Giacomino Parmì è un professore in pensione di settantaquattro anni, vedovo, abituato a una vita tranquilla nel borgo siciliano di Caccamone. Quando il figlio gli regala un tablet e il nipote “Iunior” lo aiuta ad aprire un profilo social, la sua routine viene stravolta: Giacomino ritrova Maria Sottosanti, una vecchia fiamma d’infanzia emigrata in America. Dopo settimane di scambi online e videochiamate, decide, contro il parere dei figli Luigi e KevinGiovanni, di partire per Rochester e incontrarla. Tra personaggi grotteschi e spaccati di Sicilia che raccontano vite al limite della legalità e stereotipi dell’immaginario comune, si snoda una storia che mescola ironia e amarezza, offrendo uno sguardo pungente su dinamiche familiari, provinciali e universali.
Giacomino Parmì Senior
Il professore Giacomino Parmì era un tipo desueto e non perché fosse lui il problema. Il problema vero consisteva nei tempi dell’eterno momento presente che erano profondamente cambiati. Troppe le informazioni, troppo veloci le azioni del continuo progresso che facevano catalogare il poveretto, al pari di migliaia di altri poveretti che come lui si erano smarriti nella modernità, in quel posto ove l’accezione più idonea era quella di inadeguato al sistema.
“Mala tempora currunt”, avrebbe detto lo stesso, spiegandone le ragioni agli altri che avrebbero apprezzato. Infatti, molte sono le persone che amano sentirsi dire ciò che loro stessi pensano, allontanando così la necessità e il disturbo di doverlo fare personalmente.
Costui era arrivato alla non anziana età di settantaquattro anni passando per tutto ciò che il secolo breve aveva riservato alla sua generazione: i moti rivoluzionari del Sessantotto, la stagione terroristica, i governi andreottiani, fino alla dittatura della Silicon Valley. E lo aveva fatto arrivando alla pensione con una tale calma serafica che poteva essere additato come persona invidiabile. Invidiabile e inadeguato al sistema, dunque.
S’era laureato in Lettere all’Umanistica palermitana e aveva preso cattedra al liceo di Cabrò dopo qualche settimana, quando lo avevano chiamato per una supplenza e lì era rimasto per tutta la vita lavorativa. Il bel posto fisso, insomma, in attesa della bella morte con tanto di parenti piangenti attorno al tabuto di noce, la banda musicale del paese e sepoltura nella tomba di famiglia con la scritta Parmì in marmo.
Tre automobili utilizzò, in oltre quarant’anni di onorato servizio, per percorrere la strada che lo distanziava dal paese collinare di Caccamone, dove era nato, abitava e sarebbe stato sepolto, alla cittadina rivierasca di Cabrò dove, amato dagli studenti e non dai presidi, aveva tenuto lezioni con cipiglio rigoroso quanto benevolo dando la sensazione a tutti di essere lì per caso, preso com’era nell’abitare in un iperuranio tutto suo che già allora lo rendeva diverso da tutti gli altri professori e da tutti gli altri altri.
All’inizio fu una Simca mille, bedda machina, il suo vero amore in termine di mezzi di locomozione e locuzione, amata più della seconda, una Ritmo 75 cv, e della Fiat Punto che fu la sua terza scelta più per compiacere i figli già grandi che per altro. Amò la Simca anche se durò di meno, presa già allora di seconda mano, perché fu la sua prima volta alla guida di un veicolo che non lo avrebbe tradito. Della Ritmo 75 cv si sono perse le tracce da tempo immemore, venduta in dissesto di carrozzeria a un commerciante di Raffadali che già allora votava per un giovanissimo Totò Cuffaro, mentre la Punto esiste ancora e viene utilizzata come auto da strapazzo lavorativo dal figlio Luigi, proprietario dell’unica officina del paese.
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I dirigenti scolastici con lui avevano sbagliato, in buona fede però. Non sopportavano la calma troppo calma del Parmì, la confondevano con una certa superficialità, eppure se avessero guardato oltre il dire, il fare e il vedere, avrebbero capito che egli forgiava futuri uomini che si sarebbero affermati nella vita con onestà e senza sgomitare. A sua immagine e somiglianza li avrebbe creati, egli che non aveva mai prevaricato, utilizzato mezzucci o carte false per accedere a quel posto di lavoro nel mondo dell’istruzione, sacro nel suo pensiero. Dovendola dire tutta, il professore Giacomino Parmì non aveva mai sgomitato per nulla e alle cose che voleva ci era arrivato sempre con tranquillità.
