Alle scuole secondarie di primo grado, grazie a questa sua forza e possanza, fu attore di numerosi casi di bullismo. Il bullismo lo facevano a lui. Dopo il primo approccio e la paura generale per la visione terrificante della fisicità di Piccolo Tony, una volta appurato che si trattava di un coglionazzo, tutti ne approfittavano. Ne approfittavano anche quelli che non erano portati ad approfittarne e bulli non lo erano mai stati, come l’asiatico americano Lee Cusack un tipo che sembrava avere la sindrome di down senza avere la sindrome di down e i cui genitori dal riverente sorriso assai gentile e servile erano i proprietari di un can eat all you di sushi presso la statale che portava a Buffalo.
«Vedi che i libvi ola me li devi poltare tu», disse Lee a Piccolo Tony mettendo uno sguardo da finocchio mafioso. Senza sapere che quello lo avrebbe fatto comunque, tenendo con un dito lo zainetto che Cusak reggeva a fatica sulle spalle.
A salvarlo fu Madelaine, la ragazza delle foto che il professore ben conosceva e che era dai tempi delle elementari che non abbandonava la mano di Antonio. Le si era appiccicata fin da picciridda e da subito lo volle bene meglio di un fratello; alle medie poi, al risveglio della natura, per lui lei diventò meglio di una sorella. Molto meglio. In terza prese per il bavero lo steroideo quindicenne Eliot Kornspan, il figlio di puttana più figlio di puttana degli altri figli di puttana della scuola, e gli disse che se non avesse finito di rompere i coglioni a Piccolo Tony lei l’indomani si sarebbe presentata al suo cospetto col ferro.
Eliot rise alla battuta davanti a tutti e l’indomani si cacò addosso, sempre davanti a tutti, quando Madelaine gli puntò la canna della Smith e Wesson 500 in testa e chiese con garbo cosa ne pensasse dell’ingarbugliata situazione. Ingarbugliata anche perché l’arma era quasi metà del braccio della bambina. Da quel giorno nessuno prese in giro Piccolo Tony ed Eliot Kornspan cambiò scuola, spirdava ogni qual volta vedeva l’ombra di Madaleine aggirarsi nei corridoi della A.L. School di Rochester, Stato di New York, anzi, dopo qualche tempo, si disse che tutta la famiglia era emigrata in Pennsylvania.
«Piccolo Tony lavora? Di cosa si occupa?», chiese il professore.
«Tanti travagghi fa, Piccolo Tony … my joy. He also fallows … segue pure la strada di father Jones. Iddu lo vuole bene come un figghiu».
Piccolo Tony faceva tante cose, molte di queste non erano belle a farsi, una sofferenza davvero, anche se a lui, a dire di sua mamma, non gli pesavano. Il suo primo lavoro era alla Paradise for the enderly house, una casa per anziani turbolenti dell’Ontario, dove la schizofrenia era la normalità, che non la smettevano di essere quelli che erano stati in gioventù nemmeno in fauteuil roulant e ne combinavano di tutti i colori fino a quando esalavano l’ultimo respiro.
Dopo l’ultimo respiro Piccolo Tony, insieme ad un altro assalariato della Paradise, più forte di stomaco degli altri dipendenti, li prendevano, pulivano, facevano la barba nel caso di uomo e la depilazione nel caso di donna, li vestivano per bene e li portavano nella casa del commiato della struttura dove li vegliavano e dove potevano ricevere le visite degli altri ospiti della house.
«È bravo a pulire la merda… gioia mia».
Giacomino Parmì capiva sempre ciò che Mary voleva dire, solo che in talune cose egli vedeva in lei una ingenuità fin troppo primitiva e primordiale. Alla fine era andata via troppo piccola e aveva perso quella furbizia tipica siciliana che aveva lasciato il posto ad una disarmante trasparenza d’animo propria di quei popoli ancora giovani.
Comunque c’era da dire che Piccolo Tony nella struttura non si occupava solo di pulire deretani di anziani che non riuscivano a trattenere lo sfintere scambiando il bisogno di andare in bagno per una scorreggia, né di pulire i cessi con l’idrante, cosa che faceva benissimo con l’ausilio del grande Gatsby un omone bianco latte, scozzese di origine, che si diceva essere il proprietario in incognito della Paradise for the enderly house e che doveva a quell’oceano di merda il cambiamento epocale della sua vita e la propria ricchezza.
