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Lo sconosciuto

Lo sconosciuto
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Consegna prevista Giugno 2024
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Hans ha tredici anni quando scopre che suo padre non è un eroe caduto in battaglia. Suo padre vive in Brasile ed è Josef Mengele, il criminale di guerra più ricercato al mondo. Così inizia la sua lacerazione. L’odio per i crimini del padre, non basta a placare il macigno che gli piomba addosso: la responsabilità di poterlo consegnare alla giustizia e il dolore enorme che il solo pensiero di farlo gli provoca. Ruth, invece, non sogna altro che vedere Mengele giustiziato. Vittima dei suoi esperimenti da bambina, vorrebbe poterlo guardare in faccia e chiedergli quali sostanze le ha iniettato. Dall’altra parte dell’Oceano, una ragazza di nome Ines, diventa la domestica di un signore tedesco di nome Klaus Steiger. È Klaus, alias Mengele, che fa conoscere a Ines la musica, l’arte, la letteratura, la bellezza. L’amore. Tre vite inconsapevolmente legate tra loro dal filo di un’anima oscura. Lontane tra loro, almeno fin quando questo precarissimo equilibrio non si spezza.

Perché ho scritto questo libro?

Ho sempre cercato di capire cosa rendesse possibile ad un essere umano sopprime il senso di empatia. Il libro è la mia resa di fronte a questa volontà di comprensione. Ci sono Mengele e i suoi crimini, c’è l’orlo del suo abisso, ma mai l’abisso. Non appena ci si addentra, si risale, per non esserne soffocati. Questo vale per tutti i protagonisti, Mengele compreso. L’eccezione è Ruth, che non solo ha toccato il fondale di quell’abisso, ma deve trovare il modo per risalire in superficie.

ANTEPRIMA NON EDITATA

 

Capitolo 1

Non staccherò gli occhi dal monitor degli arrivi fin quando non vedrò comparire la scritta: San Paolo-Atterrato.
L’uomo che uscirà da quell’aereo, potrebbe essere diventato per me un perfetto sconosciuto. Lo sarà, almeno in parte. Mio marito non è mai stato quel tipo di persona che si confida con gli altri, non si sfoga mai, non ama esprimersi. Segnato dall’enorme macigno delle colpe di suo padre, ha imparato fin dall’adolescenza a convivere con i mostri che tiene dentro. O, perlomeno, a non farli fuoriuscire in nessun modo. Credo l’abbia fatto anche per proteggermi. Con il tempo ho imparato a parlare con lui attraverso gesti e silenzi, a distrarlo dai fantasmi, a fornirgli un rifugio dai sensi di colpa.
Cosa sarà cambiato adesso?
San Paolo-Atterrato.
Mi precipito verso il gate. L’attesa sembra infinita, finché i primi passeggeri escono. Cerco di scorgere il volto di Hans, mi pare escano tutti meno che lui, finché eccolo.
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Camicia blu mare, pantaloni color cammello, una giacca posata sul braccio con eleganza negligente, trascina il trolley con un’aria indaffarata. Lo vedo fermarsi, guardarsi intorno per scorgere il mio viso.
Dopo quattordici giorni, ci troviamo nuovamente l’uno di fronte l’altra. In silenzio, cerco di scorgere nei suoi occhi, se vi è stato un cambiamento nel suo animo.
Spero non sia accorga di questa mia premura. Nel suo sguardo, in effetti, vedo una distesa di amarezza e malinconia. Cerca di celarla, alzando il lato destro della bocca in quello che dovrebbe essere un accenno di sorriso.
Mi metto al volante per dirigerci verso Würzburg. Da Francoforte sul Meno sono circa due ore a mezza di macchina. Ogni tanto cerco di scorgere Hans con la coda dell’occhio.
Guarda fuori dal  finestrino. Stiamo in silenzio, un silenzio non così insolito per noi, ma comunque abbastanza insopportabile, visto il suo profondo turbamento.
Dopo circa due ore di viaggio, mi faccio coraggio.
-Non so cosa ti abbia detto, ma…ti avevano preparato al peggio
Sospira.
-Sì Anna, ma…-tira indietro la testa verso il sedile, sospira nuovamente, questa volta chiudendo gli occhi, come a cercare parole che non riesce a trovare.
Non appena sento lo scatto della serratura, provo un sentimento di sollievo immenso. La nostra casa, le sue pareti giallo ocra, i nostri comodi sofà, il parquet, il camino … finalmente tutto mi sembra riacquisire colore e calore dopo la sua assenza. Ho lavato la casa da cima a fondo ieri, ho cucinato una crostata al cioccolato in vista del suo ritorno. Non appena chiudo la porta, mi bacia, trattenendo la mia testa tra le sue mani per qualche secondo.
Si stravacca sul divano mentre io, senza che lui me lo chieda , vado a preparargli un bagno caldo.
-Hans, il bagno è pronto.
-Vieni anche tu .- Mi chiede.
Mi immergo nell’acqua bollente. Questo calore e questa nudità sembrano essere le condizioni ideali per poter far uscire, finalmente, quello che trattiene. Osservo la sera calare sul parco al di là della grande vetrata proprio accanto alla vasca.
Hans aspira un tiro di sigaretta. Poi, finalmente, senza riuscire a guardarmi, rompe il silenzio.
-Speravo mi dicesse che avesse provato a essere trasferito al fronte…- rimuove la cenere dalla sigaretta, prima di rimetterla in bocca ed emettere un cerchio di fumo nell’aria -invece no .
Il suo tono calmo, freddo, è solo una povera arma di difesa.

