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Fin dall’alba dei tempi, una sola domanda ha agitato la mente di ogni esistenzialista: qual è il significato della vita? Ed è un po’ quello che si chiede il protagonista di questa storia, un pittore di strada che vive in uno scantinato e cerca di tirare avanti come può. Tra una bevuta al pub e una visita a un’esposizione artistica organizzata da sedicenti intenditori, il nostro pittore scruta e analizza quelle che sono le assurde ossessioni artistiche del pubblico odierno, alla costante ricerca di un significato in ogni quadro, in ogni scultura e, perché no, anche in ogni libro.

Ma se l’arte è lo specchio della realtà, e il significato dell’arte viene arbitrariamente assegnato dall’uomo, per non dire inventato, allora anche la realtà è priva di significato?

1. CINQUE TELE 

Sono seduto sul tram che mi sta scortando verso l’ennesima imperdibile beffa o, come è più comune definirla, giornata. 

Mi sono messo negli ultimi posti, quelli con la vista migliore. Anche se, essendo salito dall’ultima porta del tram e non avendolo quindi percorso per tutta la sua lunghezza, mi viene da pensare che io non sia invece seduto in capo a esso. Comunque questi sono pensieri per chi ha di questi pensieri, per chi non li ha… sono seduto in fondo. Durante le prime due fermate non sale nessuno; ci sono io, una rastona e un indiano, che erano in attesa al capolinea insieme a me. Siamo messi vicini, sebbene non adiacenti l’uno all’altro. Alla quarta fermata si siede, aggiustando il culone tra l’ultimo seggiolino in fondo a destra e quello sul quale sono seduto io, un donnone sudamericano che sembra essere stata truccata da un uomo. Un ermafrodito latino, è gentilissima e mi sento al sicuro con lei accanto. Il mio cane viene da lei accarezzato, e un sorriso di quiete lei mi rivolge, uno di quelli della migliore specie. 

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Pochi seggiolini più avanti un tizio è in piedi senza reggersi agli appositi sostegni. Regge in mano un biglietto. Due signore vecchie di circa quarant’anni lo scrutano e stringono le borsette al loro bacino, indietreggiando le setose teste, come due cavalle di fronte a un ostacolo che non vogliono affrontare. Capisco dalla loro reazione che quello in piedi dev’essere un tizio losco. Eppure, dopo aver timbrato il biglietto, compiendo quell’umano gesto, ufficializzato dal luccichio di una lucina verde e da un sonoro plim, il tizio non sembra più così losco, agli occhi dei presenti e delle cavalle. Il tizio si frappone poi tra una ragazza incappucciata e la mia vista, che sta tentando di spogliare la fanciulla di almeno qualche capo. Ma niente da fare. 

Tengo strette le tele dipinte nelle mie mani, sono cinque in tutto. La prima raffigura una donna senza occhi, la seconda un rospo davanti a una mano scheletrica, la terza una donna senza bocca, la quarta una donna senza naso e la quinta una ragazza algida e sorridente (quest’ultima tela, oscenamente banale, mi faceva vergognare al pari di un barbone che acconsenta a che gli si tagli, per questioni di integrazione, la propria stessa barba, ma mi era stata commissionata e avevo finito il whiskey a casa). 

La mia vista allarga l’inquadratura sull’interno del tram e non nota niente se non teste chine e sussultanti, come se stessero tutte cercando di farsi dei pompini. Eccezion fatta per la sudamericana, il tizio losco e un ragazzo ciccionetto con i capelli rossicci e i bermuda neri, tutti e tre guardano fissi davanti a loro. Chissà cosa guardano. Forse si sono già fatti fare un pompino prima di salire sul tram. 

Superata la sesta o già la settima fermata siamo fermi, in arresto a un semaforo rosso. Qualcuno per la noia starnutisce.  

Non appena il semaforo ci lascia andare, il mezzo prende velocità e in un attimo, come di consueto, succede l’irreparabile.  

Il tram, a un’andatura di circa trenta chilometri all’ora, viene assalito da uno scossone, probabilmente indotto da un interstizio di rotaie, che provoca un’entropia degna di un frullatore acceso, pieno e senza coperchio. Le borse delle due decrepite quarantenni volano in aria rovesciando assorbenti, lucidalabbra e grosse penne rosa, la rastona vola in braccio all’indiano, che l’agguanta emettendo un urlo sinistro di guerra, il tizio losco si schianta sul ciccionetto con i bermuda neri, il quale picchia violentemente la testa contro l’obliteratrice, la donna sudamericana non fa una piega, sbatte solo un’anca prima contro l’interno del tram alla sua destra, poi di controbalzo contro la mia di anca, provocandomi l’unico livido che registro in quell’incidente.  

