Ho sedici anni e sono stato sbattuto in prima squadra. Una domenica mattina, partita di seconda categoria.
Sono un’ala sinistra veloce, dal dribbling stretto, e mi cura un terzino caparbio, anche lui giovane e veloce. Lo stopper avversario è invece un ragazzone col fisico da nuotatore, che gioca incollato al nostro centravanti e apre in continuazione le braccia per dimostrare la correttezza. Quando gli capita la palla tra i piedi, la tocca rapido di piatto al compagno dietro e si allontana arretrando a passetti veloci. Non è qui per giocare a calcio, ma per non far giocare.
Manca poco alla fine del primo tempo e i tifosi dietro la rete metallica, vicinissimi, mi incitano: “Vai solo, Gianni, vai!”. E allora parto, palla al piede, me la allungo, il mio controllore è un po’ in ritardo e si lancia in scivolata, ma riesco a spostare la palla quell’attimo che basta, mi tocca appena il polpaccio con i tacchetti, riesco però a stare in piedi e mi involo, lungo la fascia ormai libera, indeciso se andare sul fondo per crossare o stringere verso l’area e puntare il libero. In quel momento lo stopper lascia il centravanti per venire a chiudere su di me, lo vedo con la coda dell’occhio, una sagoma che si ingrossa e che mi fa tragicamente rallentare: l’entrata a piedi uniti sulla gamba destra in appoggio cala il sipario.
Poi solo freddo.
Troppo freddo per riconoscerci dentro un dolore.
La guancia sulla terra umida. La palla che rotola da sola sul fondo. Poi mi giro dalla parte del cielo.
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Tibia e perone frantumati. Ma a quell’età si è elastici, ossa comprese: ottimismo profuso dai medici. Passai settimane di notti insonni, bombe antidolorifiche, antibiotici, carrozzine e stampelle, sapendo che sarebbe stata solo una questione di tempo prima di poter tornare. Invece no. A quella gamba mancò da subito un centimetro, e così è rimasta. Non ho più giocato a calcio. Ne ho sofferto. Ne soffro. Forse troppo.
Quel ragazzo, che avrà avuto venticinque anni, non poteva più uscire dal campo. Lo hanno portato via prima che l’ambulanza portasse via me: la preoccupazione per quello che poteva succedere superava quello che era successo.
I calciatori erano fermi, in pantaloncini e tacchetti, improvvisamente indifesi. L’esecuzione dello stopper sull’ala sinistra li coinvolgeva tutti.
La gente fuori, vestita per la domenica a messa, voleva invece fare giustizia. Qualcuno cercava di scavalcare il recinto.
Da bambino mi ero aggrappato migliaia di volte a quel recinto di fil di ferro ricoperto di plastica verde. Inquadravo l’azione dall’intreccio a forma di rombo come fosse l’occhio di una telecamera. E commentavo con il guardialinee, che era il padre di un mio compagno di classe. Lo stesso che aveva tracciato con un trabiccolo cigolante le linee di gesso sul campo, tremule e pendenti a destra. Ho sempre immaginato di farle dritte con una squadra uguale a quelle che usavo per geometria. Però una squadra gigante.
Simona
Sembrava avessi un cuscino sotto la maglietta per una recita, durante la gravidanza. Avevo il corpo flessibile da diciottenne, presi meno di sette chili, la piccola nacque un paio di settimane in anticipo sgusciando fuori come un’anguilla.
E mi ritrovai nella mia stanza, la stessa di sempre, passando direttamente da figlia a madre. Sulla parete di fronte al mio letto era appeso un largo collage di foto con tutti i passaggi della mia breve vita; in alto, sulla mia testa, la grande mensola sulla quale resistevano ammassati i miei peluche. Gli animali della mia infanzia, le presenze vive di una figlia unica. Il granchio Sebastian, sopra tutti, con le chele aperte in un largo abbraccio, tratteneva il mucchio in equilibrio.
Le foto avevo smesso di guardarle da tempo, ma in quei giorni mi ero fissata a cercare somiglianze con mia figlia, e non facevo che contemplare quella in cui avrò avuto un mese di vita e con un pigiama giallo che sembrava una tuta da astronauta mi stavo stirando come al risveglio dal letargo. E avevo cominciato davvero a desiderare il letargo, qualcosa che mi portasse altrove.
