Oscar e Dado
Il portone del palazzo si spalancò e ne uscirono Oscar e Dado. Dado era un ragazzo sui venticinque anni e indossava un giubbotto che aveva conosciuto tempi migliori. I suoi tratti distintivi erano i capelli arruffati, una sciarpa rossa arrotolata intorno al collo senza grazia, l’incedere dinoccolato e l’espressione eternamente scontenta. Oscar era il suo cane, un cagnoletto tendente alla pinguedine, bianco, chiazzato di nero, che incrociava nel suo sangue tante razze diverse. L’animale gli trotterellava al fianco e dal modo di saltellare, dalla maniera in cui alzava la testa per guardare il suo padrone e persino dall’espressione del muso dava l’impressione di essere soddisfatto e contento di quel momento di libertà, fuori dall’appartamento in cui stava rinchiuso tutto il giorno.
Dado era un balordo di periferia, che viveva spacciando e barcamenandosi con piccoli espedienti: qualche furtarello qua e là, un treno di gomme nuove da piazzare, cose così. La polizia lo conosceva, ma l’unica volta che era finito dentro era stato quando non c’entrava niente: era scoppiata una rissa ai giardinetti per alcune dosi di droga non pagate e lui aveva cercato di separare i due che si menavano, entrambi suoi amici. In quel momento era arrivata la polizia e l’aveva portato dentro, senza dar ascolto alle sue proteste. Aveva dormito una notte in cella e al mattino l’avevano lasciato andare.
Il cane era parte dell’eredità che gli aveva lasciato sua madre, morta due mesi prima. E che eredità! Duecento euro nel pentolino del latte, dov’era solita nascondere lei i soldi per paura dei ladri, l’affitto da pagare tutti i mesi e quel cane scemo. Poteva vivere ancora un po’, aveva pensato più volte fra sé Dado, almeno c’era la sua pensione. Ottocento euro, non tanto, ma erano sicuri. E poi chissà perché le era venuto in mente di prendersi quel cane… Era andata al canile e lo aveva scelto. Lo aveva scelto! Fra tutti i cani che poteva portarsi a casa, aveva voluto proprio quello! Chissà com’erano gli altri, sghignazzò Dado. Ma poi si rabbuiò di nuovo. Che palle portarlo fuori tutte le mattine e tutte le sere. Aveva da fare lui e mica poteva star dietro alle pisciate di quell’animale. Prima o poi l’avrebbe portato al parco e ce l’avrebbe lasciato. Ma forse era meglio farsi prestare la macchina dal Bestia e portarlo sulla tangenziale, perché aveva sentito che a volte i cani ritrovano la strada di casa e se lui lo mollava vicino a casa, al parco, poi non aveva proprio voglia di ritrovarselo davanti alla porta.
Oscar invece era contento. Restava tutto il giorno in quell’angusto appartamento, sempre da solo, perché il suo padrone stava fuori. Prima viveva meglio, quando c’era la signora che l’aveva preso dal canile, ma poi lei era sparita ed era rimasto il ragazzo a prendersi cura di lui. Era meno espansivo, non gli faceva mai carezze, anzi era meglio girargli al largo per non ricevere qualche pedata, ma comunque era il suo padrone.
Adesso Oscar era contento, perché stava fuori all’aria aperta ed era libero. Il padrone non gli metteva mai il guinzaglio e quindi lui poteva scorrazzare dove voleva. Era dunque più fortunato degli altri cani, che invece dovevano stare attaccati al padrone.
Oscar trotterellava soddisfatto e intanto cercava il punto adatto. Lo individuò al centro del marciapiede. Si fermò, si accucciò e lasciò il suo ricordo solido. Il padrone intanto continuò a camminare e allora Oscar si affrettò a finire l’operazione. Quindi si mise a camminare velocemente per raggiungere il padrone, ma poi si fermò un attimo e guardò quello che aveva lasciato. Tornò indietro e con la zampa cercò di grattare l’asfalto per coprire il suo lascito, visto che il padrone non si sognava mai di raccoglierlo e buttarlo via, come aveva visto invece fare dagli altri. Riprese a trotterellare e raggiunse l’uomo, che intanto si era seduto su una panchina. Si fermò a guardarlo, ma Dado, che intanto aveva iniziato a fumare, gli disse: «Che cosa stai a fare lì fermo? Cerca di muoverti, che tra poco torniamo a casa. Se devi pisciare, vedi di farlo in fretta».
Oscar si mosse e fece il giro della panchina. Trovò un bastoncino di legno e lo afferrò con la bocca; lo portò ai piedi del padrone e lo lasciò cadere, guardando l’uomo e chiedendogli con lo sguardo di lanciarglielo, così lui avrebbe potuto andare a prenderlo e riportarglielo. Poi il gioco sarebbe ripreso e lui si sarebbe divertito un mondo. Ma Dado lo allontanò con un piede e gli disse: «Non rompere con questo bastone. Lasciami perdere».