Tutta la scena è ornata da un sottofondo di grida, sferragliare esterno e bestemmie dure. Si contano i danni. C’è chi piange da solo, chi piange abbracciandosi l’un l’altro, chi rantola sul pavimento, chi perde sangue dalla testa, chi dal naso, chi sembra finalmente aver visto la luce o una madonna. C’è anche una ragazza, non la rastona, un’altra, sembra tipo un’universitaria di fuori, che inizia a vomitare. Le porte si aprono. Sbatto gli occhi un po’ di volte prima di rendermi conto che la cervellona di-fuori-città sta sbrattando sulle mie tele, le quali, durante il caos dell’incidente, mi sono volate via dalle mani, aprendosi per terra.  

Dannazione, il grosso del vomito è finito proprio sulla tela della ragazza algida e sorridente, che adesso è ornata di canditi gialli e rossi fluttuanti in un liquido marroncino, che intanto sta invadendo anche tutte le altre tele. Addio whiskey.  

Raccolgo le tele, stringo il guinzaglio del cane nella mano.  

Mi alzo a fatica, la vista mi risulta instabile, come in balia di una ballerina di hula hoop grassa e nuda.  

Sento qualcuno dei passeggeri inneggiare alla legge, alla presunta causa che, tutte unite insieme, le vittime del tram abbracceranno per far valere i diritti conquistati dai loro padri. Risarcimenti. Utopie. Disabilità temporanee.  

Io e la sudamericana ce la svigniamo; la saluto con un: «Ciao bello, alla prossima», e me ne vado a piedi verso la metropolitana, con le tele grondanti di rigurgito tra le mie dita irrigidite. 

Nella stazione sotterranea è pieno di vampiri vestiti da civili. Mi sembrano intrappolati dal buio. Trafficano lenti tra sale interrotte da cancelletti, che tanto mi ricordano la pista dell’ippodromo dove da piccolo sono andato una volta con mio padre. Chissà chi arriverà primo e chi arriverà mai. Timbro simultaneamente il biglietto con altri quattro dragoni al mio fianco e parte la corsa. Si sente il rumore di un treno, ma non si percepisce se stia arrivando dal binario destro (quello che devo prendere) o dal binario sinistro (quello che devo evitare di prendere). Dopo qualche finta di corpo e qualche scoreggia, due di noi, io compreso, scegliamo il lato destro, gli altri tre il lato sinistro. Spariscono, avvolti da un fischio di freni, che tanto fa presagire che sarebbero stati quei tre a prendere la metro per primi. 

Aspetto seduto. Ascolto Buckethead, Pike 78 Track 04 

Dopo di che arriva il treno, ci salgo e arrivo a destinazione.  

Sul treno mi rilasso. Una cicciona si addormenta sulla spalla di una sua amica tettona.  

Risorto dalle tenebre abbasso gli occhiali neri sul naso e mi incammino.  

Arrivato all’indirizzo, giusto, consegno le tele a una ragazza bionda che mi stava aspettando sul portone, indossa un vestito di fiori e ha l’aspetto di un essere più indaffarato di una mosca appena incappata in una ragnatela.  

Sbuffa qualche parola che non capisco a causa dell’assolo di Buckethead, che mi suona ancora nelle orecchie. Non faccio in tempo a spostare la musica che la mosca bionda si libera e se ne va, tra sculettanti fiori viola, rossi e gialli sopra gambi verde-vetro smussato da secoli di mare.  

Avrei voluto spiegarle il motivo per il quale le tele sono sporche di vomito. A dirla tutta ho provato anche a pulirle il meglio possibile, con dei minifazzoletti di plastica idrofoba chiesti in un bar dopo aver preso un caffè. Il risultato non è stato un granché. Non avevano fazzoletti di carta; non li hanno mai o, a me, non li danno mai. 

So che generalmente il lucido fissante conserva intatti i colori contro ogni calamità. Le tele però si sono impregnate anche sul retro e quindi, porca puttana. Non importa, se la vedrà lei, insomma con tutto il da fare che ha, un po’ di vomito non la impensierirà. Infatti se le prende, senza sbattere neanche una delle sue ciglia nere. Troppo indaffarata, neanche lo schifo la turba. 

Il giorno dopo mi manda un messaggio audio, il tono della voce ve lo lascio immaginare.  