Il lettino della bambina era nella camera dei miei, mia madre me la portava solo per allattarla; la tenevo un po’ in braccio, mi sforzavo di provare quel calore, quella soddisfazione di chi ha compiuto l’impresa. Invece non aspettavo altro che il momento di ripassarla a mia madre come una patata bollente. E lei la riprendeva tra le braccia con una cura, un gesto avvolgente che non pensavo potesse appartenerle. Avrei dovuto e voluto impedirglielo, quel gesto spudorato da mamma, ma ero esausta. Con me, e per me, era stata una madre, senza tutte quelle emme che sanno di mucca. Mi aveva allattata solo un mese: per la sua salute e la mia, mi raccontò poi alle elementari. In realtà doveva preservare le sue gloriose tette. Non ricordo coccole, o ninnenanne: diceva di non essere capace di raccontare storie, ed era pure stonata. Non credo nemmeno di essere mai stata chiamata con qualche vezzeggiativo sdolcinato.
Con le medicine però era precisissima e puntuale: un arsenale, quel mobiletto in bagno, degno di un ospedale da campo; altrettanto puntuale era nel controllare le scadenze, per fare pulizia dell’effetto tramontato. Mantenermi in salute fisica era la sua missione di madre: appena individuato il sintomo, proclamava vittoriosa il nome del farmaco. Ricordo di avere avuto parecchie volte l’otite e quelle gocce che scivolavano dentro l’orecchio, dense e fresche, sono state le sue carezze. Mentre i suoi baci erano svelti come piccole spinte, incitamenti, sempre sulla guancia. L’odore che trattengo di lei, nella memoria delle narici, è quello cosmetico e tremendamente sensuale della sua pelle: del viso, delle mani, delle braccia.
Temevo di diventare una madre come lei, eppure ho fatto di tutto per diventare madre. Contro la mia stessa volontà.
Ero con lei quando entrai dal ginecologo. Il primo che vedevo in vita mia. Fisicamente mi ricordava il parroco della zona, e anche la voce era la stessa, quel tono di chi si impone per il tuo bene. Indossavo una delle mie maglie larghe e dei leggings neri: meglio qualcosa di comodo, mi aveva consigliato mia madre. Lei si era invece messa giù da classico erotico: la gonna blu scuro sopra il ginocchio le fasciava il culo e le faceva fare passi brevi e incisivi, sul tacco dieci di un sandalo avvolgente alla caviglia; una caviglia sottile, che ho anch’io. La camicetta di cotone lucido bianco un po’ trasparente, aperta fino al terzo bottone, lasciava intuire il reggiseno minimal e un buon terzo di tetta libero. Il capezzolo era lì, al pelo, pronto a fare cucù.
Ormai mi aspettavo che lei potesse avere una relazione con chiunque, ma a questo ginecologo non sembrava interessare il look fatale di mia madre. Mentre mi spalmava delicatamente il gel sulla pancia di cinque mesi, più fresco e sensuale delle gocce per l’otite, ho pensato che fosse gay, ma quando lo chiesi a mia madre rise come si fa dopo una barzelletta mal riuscita.
In quel pasticcio in bianco e nero sul monitor, il ginecologo indicò le braccine e la testa, che però io non distinguevo, poi arrivò alle parti decisive.
«Ecco qui, l’uretra sembra piccola, e non vedo traccia delle due piccole masse dei testicoli; direi proprio che è una femmina.»
Io starnutii violentemente, facendo ballare Giulia sullo schermo, e inondando il viso del povero dottore di piccole bollicine. Lui non mosse un muscolo della faccia, allungò l’altro braccio verso il rotolo di carta simile a quella che aveva steso sul lettino e, continuando a monitorare il feto, ne strappò un pezzo per asciugarsi il viso. Iniziarono a tremarmi le gambe, un tremore che non potevo controllare, cosa che mi è poi successa alcune volte, dopo un orgasmo. Il dottore alzò l’arma dalla mia pancia tesa e pronunciò con voce importante ma leggermente imbarazzata: «La piccola è sanissima, da quel che si può vedere. Molto bene. Copriamo questa ragazza, e mandiamola a casa a coltivare il suo capolavoro».
Disse così: “Coltivare il suo capolavoro”.
Gianni
Sul cellulare compare il nome del capo dell’agenzia pubblicitaria per la quale lavoro da dodici anni. Rispondo con la solita energia, ma il suo “Ciao Gianni” è diverso. Diverso da quello solito, detto di fretta, che anticipa un lavoro urgente, uno spunto sul quale ragionare. È un saluto lento, a basso volume, contiene già l’addio.
