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Lo stesso cielo

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Consegna prevista Dicembre 2024
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“Torneremo presto a quei tempi lucenti e uguali color acquamarina, alle nostre anime che sapevano di salsedine. E anche se la mia essenza si incrina tornerò, lo giuro. Devo andare adesso, mi sto spegnendo”. È leggendo queste parole sul retro di una vecchia foto che Laura si immerge nei ricordi della sua giovinezza. Nel raccontare a Bianca, sua figlia adottiva, la propria storia, intraprende un viaggio a ritroso nel tempo fino al 1974. La vita della donna si intreccia nel corso degli anni con quella di altri personaggi che, come lei, provano a scappare da un destino già scritto e legato alla malavita del sud Italia. Tra i vizi, le ostentazioni, le manipolazioni, la prevaricazione e la violenza appartenenti a questa realtà, Laura scoprirà la sua vera natura.
Questo libro è un regalo per tutte quelle persone che si sentono sole ad affrontare un mondo che non sempre le accetterà.

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto questo libro perché sentivo di dover parlare dei posti in cui sono cresciuta, tra problematiche e bellezze. Ho immaginato di farlo attraverso gli occhi di una giovane donna, figlia di un malavitoso, costretta a reprimere la sua vera natura e il cui unico desiderio è quello di scegliere liberamente chi amare e come vivere. Tra i miei interessi, infatti, spicca anche la storia che, inevitabilmente, influenza il risultato presente di ogni essere umano ed ogni paese.

ANTEPRIMA NON EDITATA

PROLOGO

“Torneremo presto a quei tempi

lucenti e uguali color acquamarina

Alle nostre anime che sapevano di salsedine.

E anche se la mia essenza si incrina tornerò

lo giuro.

Devo andare adesso

mi sto spegnendo”.

Poche righe sbiadite sul retro di una vecchia foto ritraente dei ragazzi dai volti felici, convinti che forse potevano davvero essere immortali.

Era sempre stata molto curiosa, il caso volle che proprio in quel giorno che profumava d’autunno, rovistando fra vecchi documenti, trovasse quello scatto. Era piombata a casa mia così, senza preavviso. Quando era tornata dai suoi innumerevoli e misteriosi viaggi?

«Questa foto, eccola qua. È questa, giusto?». Mi chiese, analizzandola con minuzia forense.

«Dove eravate?». Proseguì.

«Adesso ho capito. Vorresti cercarlo? Ci hai già provato?». Le chiesi, cercando vecchi album di fotografie e qualche lettera che potesse tornarle utile.

Il suo sguardo, intanto, divorava i volti di ciascuna di quelle persone coi loro abiti e quei grossi occhiali da sole, posati sul naso giusto per fare un po’ di scena.

Presi fra le mani quell’immagine leggendo le parole sul retro, in silenzio. I ricordi cominciarono a muoversi insieme ai miei respiri, come materia viva. Solo per un istante mi sentii di nuovo su quella barca. Le porsi la foto, cercando di trattenere le lacrime. Mi ero quasi dimenticata com’era essere così spensierati.
Si sedette a tavola, dopo essersi preparata del caffè. Continuava a stringere quell’immagine fra le dita.

«Non proprio. Insomma, non lo so. Non so nemmeno chi è». Mi rispose.

«Qui ci siamo proprio tutti». Dissi, sorridendole. Mi sedetti sulla poltrona. Mi seguì.

«Fu proprio una bella giornata. Sì, vedi…c’è anche lei, proprio qui». Le dissi anticipando la sua domanda. All’improvviso, i suoi occhi si adombrarono. Con tatto, compresi che non avesse più molta voglia di fare altre domande e decisi di evidenziare con dolcezza quanto si somigliassero con la punta dell’indice. Ripercorrere quelle strade mi dava le vertigini. Ogni volta.

Quasi sentivo sotto la pelle il suo stato d’animo, la voglia di divorare il mio passato ed entrarci dentro per conoscere un po’ sé stessa. Aveva dei fili di dolore aggrovigliati in testa, di cui non mi aveva mai parlato. Semplicemente, li percepivo. Lo sapevo. I suoi occhi erano sempre stati una carta scoperta.

Non aveva mai concesso alla sua anima di urlare, di arrabbiarsi per quella costante sensazione di vuoto nel petto, e fu così che col passare degli anni smise anche di guardarsi allo specchio, non trovando alcuna traccia di sé in nessuno. Il suo sguardo era concentrato su quella foto.

«Bianca, sono felice che tu sia tornata qui, da noi». Le dissi commossa.

«Solo qui posso tornare, in fondo». Rispose freddamente, poi aggiunse: «Non fraintendermi, vi ho sempre voluto bene, ma…».

«No, ho capito. Adesso sei pronta». Le dissi.

Annuì col capo, poi aggiunse: «Non andrò da nessuna parte stavolta».

Qualcosa mi portava a crederle, nonostante tutte le fughe del passato. Aveva un’altra luce, mi chiesi cosa fosse scattato in lei, ma in quel momento non importava. Era finalmente pronta a sentire quella storia, che era anche la sua.