“Tiempu dammi” disse il sorcio alla noce “che ti spurtusu”, ovvero “ Dammi tempo che ti buco”. Era un vecchio detto che il Parmì amava.
Bedda parola la lentezza, perché con calma s’era sposato, con calma aveva fatto due figli e costruito casa nella tranquillità di Caccamone dove, con calma, era rimasto vedovo.
Nella solitudine della sua casa (uno dei figli era sposato mentre l’altro era una testa di minchia), usava andare a pranzo la domenica a casa della sorella, pensionata pure lei, inquietandosi non poco col cognato, pensionato pure lui, nel vedere le innumerevoli trasmissioni sportive che si susseguivano per tutto il dì santo.
Il professore non riusciva a capire il tifo di taluni per una squadra di calcio. Un amore, una fede che rimanevano immutati per tutta la vita e che non trovava eguali, alcuna traccia, negli studi che lui aveva fatto. Eppure di libri e trattati filosofici ne aveva letti. Aveva letto anche le sacre scritture. Nonostante ciò non riusciva a capire questo tipo di entusiasmo, di esaltazione viscerale e religiosa, fosse solo perché era il tipo d’uomo a cui le cose capitavano, non se le cercava, gli addivenivano addosso come saette in un cielo limpido e stanco. Un uomo che la pioggia bagnava e il sole asciugava.
Fosse stato per lui gli stravolgimenti mondiali potevano rimanere benissimo al loro posto, come Catullo nei Carmi poetici che si studiano in seconda liceo e rendono romantici gli studenti dalle turbe umorali e l’apparato riproduttivo in fiamme a ogni piè sospinto. Lui non si accorgeva di nulla, il suo compito era stato quello di istruire alla didattica e alla vita intere generazioni di ragazzi, anno dopo anno, su quei banchi, sugli stessi libri, con gli stessi volti che sarebbero diventati medici, politici, classe dirigente e qualcuno, meno male una minoranza, una sorta di maccagnune pezzo di merda.
Il professore era arrivato alla quiescenza senza posticipi, senza gradoni o leggi che non si capivano, gli toccò di andare e andò via col tempo giusto, senza l’obbligo di vedere l’onta dello smartphone in classe, vero e proprio oltraggio all’intelligenza umana, e assistere all’esiziale decadimento di intere sezioni di persone attente più ai social che alla grammatica italiana.
Si salvò, Giacomino Parmì. Non dovette subire l’affronto di finire su Youtube dopo qualche marachella o scherzo fattogli da studenti indisciplinati che per ridere lo avrebbero ripreso mentre si adirava paonazzo verso chi lo aveva provocato. Fosse rimasto avrebbe capito che la ragione adesso era sempre dei ragazzi mischinieddi, poverini, difesi a oltranza da genitori separati nella vita ma uniti nel bene comune del pargoletto contro quegli insegnanti che si permettevano di redarguirli.
Fosse rimasto, avrebbe magari maturato quell’idea mentecatta che la direzione era quella sbagliata, che nelle ore di lezione era giusto sequestrare il telefonino dei discenti, dei figlioli, dei picciriddi e ridarglielo all’uscita. Fascista? Ciò avrebbe sovvertito coscienze, incitato alla rivolta del pane, issato bandiere quali baluardi della libertà di comunicazione. Fascista, lui? Aveva votato sempre e comunque per la Democrazia Cristiana senza mai chiedere un favore in cambio. Anche comunista aveva votato, quando al suo compare Vincenzo Rabito gli venne per la testa di candidarsi in consiglio comunale con quel partito e prese due voti, il personale e quello del Parmì. Neanche Faccia di luna, la madre del candidato lo aveva votato. Lo confessò dopo otto mesi che il figlio e l’amico, quasi fratello, non si parlavano perché il Rabito aveva dato per sicuro il voto della parente.
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