Avrebbe potuto anche tacere le spiegazioni, dispiaciute e irreversibili, indipendenti dalla sua volontà. Ci conosciamo bene e lavoriamo con le parole, che devono dire tutto nel minor spazio possibile. Ma in questo caso non ci sono inviti, suggestioni, la decisa illusione di una campagna pubblicitaria. C’è una condoglianza da consumare.
E dopo un buffo arrivederci spengo il telefono.
La guancia sulla terra umida. La palla che rotola da sola sul fondo. Poi mi giro dalla parte del cielo.
Sto guidando come un automa, testa sulla strada davanti, quando un pallone con gli esagoni bianchissimi salta fuori da un muro di cinta e attraversa la strada rimbalzando dietro il mio parabrezza. Freno lungo per prudenza, un’occhiata allo specchietto, accosto rapido. Scendo, la strada dev’essere leggermente in discesa perché il pallone rotola allontanandosi. Lo rincorro con la scansione sincopata della quale ho smesso di vergognarmi, lo raggiungo, lo tengo tra le mani tre secondi, lo annuso. Quindi lo calcio, con la gamba sana, quella lunga esatta: di collo, con precisione, alto abbastanza da scavalcare il muro.
Le voci sparse dei bambini si compattano in un grido, dentro si riconosce deciso anche quello di una bambina, poi il tonfo robusto del pallone, un tonfo sgranato, il campo dev’essere di terra battuta. Il secondo rimbalzo non arriva, le voci si affievoliscono, la partita riprende. Il fiato torna a servire la causa del gol.
Rientro in macchina con un’antica emozione, sempre la stessa. Le braccia attaccate al volante sono puntellate dalla cartavetra dei brividi e sento la commozione dei vecchi, anche se vecchio non sono. Accendo e riparto, i brividi restano; e alla rotonda so cosa fare.
Da qualche settimana se n’è andata anche Melissa, dopo un fidanzamento di tre anni e una convivenza di sei.
L’ho accompagnata alla porta e lei serissima ha detto: «Sappi che ti amo ancora».
Sappi.
Un verbo che mi ha colpito.
Eppure il nostro rapporto ci aveva annoiati. E non importa chi ha cominciato per primo: la noia è contagiosa. E irreversibile.
Ci eravamo divertiti parecchio, che significa uscire, bere, scopare, quando ognuno dormiva a casa sua. Poi siamo accasati, ma senza sposarci. Io l’ho influenzata dicendole che a due persone che si amano non serve un documento, frase solenne e scontata. Mi attaccavo a quel progressismo degli alternativi che rifiuta le convenzioni a prescindere, e diventa convenzione. Un elevarsi un po’ da polli. In realtà era tutto molto più semplice: non volevo sposare una donna che non amavo abbastanza. Lo sai quando non ami abbastanza. Lo sai se ti fermi a pensarci. O scoprendo che non ci pensi mai.
Avevamo entrambi una vita lavorativa che era anche una sana alternativa alla nostra vita insieme. Il soldo non mancava. Funzionavamo. Anche il sesso era funzionale. Senza che ci tuffassimo uno sull’altra a morsi, e quasi sempre nel nostro letto, ma con quella calibrata attenzione per fare in modo di venire insieme. C’era gentilezza, rispetto, anche in quello. Ma anche una distanza. Come se fossimo fedelissimi collaboratori, bravissimi nel lavoro di squadra, attenti a non alterare gli equilibri. Mancava però quella cosa che ti esalta, e che ti tormenta anche un po’. Ma sì, chiamarlo amore si fa prima. E amare abbastanza in fondo è una cazzata, una formula vuota. Non c’è un livello. Si ama. O non si ama. Il più grande dei sentimenti si sfoglia come una margherita. Mi era rimasto in mano il petalo sbagliato e Melissa lo aveva capito da un po’. Non si è però mai pronti a credere alla fine, se non c’è il triplice fischio.
Quella sera, sul divano lungo, davanti all’appuntamento fisso con Crozza, lei rideva senza divertirsi e io ho fischiato la mia resa.
«Non so più se abbia senso stare ancora insieme!»
