“Hai presente White Sands?”
“Quel posto dimenticato da Dio sotto le montagne?” “È evidente che non siamo Dio. Sì, proprio quello.” “Non ho capito, Faraday.”
“Tranquillo, Butch. Questione di velocità.”
“Di estrazione?”
“No. Di cervello.”
“Che succedeva a White Sands?”
“Appunto. Dicevano che ammazzavo i bambini.”
“Ed era vero?”
“Testa di cazzo, certo che no! Io non ammazzo i bambini.”
“Che ne so, di che fai quando non lavoriamo insieme!?”
“Sai una cosa, Butch?”
“Dimmi tutto.”
“Se sapevo che sarebbe stato così difficile avrei chiesto più soldi.”
“Non so se te li avrebbero dati.”
“Lo so bene, questo.”
“E allora perché…”
“Lasciamo perdere, Butch. Lasciami finire il bourbon, per favore.”
“Come vuoi. Ma lasciati dire una cosa, Faraday.”
“Sono tutto orecchie.”
“Non è bello per niente, parlare con te.”
“Davvero?”
“Davvero. Fai sentire sole le persone.”
“Forse voglio solo essere lasciato in pace.”
“O forse sei solo uno stronzo.”
Butch sollevò non senza fatica la massa voluminosa dei suoi centoventi chili, stringendosi
nelle spalle e muovendosi con la sua andatura vagamente claudicante verso la porta del capanno. Dal camino il fuoco serpeggiava, nero, verso il cielo plumbeo di quel tramonto di fine settembre.
Se lui, o Faraday, avessero avuto un qualche interesse a cercarlo, avrebbero notato che il sole non si sarebbe potuto vedere, celato da quella pesante, perlacea coltre di nubi fitte. Pareva quasi che l’inverno volesse già scavalcare la stagione delle foglie cadenti, e mentre sul calendario i giorni che li separavano dal colpo cedevano il passo come la luce rosicchiata dalla notte, l’impresa che li aspettava una volta ultimato il lavoro si prospettava ben più ardua di quanto avessero potuto pianificare.
Questo, Reznor e i suoi, che pure erano rapinatori di fama nazionale, non potevano saperlo, ma per loro tre, che in quelle regioni erano nati e cresciuti, l’inclemenza e la ferocia della natura erano una realtà fin troppo consolidata. Nessuno, ad ogni modo, avrebbe detto nulla, o contestato il piano, o i tempi della sua realizzazione. Erano tutti persuasi, se non addirittura convinti, che il destino dovesse essere l’arbitro supremo delle loro esistenze, e certo una settimana prima o dopo non avrebbe cambiato il fatto che, con ogni probabilità, nessuno di loro sarebbe invecchiato combattendo la terra gelata dei campi dopo l’inverno o osservando dal portico i nipoti giocare nell’erba.
Così, Faraday aveva deciso di riguadagnare almeno parte del tempo che non gli sarebbe stato concesso godendosi il suo bourbon avvolto nel bavero del cappotto, ad ogni tramonto o turno di guardia che gli permettesse di stare solo, o immaginare d’esserlo. Un’operazione che non gli era mai costata grande sforzo.
Il vento freddo che arrivava sibilando dai monti che si stagliavano all’orizzonte del portico sul retro del capanno gli scompigliava i capelli biondo cenere, che danzavano come puledri imbizzarriti fin sotto i glaciali occhi cui doveva di certo parte della sua dubbia fama. Una lunga cicatrice gli percorreva il viso, dalla tempia destra fino alla mandibola, e la barba incolta, dura e ispida, gli ricordava ogni giorno dei ventisei anni che aveva passato sulla terra fino a quel momento. Se qualcuno l’avesse guardato in un momento come quello, sperando di avere una risposta da un’occhiata, non l’avrebbe trovata sul fondo delle pozze gelide che celavano la sua anima: pareva non ci fosse nulla, neppure le montagne, avanti a lui.
Lo sguardo di Faraday puntava all’orizzonte, penetrando come un proiettile tutto quello che si frapponeva tra quell’istante e quello che poteva immaginare. Ammesso che quelle vitree, glaciali finestre aperte sul mondo potessero celare intenti che andassero oltre la mera
sopravvivenza, o quegli istanti passati a sorseggiare lentamente il bourbon che, massaggiatagli la lingua, scendeva lungo l’esofago scaldandolo fino al cuore.
Sospirò, rassegnato alla notte che cominciava a calare sulla pianura.
Accennò un sorriso, certo che nessuno potesse vederlo. Scrollò il bicchiere vuoto, lo asciugò con la manica del cappotto e lo ripose con cura in una sacca appoggiata accanto alla sedia dalla quale si era appena alzato. Se la buttò a tracolla, e le fibbie cozzarono con la latta di una fiaschetta che rimestava l’alcool al suo interno.
Con la destra placò lo sciabordio, scosse la testa, si portò i capelli oltre la fronte e rientrò nel capanno.
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