Occorreva andare molto indietro nel tempo, nel periodo del benessere, della nuova musica, della libertà, delle ribellioni.

Scrissi quella poesia, se così si può definire, pochi giorni prima di scappare da un posto ormai diventato soffocante, e la portai con me, soprattutto per la foto su cui era stata scritta e che rappresentava il mio vecchio mondo.

Prima di tutto questo, però, c’era ancora molto da raccontare. Fu in questo modo che cominciai a trascinare Bianca fra quei meandri intrecciati che erano i miei ricordi. Alcuni annebbiati, altri invece continuavano ad esistere nitidamente dentro me.

CAPITOLO 1

Altrove

Da piccola trascorrevo gli afosi pomeriggi estivi a guardare quella distesa azzurra e gli scogli in lontananza che si trovavano proprio a Vietri sul mare. Vivevo in una grande villa immersa nella natura, quasi abbracciata dal monte Falerio che accoglieva un rettangolo fra mare e terra, ricco di leggende che vedevano come protagoniste numerose storie sui pirati: Albori. Io adoravo soprattutto la storia dei Due Fratelli, era la mia preferita.

Due pastorelli che portavano il gregge al pascolo, ad un certo punto, videro una povera fanciulla che si trovava in mare proprio nel momento in cui stava per scatenarsi una terribile tempesta che travolse la giovane fino a farla quasi affogare. I due fratelli, spinti dall’umanità e dalla devozione per quella bellissima ragazza, decisero di gettarsi in acqua per salvarla. I loro sforzi non furono vani, ma morirono sommersi dalle onde. La fanciulla ne uscì incolume ma, resasi conto del sacrificio dei due pastorelli, implorò suo padre Poseidone di riportarli in vita, di fare qualsiasi cosa fosse nelle sue forze per riscattare la loro memoria. Il dio del mare accolse le suppliche della figlia ed eresse, proprio nel punto in cui si trovavano i loro corpi, due scogli che sarebbero stati l’uno accanto all’altro per sempre.

I miei genitori me la raccontavano ogni volta che andavamo in spiaggia. Non la dimenticai più. Io stessa cominciai a parlarne sempre con Giulia durante i nostri infiniti pomeriggi di giochi e storie.
Ci chiedevamo se davvero qualcuno avesse fatto una cosa simile, e se gli dèi esistessero veramente.

Quando eravamo stanche ci stendevamo sull’erba sottile o accanto ad uno stagno a guardare le rane. C’era serenità, soprattutto al tramonto, quando mio padre tornava a casa sorridente ed eravamo impazienti di cenare tutti insieme. Ci parlava dei suoi lunghi viaggi in giro per il mondo. Era sempre molto preso dal suo lavoro, ma avevo la sensazione che si incastrasse tutto in modo perfetto.
Forse, però, è questa la malinconia, è proprio con questo velo di impalpabile ed inverosimile felicità che si maschera la realtà. Non riuscivo a dare un nome a quella sensazione.

Erano i primi anni ‘60 in un sud che sembrava stare meglio, ma era un po’ problematico e divenne famoso per le tante persone spinte dalla situazione precaria a spostarsi al nord, o all’estero.
Noi per fortuna non avevamo quei problemi. Stavamo bene grazie a papà, che lavorava tantissimo. Quando tornava a casa, ricordava a mamma che era grazie a lui se faceva tornare i conti a tutti e che non doveva lamentarsene. Era spesso assente, ma continuavo a vederlo come una figura fondamentale, sapevo che ci voleva bene e che non ci avrebbe mai fatto mancare nulla. Mia madre a volte parlava di lui in modo nervoso, ma rassegnato. Ci aveva fatto l’abitudine, a questo e a tante altre cose, diceva.

Quando uscivamo era come una festa, io e Giulia indossavamo degli abiti molto eleganti, forse anche troppo. Venivamo presentate come le principesse di casa a tanta gente che sembrava così distinta!

«Laura, non ci parlare con quei signori. Sono noiosi come una partita di pallone. Vai a giocare tu che puoi, che è meglio. Vai con Enza». Mi diceva sempre mamma.

Preferiva farmi stare con la nostra governante e Giulia per giocare o colorare. Non voleva farmi mai parlare con i grandi. Ripeteva, scherzando, che non c’era proprio niente di bello nell’essere adulti, anzi, si diventava solo più noiosi proprio come il signor Adinolfi, che ormai parlava solo di politica e di chiesa con la moglie che si fingeva sorda già da quindici anni. In realtà, non ero convinta che fosse davvero così, ma a mamma piaceva scherzare e prendere in giro tutti gli amici o i colleghi di papà. Non li vedeva di buon occhio e si divertiva a raccontarmi quelle cose. Io la vedevo così serena in quei momenti che cominciai a darle sempre più corda.

Ricordo questo periodo della mia vita come un luminoso sole caldo. La crescita, però, viene sempre accompagnata da una maggiore consapevolezza.