Quella è stata l’ultima notte nel nostro matrimoniale (che buffo, per due non sposati!). Abbiamo preso posizioni estreme, da giocatori di fascia, per evitare anche solo di sfiorarci. È successo solo una volta che lei allungandosi ha toccato con il suo piede il mio: si è ritratta rapidamente, come da una scossa.
Io sono rimasto sveglio a occhi chiusi. Ho proiettato un lungo film dove alternavo la tenerezza ruvida della memoria all’eccitante e fragile futuro. Sentivo quando Melissa era sveglia, e percepivo la vibrazione del sonno agitato dai sogni.
La mattina si è alzata prima che partisse la radio. Aveva un’udienza alle nove e alle sette era già davanti alla luce accecante dei faretti che circondano come borchie il grande specchio della camera. Si era prima spogliata e rivestita senza farsi vedere, attenta a restare fuori dalla mia inquadratura, come se non volesse concedermi nemmeno l’ultimo suo nudo. O forse perché quel suo corpo che non volevo più amare era diventato per lei improvvisamente brutto.
Mi si torceva la bocca dello stomaco, la testa sul cuscino pesava tanto che sentivo l’orecchio schiacciarsi e ho dovuto resistere per non balzare dal letto e abbracciarla, dirle che era stato tutto uno scherzo, di stare tranquilla, che era tutto a posto… Ma ho deglutito e mi sono imposto di resistere, lo dovevo anche a lei.
La sua figura illuminata era netta e pallida. Parlava dandomi le spalle, ma ci guardavamo a lampi nel riflesso dello specchio. Si è passata la matita solo intorno all’occhio sinistro, poi le è caduta la mano sul mobiletto dei trucchi, come esausta.
«Noi siamo gli stessi, le nostre aspirazioni e la nostra chimica non sarebbero cambiate per un pezzo di carta» ha detto, lucida e feroce. Del matrimonio mai nato. «Senza contare tutti i casini burocratici e tristi risparmiati, certo, va bene, è tutto giusto, pratico… Ma a te è mancato lo slancio che modifica anche lo sguardo verso l’altro. Non hai dimostrato il coraggio di buttarti. Anche alla cazzo!»
In quel momento ho riconosciuto di essere stato con quella donna perché dovevo amare. Si deve amare, a un certo punto. Ma nel cuore avevo una distrazione. Come se fosse abitato da un fantasma. Il mio allontanarmi era stato un gesto di rispetto, se non proprio di coraggio.
«“Due conviventi”: senti come suona di passaggio, e senza sangue!» ha infierito. Col magone. E io anche, ma soffocato dalla volontà. «Avrei preferito pagare il peso pratico ed emotivo di un divorzio, piuttosto che uno scollamento. Il prezzo scritto già nel preventivo di un rapporto fatto di tranquillo ed elaborato disincanto.»
Melissa è un grande avvocato, e in un ipotetico divorzio me la sarei vista brutta. Lo penso adesso, che posso permettermi un’ironia che in quei momenti mi avrebbe fatto orrore. Momenti in cui ho trovato la forza di farla finita attaccandomi alla sua, di forza. L’idea che lei non fosse capace di reagire, l’immagine di lei sola, in silenzio, in lacrime, mi feriva a tal punto che ho dovuto costruirmi la convinzione che non sarebbe stato così. La mia vigliaccheria per decidere si serviva della sua, da me presunta, forza. Però le sue ultime parole prima dell’uscita di scena sono state troppo appassionate, laceranti, pur nella disamina e sintassi da avvocato con i controcazzi quale era…
Ho balbettato che non potevamo farci niente. Che anche se ripensare al vissuto provoca languore e ripensamenti, la persona che hai di fronte non ti appartiene più. Tempo buono per i ricordi, ma senza futuro.
Ha completato il trucco del viso, nervosamente, mentre masticava le mie parole deboli, disarmanti.
«Se dovesse arrivare un figlio, lo teniamo, ma senza menate» ha continuato con voce sarcastica, ormai piangendo. Era una frase da catenacciari che dicevamo agli altri e a noi stessi. Non succedeva, e non se ne parlava: l’argomento scottava. Io temevo davvero che rimanesse incinta. E sono stato risparmiato.