«Ehiii… eccomi sono F******a della galleria d’arte di Via M***a. Senti allora mi hanno detto di dirti che le tele non rispondono ai canoni dell’aspettativa della critica interna e della tradizione artistico-culturale della nostra galleria. E inoltre che puzzano…?! Non sono piaciute insomma per farti capire anche a te. Non a me, eeeh. Secondo me sono belle, cioè sei bravo. 

«Mi spiace eeeh… ma il gallerista, il Cavalier P*******o, dice che, primo: non ci si può neanche avvicinare, tanto il puzzo. Acido. 

«Secondo: sono comunque prive di tecnica e di messaggio sia sociale che culturale. Fuori contesto. Asettiche. 

«Però… ha detto che non andavano bene, tranne uuuna!!! Quella commissionata, quella della ragazza sorridente. Va be’ che non abbiamo ricevuto altri disegni oltre al tuo… Però dai… una te l’ha presa, hai visto?! Forte no? Ti ho lasciato la bella notizia alla fine… lo so, sono tremenda hihi…  

«Ti mando allora l’assegno all’indirizzo che mi hai dato. Ah, per evitare misunderstandings, questa tela sarà messa a disposizione di alcune gallerie, tra cui la Galleria P***t J***e T****l A*t e altre in città e forse anche fuori! Forte eh… 

«Ciao allora! Ti scrivo quando puoi tornare a riprenderti le altre. ’Sta settimana non ci siamo. Andiamo a P****i per l’inaugurazione dell’Art P***s Elitiste C*****e perché il Cavalier P******o deve tenere un discorso pazzesco riguardo alcuni disegni di un artista cieco! Ciaooo!» 

Mmmh…, penso, una tela presa… Bah. Whiskey. Whiskey. Whiskey. 

I giorni seguenti aspetto l’assegno, come un paziente terminale è impaziente dell’ignoto.  

Nel frattempo scolo le bottiglie che ho messo da parte. 

Una sera ceno con un amico, e le ultime bottiglie rimaste. 

Esageriamo proprio quella sera, che spasso. Finiamo a vedere quella che, lì per lì, definiamo all’unisono l’alba più schifosa degli ultimi vent’anni, seduti su una ringhiera a lato di un muro di mattoni, con il primo treno che fischia contro palazzi ingombranti e identici a quelli che ci hanno circondato per tutta la serata. Alcuni uccelli passano per il cielo, sembrano indifferenti che il rosa all’orizzonte diventi sempre più grigio, a causa dell’artificiale foschia velenosa che permea immobile, avvolgendo i loro nidi. Fanno il loro lavoro, gli uccelli, niente più che volare senza badare a noi che guardiamo loro. 

Poi arriva l’assegno dopo altri cinque giorni. Altro whiskey, questa volta di buona marca, e altra serata, questa volta una vera bastonata. Niente alba, solo un male fottuto alla testa che, l’indomani, io e il mio amico definiamo il peggiore degli ultimi due mesi. 

Sdraiato sul divano, ricoperto di pelo di cane, fantastico sul vomitare sulle tele, sui tram, sulle portavoce di notizie di notizie di notizie. Mi addormento un mattino verso le diciannove e trenta. Fuori è già buio, sembrano le tre del pomeriggio in metropolitana. 

Mi riprendo completamente soltanto due o tre giorni dopo. Vado al negozio di colori e tele da disegno. Saldo il conto e ne apro un altro, riuscendo a superare la reticenza del proprietario, di gran lunga più diffidente di un agente assicurativo in visita a un acrobata rumeno zoppo.  

Una bottiglia e un pacco di tabacco, poi torno nel posto dove sono solito dormire e disegnare. Faccio un caffè senza troppe aspettative di effetto, se non di gusto, per fumare una sigaretta, che mi giro mentre aspetto che l’acqua faccia quello che può contro una piastra rovente. 

Afferro le tele, svuoto lo zaino con i colori nuovi, mi fiondo giù per cinque scalini e ritorno nella nebbia. 

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Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Giri per la strada con la tua vita ( o con questo libro) in mano. Ti vedi e ti riconosci attimo dopo attimo. Al supermercato, nel cesso di un bar, a presenziare un’asta di mercanti d’Arte. Giri l’angolo ed è tutto lì, come prima, immobile eppure frenetico. Il ritmo è pazzesco, dinamico e pieno di metafore, allegorie geniali e sorprendenti. Un libro da bere tutto d’un fiato.