-Hans, non dico di capirti. Non credo che io possa capirti. Ma ricordi? L’aveva scritto: “Non chiedermi di giustificarmi. La mia tolleranza ha un limite.”

-Credevo non significasse necessariamente che era lì, perché voleva stare proprio lì.

-Cosa speravi, in fondo? Di trovare un uomo pentito?

– No. La mia speranza non arrivava a tanto, ma speravo di capire.- Respira profondamente, sofferma lo sguardo pensoso su una scia di sapone che fluttua nell’acqua, scostandola negligentemente, poi aggiunge:

-Ma  mi arrendo. Nessuno può capire fino in fondo questa storia.

Capitolo 2

Sabato, 4 Gennaio 1954

Caro papà,

sto bene, anche la mamma sta bene. Tu come stai?

Le feste sono trascorse nel migliore dei modi, come sempre i cugini e gli zii sono venuti a Friburgo e abbiamo fatto un giro nei mercatini di Natale. Ha nevicato molto per quasi tutto il periodo di Dicembre.

Spero anch’io di vederti presto.

Aspetto tue,

Hans.

Questa è solo una delle lettere che scrivevo a mio padre. Cercavo di celare la mia insofferenza e, ora che le rileggo, mi rendo conto che il mio fastidio era evidente.

Avevo sempre saputo che mio padre era morto sul fronte. Mi avevano raccontato di un giovane brillante e coraggioso che si era sacrificato per la Patria. Mi avevano persino raccontato i più minimi dettagli di quella morte.

Mio padre, giovane capitano trentenne della fanteria della Wehrmacht, si sarebbe trovato in una steppa nei pressi di Charkiv, sul fronte orientale, quando una bomba esplose in una delle capanne dell’accampamento.

Mio padre, con lo spirito di sacrificio che gli imponeva la sua missione di medico-soldato, si precipitò nella capanna per estrarre vivi due compagni. E ci riuscì, ma morì per le ferite riportate.

Inutile dire che crebbi nel suo mito. Mi impegnavo a pieno nello studio, per essere brillante come lui. Non appena sentivo anche il minimo cedimento di volontà, subito il suo mito mi faceva rimettere sui libri. Posso dire, senza temere di esagerare, che l’immagine che avevo di mio padre era il mio perché, il mio senso, la mia spinta.

Iniziò tutto con una copertina di Der Spiegel in un giorno qualunque di un Maggio qualunque.

Il volto di un uomo dalle orecchie enormi, gli occhi piccoli, il naso lungo, quasi calvo. A destra un piccolo riquadro che ritraeva l’uomo in gioventù. Quelle immagini

facevano da sfondo a un documento pieno di nomi e numeri e cappeggiato da una firma cerchiata in rosso: Adolf Eichmann era stato catturato in Argentina.

Ne parlavano tutti: a scuola, al bar, in tv, in radio. Solo in casa mia regnava il silenzio. Ben presto capii perché: immediatamente dopo Eichmann, c’era un altro uomo che il mondo bramava di veder processato e impaccato. Mio padre.

Mio padre non faceva parte della Wehrmacht, ma delle SS.

Mio padre non era morto in guerra, era vivo e vegeto e viveva in Sud America.

Mio padre, sì, aveva salvato degli uomini in guerra ed era stato decorato, per questo, con una Croce di Ferro.

Mio padre utilizzava cavie umane per degli esperimenti di eugenetica ad Auschwitz. Si era servito di donne, uomini, vecchi, bambini. Li ammazzava, li sezionava. Ogni giorno tanti testimoni facevano emergere la verità di quell’uomo infernale.

Mio padre, Josef Mengele, era un mostro, ed io, quel mostro, lo vedevo ogni volta che mi guardavo nello specchio.

La fronte particolarmente alta, lo spazio tra gli incisivi … iniziai ad odiare il mio volto. Per molto tempo, infatti, ho evitato con tutte le mie forze gli specchi e qualunque superficie specchiante. Quando inevitabilmente mi toccava guardarmi, venivo soffocato da un senso di colpa tale che le mie palpitazioni parevano soffocarmi, fino a rendermi il volto paonazzo e a far sì che l’unico rumore che sentissi fosse quello del sangue che batteva nelle tempie.