«Non è che penso che con l’anello al dito sarebbe arrivato anche il figlio, ma… piangere, abbracciarsi,» si è asciugata con il dorso della mano un occhio umido, facendo sbavare l’ombretto «partire, che ne so… Scopare nell’ascensore…. Immersi in una piscina scavalcandoci di notte, insomma, qualcosa che dimostrasse che avevamo il desiderio folle di un bambino, perché avevamo detto al mondo che le nostre vite erano indivisibili! Invece nemmeno una visita, così, di controllo…»
Ero commosso e disperato, capivo cosa diceva, diceva di una giocata istintiva, fuori dallo schema, quella che apre le difese troppo schierate. Ma lei continuava a ragionare su un rapporto che si era consumato, e non su un malinteso, quale era il mio amore per lei. Io ci pensavo a un figlio. Ma non poteva essere lei la madre.
Mi rivedo immobile nel corridoio come un maggiordomo che aspetta di chiudere la porta a chiave. E lei che dice che a trentaquattro anni non sapevo fare altro che scrivere didascalie (così le ha chiamate). Che ero pure zoppo non lo disse. Però in quei puntini di sospensione della sua invettiva lo sguardo sulla mia gamba destra accorciata si è fermato un secondo di troppo. Ma non mi ha ferito.
Davanti all’ascensore, con in mano due borsoni che anticipavano il resto che sarebbe venuta a prendersi quando non c’ero, ha sentenziato: «Gianni, sei senza speranza!».
Un brutto fallo di reazione.
Vedendola scomparire nell’ascensore, ho pensato con tutta l’energia e la convinzione possibile che io di speranza ne avevo, che me la portavo in tasca.
Io, che ho perso la cosa che amavo di più a sedici anni, posso anche permettermi di perdere un lavoro ben retribuito e stupido, e una donna che non ho mai saputo amare.
Claudio Bonafede (proprietario verificato)
Ho letto “Lo spareggio” di Maurizio Baruffaldi.
Mi ha colpito la sua capacità di scrittura fluida, secca, mai troppo compiaciuta. La vicenda ruota intorno agli affetti di una giovane promessa del calcio femminile, per poi, gradualmente, trasformarsi in una sorta di noir. Ma è un pretesto. Baruffaldi decodifica il nostro quotidiano spingendoci a riflettere non tanto sul senso del nostro agire ma piuttosto sui suoi meccanismi istintivi. Non a caso sceglie come chiave interpretativa il gioco del calcio. Istinto e magia.
La narrazione è affidata ai personaggi del romanzo che si raccontano in prima persona. Un meccanismo complesso da sostenere che richiede un impegno da parte del lettore e nasconde al suo interno delle trappole per l’autore. Ogni personaggio aggiunge un pezzo alla storia, operazione nella quale lo scrittore ha dato ottima prova di sé, ma questa continua alternanza, contemporaneamente, sposta anche il ‘genere’: da ‘un romanzo di formazione’ si ha la percezione di passare a una storia d’Amore, da questa a una ‘saga familiare’ per poi finire in un Noir e così via. E forse si può riconoscere in quest’abbondanza un difetto dell’opera. Anche perché Baruffaldi ama mettere in bocca ai personaggi le sue riflessioni, per altro sempre precise, concise e gustose, e questo gioca inevitabilmente a sfavore della differenziazione dei loro caratteri. Si riconosce troppo facilmente il burattinaio che li muove.
Ma, a parte, appunto, queste fragilità dovute alla struttura, che avrebbe richiesto uno sforzo ulteriore e l’assenza di quelle furbizie che avrebbero reso più facilmente appetibili il romanzo al grande pubblico, mi sono ‘bevuto’ questo libro con gusto. Questo scrittore è da seguire. Non è facile in questi tempi trovare autori dotati e capaci, come Baruffaldi, di scrivere in modo denso ma senza fronzoli. C’è sostanza insomma! Così attendo il suo prossimo romanzo sicuro che vorrà puntare sempre più in alto.
C. B. – regista e docente di montaggio cinematografico.
Mario Marini (proprietario verificato)
Ho acquistato questo libro perché mi aveva incuriosito la sinossi e l’anteprima mi aveva preso immediatamente.
La lettura del libro intero ha confermato in pieno quanto avevo pregustato: è stato un piacere lasciarsi coinvolgere nella vicenda di Giulia, Gianni e Simona, tanto che, verso la fine, l’ho centellinato per non terminarlo troppo presto. Scrittura agile, contemporanea e avvincente.MI è piaciuto davvero!
Mario Marini, autore di Lassù in alto, Storia d’altri incerti e di una stria, appena pubblicato.