Poi, forse per delle frecciate più o meno consapevoli, forse per influenze oscure anche a me, iniziai… no, meglio tralasciarlo. Lo dico? Non lo so. Lo dico in quattro parole: iniziai a vedermi brutto. Non ci feci caso subito, ma nel tempo, fino ad adesso, divenne una convinzione assodata: ogni mia qualità – lo avevo capito bene dalle valutazioni scolastiche – dipendeva dal giudizio della comunità. Se prima mi credevo non bello, ma una via di mezzo tra un dio e un mostro, presto pensai di sopravvalutarmi, di non essere oggettivo, di avere una visione distorta e non quella d’insieme: la percezione altrui cambiava la mia. Così fui ancora più duro con me stesso e trattai gli altri come io venivo trattato. I docenti dovevano averlo notato, perché mi lodavano sempre più spesso, mi proteggevano sempre più volentieri, anche perché io non mi difendevo mai: può darsi che provassi, oltre alla vergogna, del compiacimento, perché dimostravo la mia capacità di sopportazione (ed ero brutto davvero, lo ammetto).
Tra elementari e medie sorse il dubbio che io prendessi ottimi voti perché ero visto come un soggetto da aiutare, un… perdente. Provavano compassione perché gli sforzi erano superiori ai risultati: giustificavano così l’essere dalla mia parte? Dunque mi apprezzavano per non sentirsi in colpa, i buoni giudizi avevano un secondo fine, non li meritavo davvero, se non perché ero una “vittima”, senza padre, senza fidanzata, senza amici, emaciato e con un sogno irrealizzabile?! Vaffanculo! A loro e alla loro mediocrità. Mi rifiutai di gareggiare con dei mocciosi e venir valutato da degli incompetenti, che non hanno la minima idea di cosa sono capace di creare! Sarei andato dai veri maestri, antichi, imparziali, che mi avrebbero insegnato cos’è la vera grandezza!
E iniziò il serio confronto con la storia della letteratura. I numeri segnati su pezzi di carta non mi interessavano più granché, né le lezioni: troppo frammentate, brevi, superficiali. La scuola veniva dopo la scrittura; nonostante questo, legavo ancora con qualche professore, come Besessenheit, e, nonostante non mi impegnassi troppo, ero piuttosto diligente (mi piaceva essere bravo, purché senza sforzo). Finché non è arrivata Selena, la più intelligente della classe, la più caotica nella vita, la peggiore nelle valutazioni (tanto che in seconda era stata inspiegabilmente bocciata; l’ho scoperto dopo mesi, e non da lei). A volte mancava per giorni senza motivo, altre c’era ma era come se fosse assente. Non dialogava mai con gli insegnanti, e se lo faceva mentiva, anche senza nessun motivo. Quando le chiedevo perché, lei si rifiutava di rispondere, o rispondeva in maniera confusa, incomprensibile – in alcuni casi credo che, come ogni bugiarda, non si accorgesse di mentire. Dopo… dopo quello che è successo tra noi, lei ha ripetuto di nuovo l’anno e ha cambiato scuola. Pensavo fosse stato il meglio, per entrambi, ma l’accaduto aveva lasciato segni indelebili: dimenticavo i compiti (avevo altro da fare), non parlavo più coi professori (non so se lo abbiano notato, perché da allora non mi hanno quasi più rivolto la parola né invitato a partecipare, forse per non forzarmi ad espormi, ma io lo avevo interpretato come un gesto di repulsione, o di timore), per assentarmi mi davo spesso malato, e in effetti lo ero, anche se in un altro senso. Quell’ambiente mi intossicava, deteriorava la mia mente, ogni giorno, tornato da scuola, mi servivano tre o quattro ore per riprendermi. Ero diventato più… caotico. Selena mi aveva contagiato. Stavo diventando ciò che, credevo, avrei sempre odiato.
Eppure, più mi avvicinavo ai suoi comportamenti, più la capivo, più sentivo quel che lei aveva provato: lei credeva che tutto fosse nella propria natura, e quando tentava di cambiare, gli altri erano scettici ed evitavano di aiutarla, anzi, per non ammettere di aver sbagliato a giudicarla male e per farle rispettare quello che ormai sembra essere il suo ruolo, la ostacolavano; le poche volte in cui ricadeva nei vecchi errori bastavano perché tutti la accusassero di volerli ingannare con una trasformazione di facciata, perché usassero casi isolati come prove inconfutabili, e lei se ne convinceva ancora di più; allora, se l’opinione che gli altri avevano di lei rimaneva la stessa a prescindere dalle sue azioni, tanto valeva smettere di sforzarsi. Ma non aveva mai esplicitato questo meccanismo, forse perché non ne era consapevole, forse perché non era compito suo, o forse perché sapeva che nessuno avrebbe capito, che nessuno meritava di conoscere. Se solo fossi stato più comprensivo…! Mi resi conto che anch’io lo pensavo (sospettavo addirittura che mi usasse perché le passassi i compiti), anch’io avevo contribuito a far trionfare la bugia sulla verità, ad abituarla ad introiettare la profezia che, alla fine, si è avverata. Durante i conflitti tra me e lei il mio dolore veniva lenito con cura, mentre il suo disprezzato: tutto il corpo docente era sicuro che Selena era figlia di una situazione difficile, ma anche che lei ci marciava. Persino i miei compagni, preoccupati per me, dicevano che meritavo di meglio! Ci eravamo condannati entrambi, pur a punizioni diverse: quella inflitta da lei veniva considerata un crimine, quella inflitta da me giustizia. E in questo groviglio di delusione, rabbia, amara immedesimazione e senso di colpa, la scuola era il primo e l’ultimo dei miei pensieri.