-Sono solo puttanate, Hans. Tuo padre era un brav’uomo. Puttanate della propaganda.- Mi ripeteva mio nonno, non appena si presentava il discorso. In realtà questa era la posizione di tutta la famiglia.

Era un brav’uomo o comunque non sarebbe arrivato agli orrori che gli si attribuivano.

Ma io credevo di più al silenzio di mia madre. Non ho mai avuto il coraggio di chiederle nulla riguardo ad Auschwitz. Solo di recente mi ha detto che il loro matrimonio iniziò a vacillare quando lo andò a trovare lì, nell’estate del ’44. Una puzza orribile -di carne bruciata- che inondava l’aria. Non aveva realizzato pienamente cosa fosse quella puzza, in fondo è qualcosa di così orribile che diventa difficile da immaginare, ma un intuito irresistibile le diceva che l’uomo che aveva sposato nascondeva in sé una natura inquietante, che lei non era riuscita ad afferrare.

Era nato così cattivo o lo era diventato?

Nonostante si fosse distaccata da lui ormai da molto tempo, mi obbligava a rispondere alle sue lettere.

-Rispondigli con la pietà con cui risponderesti a un prigioniero- ed io lo facevo. Presto imparai ad avere, all’occorrenza, un distacco emotivo enorme tra l’azione (scrivere una lettera che sembrasse vagamente amorevole) e il sentimento di rabbia misto a disgusto che provavo nei suoi confronti.

Capitolo tre

San Paolo del Brasile, Venerdì 15 Maggio 1967

Piegare, cucire, spillare, piegare, cucire, spillare, all’infinito fino alla fine dei nostri giorni, con la disperazione di chi fa borse in stoffa per sopravvivere.

Non so fare altro nella vita se non le borse in stoffa.  Non conosco altro che la sopravvivenza, non conosco altro che questo quartiere pieno di polvere e baracche, nella periferia sud di San Paolo. Non conosco molte parole, non ne ho sentite tante, ma conosco il silenzio, soprattutto il mio e quello disperato di mia madre che trascorre interi pomeriggi con me, nel portico di casa a cucire borse, senza aprire mai la bocca se non per emettere, di tanto in tanto, un respiro profondo.

Che altro conosco? Ah sì, dimenticavo … conosco le urla, le botte, le parolacce, quelle di mio padre quando torna casa con addosso un fetore di vino tremendo.

Poi non conosco più niente.

Proprio mentre sono china sul mio lavoro, ecco che sento il rumore di un auto che si ferma. Alzo gli occhi, è il signor Strössel , un mezzo tedesco sulla sessantina che viene sempre qui a comprare delle borse per la moglie e la figlia.

Si ferma di fronte a mia madre con il solito sorriso ebete e le mani posate lungo i fianchi, poi comincia:- Signora Lupe, avrei delle novità per voi.-

Mia madre lo guarda un po’ di traverso, come è solita fare, un po’ come avesse un solo occhio grande e sporgente, e con diffidenza gli chiede : -…e cioè?

-Ci sarebbe un uomo, un mio caro amico che cerca una domestica. È un brav’uomo, mi creda, vive un po’ fuori città, vicino casa mia. Il compenso è di tutto rispetto…230 real al mese… ho pensato a una donna onesta e pulita come lei, spero le faccia piacere..

-La ringrazio, don Pablo- dice mia madre, continuando a cucire, poi aggiunge : – ma io non posso venire, devo stare qui, badare ai ragazzi, può venire mia figlia …

-ma sua figlia, sa…

-Sì- risponde seccata :- cucina, pulisce … sa fare tutto quello che serve in casa.

-Ok, affare fatto allora. Passo a prenderla domani.

Poi scende la sera, una sera fresca, di quelle in cui si può stare sul tetto e dormirci. Sento come se il mio cuore si liberasse in quest’aria serena e in questo cielo, così pieno di stelle.  Sento uno slancio così forte verso l’aria che quasi temo di essere rapita del cielo e iniziare a volare.

Chiudo gli occhi e fantastico. Le urla di mio padre che si lamenta della cena, i miei fratelli pestiferi. Tutto svanisce in quella mia fantasia in cui immagino l’uomo che incontrerò domani. Potrebbe essere un uomo ripugnante, lo so, ma io ho bisogno di sperare di incontrare una persona gentile e amorevole.

Questa fantasia è l’unica che può farmi chiudere gli occhi stanotte.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Valeria Carmen Caputo
Sono nata a Potenza nel 1997 e ho vissuto ad Avigliano fino ai miei diciannove anni. Dopo il diploma al liceo
linguistico, mi sono trasferita a Napoli, dove ho studiato Relazioni Internazionali con un focus sulla lingua e cultura araba. Dopo la laurea triennale, mi sono trasferita per studio a Trieste, città dove attualmente vivo e lavoro.
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