  2. (proprietario verificato)

    È difficile descrivere ciò che ci piace, tanto, ma non sappiamo perché. E come se risuonasse in noi un colore, forse tanti colori, che riconosciamo ma che non ha/ hanno nomi. Come i bambini, quando non sanno parlare… se fai loro vedere qualcosa di arancione non possono dirti “quello è arancione”, però possono indicarti qualcos’altro di quel colore, quello sì.
    Ecco. Io indico un quadro di Schiele in un museo viennese o un bel murales nel cesso del bagno di un locale pulcioso della provincia rumena. Non cambia niente.
    Forse, a colorare le retine e il cuore solitamente anestetizzato, contribuisce anche la scrittura di questi racconti, tanto affamati di vita: così grezza, così cruda, così ironica, così brillante. Una scrittura in cui le regole servono a poco e le parole diventano solo parole. La punteggiatura crea un ritmo tutto suo, tutto nuovo.
    È arancione anche quello.

  3. Le metafore, dalle più vere alle meno false, la cui fantasia ti proietta a secoliluce dalle circostanze descritte per poi immancabilmente obbligarti, senza obbligarti, a ritornare lì, nel presente; un po’ come fa la vita.

    Ossimori, increduli essi stessi della propria essenza, che esasperano fino a insinuare anche nei più esausti, il dubbio sull’esaustività della verità; un po’ come fa la vita.

    Un disincanto incantato dalla realtà incapace tanto di proseguire quanto di arrestarsi; un po’ come fa la vita.

    Un mescolarsi ed alternarsi di spirito materico e materia spiritica, di densità e rarefazione, che ai più provocherà sgomento mentre ai pochi provocherà sé stessi; un po’ come fa la vita.

    La poesia si confonde con la prosa e il rap, e ci confonde a proposito dell’effettività del bisogno e dell’utilità di “distinguere” – lato sensu; un po’ come fa la vita.

    Una soggettività ammutolita che per far fronte alla propria oggettiva incomunicabilità, non si perde nel non perdersi alcun dettaglio ma insiste nel raccogliere ed assimilare proprio e solo quelli che la illuderanno di non aver compreso e al contempo ricompreso la comprensione altrui; un po’ come fa la vita.

    Un sarcasmo dissacrante e dignitoso, e umile, che rispetta chi di lui è oggetto senza perdere l’occasione di sottolinearne l’inevitabile quanto insufficiente necessarietà; un po’ come fa la vita.

    Tutto questo lascia un senso di cauto benessere, pulizia imperfetta e attento stupore che accompagnerà per sempre chi avrà l’ardire di ricordare senza annotare e di obliare senza rinnegare.

    E ora, quale sarà la prossima mossa?

  4. (proprietario verificato)

    Sean Todenil sorprende con questi racconti di una realtà beffarda in cui i protagonisti reggono meglio l’alcol piuttosto che il genere umano. Avventure visionarie e senza senso, divertenti e spesso dissacranti, raccontate senza filtro e senza vergogna.
    Invidia, rabbia, disdegno, ammirazione, perplessità. Qualcosa proverete, sarà impossibile rimanere indifferenti di fronte a questa opera. E quando uno scrittore riesce a lasciare qualcosa….

  5. Simone De Simone

    (proprietario verificato)

    L’inverno e l’isolamento fanno da culla a quei lettori che non leggono mai. Io sono uno di questi. LineaPunto è uno di quei racconti inclassificabile perché troppo avanti per lettori come Voi, signori, accaniti di novelle bucoliche e piene di saliva. L’unica pecca ti questo libro!? Probabilmente voi.
    Sean Todenil è nato per stupire.
    Grazie Sean.

  6. (proprietario verificato)

    ERRATA CORRIGE
    I racconti sono 6:

    Circo, Cinque tele, Donna e whiskey, Tasche piene, Mille chilometri e The last chance.

  7. (proprietario verificato)

    Una raccolta di 5 storie di quotidiana ordinarietà rese memorabili attraverso la loro insolita narrazione.

    Uno spaccato di verità raccontata attraverso difetti e sbavature dei personaggi, dal busker al maschio alpha, da L***h al cavaliere P*******o, dal pittore alla signora col camice.

    L’autore osserva la realtà in maniera cinica e melanconica e questo libro ci invita, per il tempo della lettura, a immergersi nel mondo senza sovrastrutture, né pregiudizio o pudore.
    Lettura vivamente consigliata.

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Sean Todenil
Sean Todenil nasce in Irlanda, a Moher per l’esattezza.
Si trasferisce presto per strada, a Galway.
Dipinge soggetti ed altre figure, ritrae sagome che si bevono i suoi soldi.
A corto di parole, poi, si mette a scrivere.
Si trasferisce in montagna, sulle Alpi, poi al mare, all’Isola.
Per sbadataggine ritorna in una città, a Milano, nella quale, ad oggi, è dato per disperso.
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