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L’osmosi del Coc-co-dril-lo

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È il 31 luglio del 2010, un’afosa serata romana, e Renato Sfamanti, dopo aver chiuso definitivamente il suo negozio di giocattoli, si ritrova a camminare per le vie della capitale, in preda a rimorsi e rimpianti. È perso nei propri pensieri quando, arrivato alla Fontana di Trevi, assiste a un’aggressione: interviene immediatamente e riesce a soccorrere la vittima, l’anziano Ignazio Sperlì, ma non a fermare il colpevole. Sperlì, forse per lo shock o forse per l’età, pronuncia alcune frasi apparentemente senza senso, supplicando Renato di salvare i suoi piccoli dal terribile coc-co-dril-lo. Da questo momento, in Sfamanti si insinua un tarlo che, facendolo ondeggiare tra la realtà e i sogni, lo guida in un’indagine privata alla disperata ricerca di due bambini scomparsi nel nulla.

CAPITOLO 1. PENSIERI

Lo sguardo, duro e fisso, l’avevo rivolto verso un punto indefinito della stanza. Strizzavo gli occhi e attorno a essi comparivano rughe più profonde del Grand Canyon. Cercavo di focalizzarmi su pochi particolari, anche se intorno a me era tutto buio. Non avevo acceso alcuna luce e restarmene immerso nell’oscurità era una sensazione gratificante, paragonabile a una doccia gelida in una calda giornata estiva in cui il termometro supera abbondantemente la soglia dei quaranta gradi. Quella era la mia condizione ottimale: mi piaceva la notte, perché non amavo il giorno e, soprattutto, mi consentiva di essere me stesso e sentirmi totalmente libero da vincoli sociali, affettivi e familiari.

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Mi è capitato spesso di pensare che l’esistenza di un individuo è proprio meravigliosa e, nonostante il pessimismo generalizzato che ci accompagna, niente e nessuno potrà farmi cambiare idea. Dico questo perché la nostra quotidianità è costituita da piccoli e grandi eventi e da furiose battaglie. Ci può essere una lunga serie di porte che si aprono o di eterne sorprese a cui siamo destinati una volta girato l’angolo. Durante i nostri trecentosessantacinque giorni annui, nessuno sa quali saranno le infinite possibilità o combinazioni in cui potrà imbattersi.

Quella sera mi sentivo veramente melanconico, mi guardavo attorno con occhio inquisitore ma non percepivo né tensione né frustrazione accanto a me. Quella era la mia beatitudine e la fiamma che alimentava la calma interiore. Col passare del tempo, la vista si adattò all’assenza di luce e incominciai a scorgere le sagome dei mobili e degli oggetti che erano vicino a me. Il mio gomito sinistro poggiava proprio sul bordo del tavolo e, mantenendolo nella stessa inclinazione con cui avrebbe preso il via una sfida di braccio di ferro, mi misi a osservare le dita della mano. Con l’indice e il pollice tenevo ben salda una biglia di vetro. Era un oggetto da sempre presente nella mia vita e conservava ancora le stesse peculiarità di quando lo avevo acquistato sulla bancarella di un mercatino estivo.

Faceva caldo e avevo sfilato i piedi dalle scarpe; non mi andava di tenerli per terra, per un innato senso di pulizia, per cui avevo appoggiato i talloni sulla tomaia della calzatura. Non mi dondolavo sulla sedia e neanche cercavo di muovermi sfruttandone le rotelle. Ero immobile e, pur essendo al buio, scrutavo attentamente la pallina di vetro che, col passare del tempo, mi regalava sempre più dettagli. All’interno aveva una specie di simbolo misterioso, sembrava un geroglifico o il carattere di qualche altra scrittura spazzata via dai secoli. I polpastrelli della mano non avvertivano alcuna imperfezione. La cosa che più mi affascinava era lo strano riflesso della mia immagine.

La mia scrivania era vicina a una finestra che si affacciava su una strada generalmente trafficata: essendo notte, le macchine che passavano di tanto in tanto portavano qualche raggio di luce dei loro fari che spegneva l’incendio di ombre attorno a me. Fu in quegli istanti di visione chiara e nitida che intercettai il mio viso completamente distorto e per nulla naturale. L’occhio era esageratamente distante dal naso e le labbra, che erano sottili, avevano assunto delle sembianze mostruose. La stravaganza di quel ritratto mi catturava e inondava la testa dei pensieri più assurdi.

Non potevo distinguere l’iride marrone né il viso scavato, ma quel nuovo aspetto austero sembrava rispecchiare piena- mente la mia vita: strana, difficile e meravigliosamente inconcludente.

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Malik Tariq Bashir
È nato a Roma nel 1983. Ha conseguito la maturità scientifica presso l’Istituto Massimiliano Massimo di Roma e nel 2007 si è laureato in Scienze politiche, con indirizzo internazionale, presso l’Università degli Studi Roma Tre. È iscritto all’albo dei giornalisti pubblicisti del Lazio dal 2010. Dopo Il leone bianco (Faligi editore, 2009) e Il profumo dei Valgesi (bookabook, 2022), L’osmosi del coc-co-dril-lo è il suo terzo romanzo.
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