Il sole scomparve. Papà non fece più ritorno a casa. Io e Giulia eravamo stanche di giocare, era stanca di guardare il mare. Non voleva più ascoltare le mie storie. Mia madre dormiva su un divano stringendo fra le mani una bottiglia. Avevo la sensazione che si fosse persa da qualche parte, e che in realtà fosse sempre stata infelice. A farmelo capire erano i suoi sguardi spenti che ogni tanto cercava di mascherare con un sorriso. Un pomeriggio riprese in mano il suo vecchio pianoforte.

«Sentite? È Mozart… Quando ero piccola mi piaceva tanto suonare, mi sarebbe piaciuto diventare come la Haskil. Cominciai fin da piccola, anche se poi, ci voleva tanto studio, anche molti soldi…e poi, niente». Il suo sguardo, solo per un attimo, si fece sereno. Calò il silenzio, non sapevamo se chiederle o meno qualcosa. Temevamo avrebbe avuto una delle sue crisi di pianto.

Si alzò per versarsi qualcosa da bere, senza nemmeno lasciare spazio alla nostra fantasia per immaginarla felice almeno per qualche attimo.

Un giorno, all’improvviso, andammo via da quel bellissimo posto. Mamma aveva abbandonato dietro sé una scia di porcellane ridotte in mille pezzi. Ci trasferimmo in un piccolo palazzo a Vietri sul mare.

Sono abbastanza convinta che, in quel periodo, mia madre fosse stata additata come la folle del paese. Ci lasciava in spiaggia o sotto la pioggia nelle ore più disparate, e preferiva dedicare tutto il suo tempo a bottiglie di gin. Aveva cominciato a adottare un comportamento molto sfacciato e disinteressato nei confronti delle persone. Sentivo gli occhi di tutti incollati addosso. Sembravano pronti ad analizzare o a condannare ogni dettaglio, dai vestiti, alle cose che compravamo e anche a quel che mangiavamo. Sia io che Giulia cominciammo a fare molta attenzione ai nostri comportamenti o alle parole da usare con gli sconosciuti.

Una notte, qualcuno irruppe in casa. Avevo il cuore in gola. Cominciai a camminare con passo felpato per capire di chi si trattasse. C’era una luce fioca proveniente dal salottino. Seduto su quel divano polveroso vidi finalmente il mio papà. Era in compagnia di un signore anziano e, seduta accanto a lui, mia madre. Non riuscivo a sentire bene cosa stessero dicendo, ma quell’uomo insisteva col dire che non potevano fare in quel modo e che dovevano tornare a vivere insieme perché così doveva andare. Mia madre scuoteva nervosamente la testa e mio padre, invece, non la guardava nemmeno. Non seppi mai la ragione di quella separazione ma, alla fine, grazie a quel tipo un po’ in carne e dai capelli grigi, tutto sembrò tornare al suo posto.

Sentii una felicità tormentosa dentro me, speravo che il sole tornasse ma al tempo stesso sapevo bene che nulla sarebbe stato come prima.

Ci trasferimmo nei dintorni di Salerno, in una villetta fra le montagne. I miei volevano stare lontani dalla città. A mamma innervosivano i rumori forti e papà diceva che l’avrebbe assecondata solo perché non la reggeva più, e poi anche per lui sarebbe stato più tranquillo. La casa era grande e l’unica cosa che lo rendeva felice era la possibilità di non doverla vedere tutti i santi giorni.

Io e Giulia lo avevamo capito fin troppo bene che non si sopportavano più, anche se a tavola continuavano a parlarsi e a dirsi smancerie.  Nemmeno noi figlie ne valevamo la pena. L’unico motivo era la reputazione. La gente parlava e questo non piaceva né a mia madre né a mio padre. Eravamo una famiglia importante e ben vista, tutti ci conoscevano. Le persone salutavano me e mia sorella con un certo riguardo e uno strano e inspiegabile bagliore.

2024-04-16

Evento

Bar Verdi caffè letterario Sono felice di annunciarvi che il giorno 16 aprile si terrà la prima presentazione del romanzo! Quest' opera sta diventando realtà solo grazie a voi e alla forza che mi date ogni giorno!

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Daniela Marrazzo
Sono Daniela e vivo a Nocera Inferiore, città in provincia di Salerno in cui sono tornata da pochissimo tempo. Mi sono trasferita all’estero per diversi anni, specializzandomi in Filologia moderna all’Università di Santiago de Compostela. Tale esperienza, che mi ha allontanata dai miei luoghi d’infanzia, mi ha spinta a voler raccontare proprio di questi ultimi e ad immaginare come potevano essere stati in un tempo che non ho mai vissuto. Ho diversi interessi, amo ogni forma d’arte. Non ricordo quando ho cominciato a sviluppare la grande passione per la scrittura. Indubbiamente, mi ha sempre accompagnata, portandomi a vincere per due volte consecutive (nel 2014 e nel 2015) il premio letterario Albatros. Attualmente aspiro a proseguire il mio percorso di scrittrice e ad aprirmi porte nell’ambito dell’editoria e della sceneggiatura. Lo stesso cielo è il mio romanzo d'esordio.
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