Jack, sicario professionista, ha sempre vissuto una vita solitaria e turbolenta, una condizione che sembra adattarsi al suo carattere. A lui non piacciono le persone e il sentimento è reciproco, ma anche nel mondo dei criminali può arrivare il momento in cui le carte del destino vengono rimescolate. Dopo aver ucciso due poliziotti per vendicare la morte del nipote del suo capo, Jack è costretto alla fuga. La sua destinazione finale è San Paolo, in Brasile, dove spera di nascondersi presso Ray, un ex collega che ha cambiato vita e ora gestisce una drogheria. Imprevedibile e impaziente, Jack decide di fare una sosta in Messico mentre attende il volo successivo. Qui incontra Susan, una cameriera solare e gentile, che si rivela essere un bivio inaspettato nel suo cammino: l’amore che nasce tra i due inizia a scalfire la corazza di Jack, mostrandogli una vita diversa, ma fino a che punto l’amore può cambiarlo? E quando il destino si mostrerà nella sua forma più crudele, chi porterà il peso delle conseguenze?
Epilogo
È stata una lunga attesa, ma finalmente ci siamo.
Tra quattro minuti sarò un uomo morto.
Come l’oliva
per il Martini
Se avessi saputo che piega avrebbe preso la mia vita, be’… avrei fatto tutto esattamente nello stesso modo. Mi sarei risparmiato giusto un paio di cazzate magari, tipo quella di Mason City, o la scazzottata con quel tricheco samoano di Totoa Johnson, che mi ha ridotto il naso a una polpetta, ma in linea di massima direi che è andato tutto abbastanza liscio.
Per il mestiere che faccio, s’intende.
Mi chiamo Dominik Mizraky, e sono un sicario.
In origine, quando ancora mi dilettavo in furtarelli da pochi spiccioli, ero semplicemente “il Raky”. Il Raky di qua, il Raky di là, il Raky ha pestato questo, il Raky ha rubato quello, quel bastardo del Raky si è scopato mia sorella. Fino a che, lasciato il selciato delle cattive intenzioni per imboccare a tutta velocità la superstrada delle cattive azioni, in un’umida sera di settembre, eccolo lì, il mio nuovo nome, quello che mi porto addosso da quasi vent’anni. Mi aspettava nel retro di una macelleria che nel fine settimana veniva utilizzato come sala da gioco, un bel posticino che odorava di muffa e carcassa di animale. Era lì, stretto tra le dita di un uomo di cui avevo visto solamente il volto in fotografia e il cui unico pensiero era come giocare un river che non avrebbe mai fatto in tempo a vedere. Era lì, il jack di picche, e un attimo dopo planava fin sotto i miei piedi ormai orfano della mano dell’uomo morto.
Fu il giorno del mio primo lavoro su commissione, del mio primo omicidio, il giorno in cui il Raky lasciò il posto a Jack, il giorno in cui intuii che la morte sarebbe stata una parte fondamentale della mia vita, come l’oliva per il Martini.
Quello della macelleria fu il primo di una serie di eventi che nel corso del tempo mi hanno portato qui, al Grand Hotel San Quintino, California, il penitenziario più famoso d’America. Come ci sono finito? A raccontarlo non ci si crede.
Non ho mai tenuto il conto degli uomini a cui ho tolto la vita, non sono uno di quelli che segna una tacca sul calcio del fucile o si tatua una lacrima sulla guancia per ogni cristo spedito sotto terra, nessuno comunque degno di un epitaffio strappalacrime, intendiamoci. Ma, come disse qualcuno prima di me, “al fato non manca il senso dell’ironia”. Già, perché quello che mi ha fatto finire nel limbo di San Quintino l’ho ammazzato per caso; capita, sapete, se attraversate la strada senza guardare. Magari colpite un’utilitaria e ve la cavate con un paio di ossa rotte, ma al tizio è toccata in sorte una Bronco del ’70 da una tonnellata e mezza: ne è uscito come masticato da un drago.
Perché non hai tirato dritto, Jack? Perché non l’hai lasciato lì a crogiolare sull’asfalto di Douglass Street e non te la sei filata? Per due motivi. Uno: in meno di cinque secondi si era formato un drappello di curiosi armati di cellulare che avevano fotografato morto, targa, e pure il sottoscritto. Due: perché nello sciagurato tentativo di evitarlo ero andato a sbattere contro un camion degli spurghi fermo sul ciglio della strada. Capite? Una vasca di merda ambulante! In circostanze come quella, la polizia si materializza quasi all’istante, come se avesse a disposizione una fottuta macchina per il teletrasporto che la proietta sul luogo del misfatto alla velocità della luce. È inspiegabile.
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Ad ogni modo, accadde che le due precedenti condanne per aggressione e rapina, sebbene risalissero a molti anni prima (ero ancora “il Raky”), pesassero come una libbra di carne sanguinolenta sul piatto della bilancia del giudice incaricato del caso, che mostrò tanta indulgenza quanta Shylock ne riservò al mercante di Venezia. Un vero pezzo di merda! E allora eccomi qua.
Lo scorso giovedì è stato il mio compleanno, il quarto che festeggio qui dentro. Niente torta della nonna, come potete immaginare, e niente regali, a meno che una manciata di sigarette sciolte e un paio di giornaletti pornografici dalle pagine quasi intonse si possano ritenere tali. In realtà, è passata una vita dall’ultimo vero regalo ricevuto per il mio compleanno, ma ne conservo un ricordo vivido. Compivo diciassette anni e mentre gli altri ragazzi del quartiere già scorrazzavano per la città a bordo delle loro auto, io mendicavo pezzi da cinque e da dieci quando a Raky senior sovveniva che il mutuo della casa era estinto da anni.
Papà non è mai stato uno di manica larga; quando eravamo piccoli, alla festa del paese, il massimo che a me e ai miei fratelli era concesso era un bastoncino di zucchero filato o una frittella, mai tutt’e due, cascasse il mondo.
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