Oscar lasciò lì il bastoncino e si allontanò un po’. Subito trovò una pietra e l’afferrò con la bocca; portò anche questa al suo padrone e gliela fece cadere ai piedi. Forse questa volta il ragazzo avrebbe dato un calcio al sasso e lui sarebbe potuto andare a prenderlo, per poi riportarglielo. Ma Dado, invece, tirò un calcio a lui, urlandogli: «Non rompere con ’sta cazzo di pietra!». Oscar prese il sasso in bocca e si spostò di qualche metro. Lo lasciò cadere a terra e provò a giocare da solo. Con la zampa diede un colpo alla pietra, facendola rotolare via per poi afferrarla subito con la bocca. Ma non riusciva a spostare il sasso per più di una decina di centimetri e non c’era gusto a prenderla immediatamente dopo. Così abbandonò quel gioco che non lo divertiva.
Si mise a scorrazzare per il prato e si allontanò un po’ dal padrone, a cui intanto era squillato il cellulare. Mentre Dado urlava a quella che era stata, o forse era ancora, la sua fidanzata che l’aveva vista in macchina con il Mago e poi sbraitava fra sé che quella zoccola la doveva finire di comportarsi da zoccola, Oscar raggiunse la cima di una collinetta e lì trovò qualcosa di interessante che attrasse la sua attenzione più del bastoncino e della pietra.
La terra era smossa di fresco e c’era un odore che lo attirava. Iniziò a scavare con le zampe anteriori e dopo un po’, sotto una decina di centimetri di terra, apparve un dito. Oscar lo annusò e poi scavò con più insistenza. Una mano intera apparve ai suoi occhi.
Tornò di corsa dal suo padrone, felice di portargli la notizia di quella sua importante scoperta. Gli abbaiò, cercando di fargli capire di seguirlo, ma per tutta risposta Dado gli urlò di non urlare e si alzò di scatto dalla panchina facendo il gesto di tirargli un calcio. Oscar capì l’aria che tirava e tornò da solo sul luogo della sua scoperta. Annusò la mano, le cui dita erano strette a serrare qualcosa. Con il muso riuscì a districarle a fatica e scoprì che nascondevano un anello. Lo prese in bocca e lo portò al padrone; glielo lasciò cadere ai piedi e poi gli abbaiò per avvisarlo. Dado lo allontanò infastidito con il piede, dicendogli: «Vattene e smettila di rompere». Poi abbassò lo sguardo e vide l’anello. Lo raccolse e lo esaminò. «Ehi, dev’essere d’oro! Dove l’hai trovato? E bravo cane, finalmente ti dimostri utile. Vuol dire che aspetterò ancora un po’ a portarti sulla tangenziale» e per la prima volta in vita sua gli accarezzò la testa.
A Dado quell’anello era piaciuto subito. Era strano e tutto ciò che era strano a lui piaceva. Sopra la fede stava una farfalla, anch’essa in oro. Purtroppo l’anello era piccolo; forse era appartenuto a una donna, ma nel mignolo gli entrava alla perfezione. Ora Dado lo portava sempre con sé. Se lo rimirava spesso, compiaciuto. Guardava quella farfalla soddisfatto e aveva deciso che con quell’anello d’ora in poi si sarebbe fatto chiamare Papillon, che in francese, come aveva imparato alle medie, significa appunto farfalla.
Jessica, la commessa del supermercato rionale, mentre raggiungeva in pullman il luogo di lavoro, si era letta come tutte le mattine il giornale che trovava gratis alla fermata. Aveva tralasciato come sempre la politica nazionale e internazionale, le notizie economiche e culturali e pure quelle sportive, per concentrarsi sui due argomenti che le interessavano: la cronaca nera e gli spettacoli.
Quella mattina c’era la notizia terrificante di una donna che era stata uccisa e seppellita in un giardino pubblico in periferia, proprio nella zona dove lei lavorava. Si era divorata la notizia con avidità, leggendo tutti i particolari che il cronista riferiva. Mentre portava a spasso il suo cane, un vecchietto aveva visto una mano che spuntava dalla terra. Aveva chiamato la polizia ed era saltato fuori il cadavere di una ragazza. Era la madre di un bambino ed era sparita tre giorni prima. La polizia pensava che fosse vittima di un furto o di una rapina finita male, oppure che avesse visto qualcosa che non doveva vedere e che l’avessero fatta sparire. Il caso era strano, perché la donna non faceva parte di giri malfamati; era una donna normale, con una famiglia, un lavoro, un marito. Ma forse, insinuava il cronista, aveva una doppia vita che nessuno poteva immaginare.
L’articolo riferiva un particolare che aveva incuriosito Jessica. La donna, come aveva riferito il marito, portava un anello d’oro a forma di farfalla che le era stato portato via, mentre niente altro le era stato sottratto, neppure i soldi che teneva nel borsellino. Sul giornale c’era una fotografia della donna morta, una bella ragazza, e c’era pure l’ingrandimento della sua mano, con l’anello a forma di farfalla.
