua creatura lo seguiva anche nel sonno. Procedeva a rilento, tardavano i risultati: durante le marce da casa al laboratorio si insidiavano i primi sospetti che qualcuno lo seguisse. Un giorno vide su un manifesto la famosa incisione di un pittore spagnolo, ma non ci badò; soprattutto, cercò di dimenticarne il titolo, impresso tanto nella sua mente quanto sull’opera: El sueño de la razón produce monstruos.
Il quinto mese i pochi sogni fatti vennero sostituiti da ambigue visioni premonitrici, che anticipavano il fulgore dell’invenzione e le grida di felicità di una donna e di un bambino, sicuramente sua moglie e il futuro figlio. Nulla si sarebbe avverato, se non avesse perseverato, ma ormai le energie e il tempo spesi erano troppi per abbandonare, e più proseguiva più aveva bisogno di completare il progetto per giustificarlo: se si fosse fermato, non si sarebbe mai più mosso. Nonostante fosse convinto che un gruppo di nemici lo stava sabotando, continuò.
Il settimo mese Victor era malato. Non importava: portata a termine la missione, avrebbe donato un gallo ad Asclepio; allora, e non prima, si sarebbe riposato. Intanto, la macchina acquisiva vitalità, e Victor la perdeva; una si ingrandiva, l’altro si sminuiva.
Il nono mese terminò l’attesa: ancora una visita e Dio si sarebbe manifestato. Sentì il richiamo, si preparò e fece per uscire. Ma Arianna, sua moglie, che fino a quel momento lo aveva sostenuto e aveva ignorato il futuro – più per amore nei suoi confronti che per mancanza di lungimiranza –, quando fu chiaro che cosa lo aspettava, lo fermò.
«Tuo figlio sta per nascere.»
«Infatti sto andando da lui.»
Trattenne le lacrime. «Puoi ancora salvarti. Puoi ancora salvarti. Devi solo rinunciare a quella macchina.» Rimase in silenzio per un attimo. «Ti prego.»
«Mi dispiace.» Distolse lo sguardo. «Addio, Arianna.»
E uscì.
Nascere, che inconveniente! L’evento più importante della sua vita, il solo su cui non avesse potere. È facile dipendere dal destino, lasciarsi trasportare senza fatica, ma per emanciparsi e scegliere la destinazione giusta bisogna usufruire della libertà, assumersene la responsabilità, avere il controllo di tutto, e il solo mezzo per raggiungere questo obiettivo è la razionalità. Victor conosceva tutto lo scibile umano, era il solo autonomo, nessun uomo lo eguagliava: ecco perché tutti lo perseguitavano!
Nel mezzo di queste labirintiche riflessioni, o farneticanti distrazioni, giunse davanti al portone. Salì all’ultimo piano, entrò nel laboratorio e si perse nei meandri della propria opera.
Ore dopo, la macchina sembrò prendere vita. Victor, al culmine della follia, si gettò ai suoi piedi: «Dio, amico mio, parlami».
Prima che l’inventore potesse ricevere una risposta, e prima che potesse sapere se ne avrebbe ricevuta una, la macchina andò in cortocircuito ed esplose. Quando Victor riprese coscienza, percepì un cumulo di ferraglia che premeva su una gamba e vide le fiamme divampare e consumare il laboratorio. Udì delle sirene avvicinarsi; per lo svenimento non sentì le urla di una donna sconosciuta che portava in braccio il proprio bambino, travolta dalla parete crollata in strada per l’onda d’urto.
E ancora nessun sole, e nessuna luna, nessuna guida che lo salvasse dall’oscurità.
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II
Dieci anni fa
Sono seduto su una panchina, al bordo del cortile della scuola, con la testa bassa, e vedo con la coda dell’occhio che la maestra corre verso di me, di nuovo.
«Jack! Vieni a giocare con i compagni?»
Continuo a fissare il mio foglio: «N-no, no, grazie».
«Sicuro di non voler unirti agli altri? Ti divertirai!»
Scuoto il capo. «Grazie, sul serio. Io… non so divertirmi come fanno loro. Non capisco i giochi, non so mai di cosa parlare…» Sorrido riservato. «Mi sento un po’ un alieno.»
Ride e si siede accanto a me: «Cosa scrivi?».
Mi illumino e alzo la testa. «È la storia delle origini di mio papà: è un inventore geniale, l’eroe della conoscenza, vuole sapere tutto di tutto, ma qualcosa gli sfugge. Per questo non è con me.» Cerco ispirazione nel cielo e recito i sette versi.
Né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto.
«È bello che tu lo pensi. È importante cercare le proprie origini.»
«Lo è. Me l’ha raccontata mia mamma. C’è un’altra parte dopo questa, ma lei non me l’ha mai detta e a me non interessa.» Rileggo l’inizio della prima pagina. «Questa storia sta venendo un capolavoro.»
«Credi che potrebbe piacere ai tuoi compagni?»
Li guardo. «Non lo so.» La guardo. «Perché?»
«Se la leggessimo domani in classe? Così avreste un punto di contatto.»
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