Piccolo Tony era diventato il punto di riferimento per tutto ciò che si rendeva necessario in quel posto del tipo sedare risse tra ultra ottantenni gelosi di fidanzate ultra ottantenni oppure servire e fare mangiare il venerdì il muktuk di narvalo, o beluga, impanato e ricco di vitamina C e D che dal punto di vista culinario era uno schifo e i degenti lo sapevano.
Piccolo Tony era anche l’uomo degli abbracci ovvero colui che abbracciava tutti durante le sedute terapeutiche che gli alcolisti anonimi di Rochester facevano il martedì e il giovedì dalle ore 18,00 alle ore 20,00. Già, perché l’uomo che cura la dipsomania alcolica sente l’urgenza di abbracciare il cucciolo che c’è dentro di lui, e dentro ciascuno di noi. Ciò lo rende più forte e motivato ad affrontare la vita là fuori.
All’inizio non era un vero e proprio lavoro, padre Jones se lo era tirato appresso ventenne, avendo a cuore il fatto che il giovane capisse che gli uomini, anche i più derelitti, hanno innata una bontà d’animo che può subire una combustione interna se non riescono ad abbracciare Dio nel giusto modo e se non è Dio almeno qualcuno che riesca ad amarli al posto suo.
Ora, gli a.a. di Rochester in quelle sedute erano soliti abbracciarsi tra di loro per esorcizzare e condividere il male di ciascuno, piangere a dirotto e liberare i propri demoni. Iniziarono ad abbracciare Piccolo Tony per caso, quello non era né alcolista né fumatore e tanto meno uno che si faceva di chimica, si sparse la voce che più di qualsiasi altro avesse quell’aura che li faceva stare bene. Iniziarono a formarsi file enormi di qualsiasi tipo di genere umano e indefinita etnia per avere quel piccolo sollievo. L’organizzazione trovò onesto avvalersi di questo servizio pagando a Piccolo Tony duecentosettantacinque dollari americani la settimana, pensionabile e con regolare contratto depositato alla agenzia delle entrate. Si trattava pur sempre di due ore di assalti e abbracci ripetuti magari con individui che si mettevano in coda per due tre volte di seguito e che avevano l’alito che odorava d’uovo per via delle medicine e dell’astinenza. Molte volte era il bere quello che teneva insieme questo tipo di uomini prima di morire.
Nel contratto era specificato che Piccolo Tony dovesse dispensare i suoi abbracci sanificatori a coloro che erano posseduti dalla dipendenza abietta dell’alcool redarguendoli e gridando cazzate al tono la cui forza era lui a decidere. Sulle prime sembrò una forzatura anche a Piccolo Tony, poi lui stesso si immedesimò talmente nella parte da crederci e considerarla la migliore del contesto.
Nonostante tutti questi impegni, Piccolo Tony trovava il tempo pure per seguire padre Jones nei misteri e nei ministeri della chiesa. Il reverendo era come se per lui avesse un occhio di riguardo e lo aveva preso sotto la sua ala protettiva.
Lo amava giacché lo vedeva forte, intelligente, pio, contemplativo, di gran cuore e traboccante d’amore astratto per qualsiasi cosa l’Onnipotente avesse mandato in terra. Un essere umano senza incertezza nel ringraziare ogni giorno il Padre Eterno per il fatto di esistere e questa fede, data la giovane età, non vacillava come in gran parte degli uomini di chiesa, compreso lui stesso il reverendo padre Jones, quando vedevano venir meno il convincimento che l’omino lassù, nel modo disinvolto che aveva di fare le cose, avesse fatto una minchiata nel creare l’uomo a sua immagine e somiglianza, delegando ai cosiddetti pastori la conduzione di greggi da dove troppe volte usciva fuori l’ingratitudine.
«Gesù, quanti fottuti bastardi falliti del cazzo ci sono!», soleva dire padre Jones in uno di questi momenti ove, deluso e prostrato, spostava la samana di calma ed equilibrio dall’altra parte del campo.
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