Dado si avvicinò alla cassa del supermercato e posò le cose che voleva comprare: una confezione di Red Bull, i chewingum e le caramelle.
Mentre le lasciava cadere nel sacchetto di plastica, la commessa gli guardò le mani ed ebbe un sussulto nel vedere quell’anello al suo dito mignolo. Appena Dado uscì dal supermercato, Jessica prese il telefonino e, incurante delle proteste degli altri clienti, telefonò ai carabinieri.
Oscar non aveva capito bene quello che era successo. D’improvviso quella notte aveva sentito bussare alla porta. Dado, insonnolito, era andato ad aprire e alcuni uomini in divisa lo avevano afferrato. Il suo padrone aveva cercato di liberarsi, ma quelli gli avevano legato le mani dietro alla schiena. Stavano facendo del male al suo padrone! Doveva intervenire.
Si mise ad abbaiare e ringhiò pure, ma subito uno di quegli uomini in divisa si avvicinò a lui, gli parlò con voce tranquilla e dopo un po’ gli fece anche una carezza. Non erano persone cattive se lo accarezzavano e quindi non c’era da aver paura.
Si erano portati via Dado, dopo avergli tolto l’anello che lui aveva trovato, e poi si erano rivolti a lui e gli avevano messo la museruola e il guinzaglio e questo non gli era piaciuto, perché non ci era più abituato da tanto. Poi lo avevano caricato su un’automobile, dentro una gabbia.
Durante il tragitto, nonostante fosse buio lì dietro e non potesse vedere fuori, ebbe la sensazione di aver già fatto quella strada, quando la signora era venuta a prenderlo al canile e se l’era portato a casa. Adesso aveva l’impressione di rifarla, ma al contrario. La sua sensazione si rivelò esatta quando si aprì il portellone e Oscar si accorse di essere tornato al canile.
Trascorsero alcuni giorni e Oscar si sentiva triste. Era chiuso in una gabbiona, insieme ad altri cani con cui non si trovava molto bene. Era abituato alla sua casa, che, pur essendo piccola, era enorme rispetto a quella gabbia. Aveva voglia di uscire, di tornare fuori, di avere qualcuno che al mattino e alla sera lo portasse in giro. Gli mancava persino Dado, che in quanto a coccole ed effusioni non era un campione, ma era pur sempre il suo padrone. Chissà perché non veniva a riprenderlo. Chissà che fine aveva fatto, dopo che quegli uomini l’avevano portato via.
Fu quindi con grande aspettativa che vide arrivare un uomo e suo figlio che stavano cercando un cane da portarsi a casa. Guardò il ragazzino con occhi languidi, scodinzolò davanti a lui e, quando il ragazzo porse la mano per accarezzargli la testa, Oscar gliela leccò. Il ragazzino si rivolse al padre e gli disse che voleva proprio quel cagnolino. Oscar si sentì felice di essere stato scelto. Poteva avere di nuovo una casa e un padrone!
«Da quando è mancata la mamma,» stava dicendo il padre all’inserviente del canile «mio figlio è caduto in depressione. Un cane di sicuro non sostituirà sua madre, ma spero possa ridargli il sorriso.»
Arrivato nella casa nuova, Oscar si sentì subito a suo agio. L’abitazione era bella, pulita e ampia. Il suo nuovo padroncino non smetteva di accarezzarlo e di abbracciarlo. Era proprio piacevole stare con lui e si sentiva trattato molto meglio di come faceva una volta Dado.
Poi improvvisamente sentì un odore che attrasse la sua attenzione. Proveniva da un’altra stanza. Da un armadio. Oscar seguì il suo fiuto e riconobbe l’odore. Era quello che aveva sentito la sera che aveva disseppellito la mano ai giardinetti.
«Guarda, papà» gridò il ragazzino. «Sta annusando i vestiti della mamma» e si chinò per abbracciare il cane. Oscar, felice, gli leccò una guancia.
Il papà guardò il figlio che sembrava tornato sereno. Poi si guardò la mano al cui mignolo teneva un anello a forma di farfalla, quello che aveva regalato qualche anno prima a sua moglie e che a lei era piaciuto così tanto che non se ne era più separata. L’avevano ritrovato in mano a un balordo di periferia che proprio per questo era stato incriminato per l’omicidio di sua moglie. Poi era venuto fuori che invece non c’entrava niente. Aveva detto che aveva trovato l’anello in bocca al suo cane. Chissà come era finito lì…
L’uomo guardò il figlio che giocava con il cagnolino e pensò che l’animale che aveva ritrovato l’anello di sua moglie poteva essere un cane come quello che adesso era entrato in casa loro e che con la sua presenza riusciva a consolare il suo bambino.
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