Dovevo fuggire, dovevo lasciare il liceo. Ma come convincere mia mamma? Bisognava dimostrare che il problema era inevitabile e la soluzione unica: cambiare indirizzo non sarebbe servito, avrei comunque sprecato tempo ed energie; già allora sapevo che non avrei frequentato l’università; il denaro non rappresentava un problema e il solo “lavoro” adatto a me è la scrittura, su questo sarei sempre stato della stessa idea. Una grande preoccupazione era la mia poca praticità: nel giro di sei mesi mi feci insegnare come sopravvivere vivendo da solo; poi cercai una nuova casa in cui abitare, con la certezza che avrei cominciato a pubblicare a breve, per stabilirmi, diventare indipendente e autosufficiente, insomma iniziare – secondo il senso comune – a comportarmi da adulto; infine sottintesi sempre più spesso che non avevo bisogno della scuola. Ma mia mamma aveva molte remore: l’unica che conoscevo era mancavano pochi anni alla fine del liceo ed ero in grado di superarlo; ora capisco che, dal suo punto di vista, mi sarei isolato ancora di più e forse autodistrutto come papà, il modello che seguivo ciecamente e che sarebbe uscito di prigione entro un quinquennio. Mi aveva anche proposto di vedere lo psicologo della scuola. Lo psicologo! Ma sembro davvero così disperato? In breve, rifiutai, e lei rifiutò.
Tuttavia, dopo la terza e la quarta superiore vide gli effetti del mio malessere, che non lamentavo mai, anzi minimizzavo: vide che la mia scrittura stava regredendo e capì che proseguire sarebbe stato persino più distruttivo per me; inoltre, deve essersi sentita in colpa per aver creato, di necessità, il mito di Victor Atelès, e in un momento di debolezza, e dopo che ebbi fatto leva sulla sua indulgenza, cedette e accettò, con mio gran sollievo, un po’ compiaciuta di essere, per una volta, il genitore prediletto, un po’ dispiaciuta di esserlo in un’occasione così avvilente.
Finalmente c’era tempo per apprendere dai maestri, ma i problemi non erano finiti: già dall’inizio del liceo seguivo alla lettera le formule proposte dai manuali, per non sbagliare, e copiavo e ricopiavo i pezzi migliori dei miei libri preferiti, per coglierne l’essenza; non difendevo i miei testi per non peccare di faziosità; ogni tanto diventavo critico e cercavo nei precursori un difetto, per avvicinarli a me, eppure quando un mio pensiero o problema ne ricordava uno altrui mi sentivo sì più capito e sulla giusta strada, ma anche meno speciale, meno originale: sarei stato felice di somigliare ai predecessori, se avessi voluto essere come loro, ma io volevo essere migliore di loro.
Più scavo dentro di me, più memorie vengono a galla, più noto che il rapporto con i mentori di scuola e con quelli di vita si è ripetuto quasi identico: prima venerazione e imitazione, poi impegno marziale nei miei incarichi, infine ribellione e preferenza, rispetto a diventare maestro, a cercare un altro precettore. Non ho mai smesso di essere un allievo, ho solo cambiato idolo. Ma ora che Besessenheit è morto e gli scrittori del passato hanno gettato su di me un’ombra lunga secoli…
«Dio santissimo, hai finito di vomitare tutto il veleno che hai in corpo?»
Spero di sì. Ammetto di essere provato, ma anche svuotato, più leggero. All’improvviso partorisco nuove idee, che si trovavano già dentro di me, sepolte sotto quei ricordi. Le appunto così come mi vengono in mente, disordinate, sconnesse: non sarà un processo lineare. Riguardandole giorni dopo avrei scoperto che alcune erano valide e unite tra loro, altre apparenti e slegate. Comincio ad applicare il metodo ogni volta in cui mi impaurisco, intristisco o arrabbio per la mia poca originalità, e da dentro di me gocciolano, sgorgano, straripano le verità di cui avevo bisogno e su cui si baserà il mio romanzo. In una parola, il tema; con le parole di un altro, l’angoscia dell’influenza.
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