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Ma soprattutto i ponti

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Cosa può succederti a Venezia quando hai terminato gli studi e una voce ti sussurra che è giunta l’ora di tornare a casa? Potrebbe accaderti di inciampare nel Vichingo, che racconta storie e dorme a San Marco. Oppure di conoscere la ragazza che cade dai ponti per sbarcare il lunario. Se poi ti capitasse di incontrarli entrambi, nella stessa notte, le tue giornate cambierebbero
colore. Perché improvvisamente si può essere molto occupati, dai venti ai trent’anni. Ma da quando hanno ucciso il Vichingo ti aspetta tutto un mondo da raddrizzare e la voce ti mormora che non hai tempo da perdere. Perché, lo dice il poeta, si può essere anche poco felici, dai venti ai trent’anni…
Sullo sfondo di una Venezia al riparo dalle comitive, dramma e commedia si rincorrono tra le calli in un pirotecnico susseguirsi di trovate originali, dialoghi spassosi, personaggi accattivanti e notti fatte di poco sonno.

PARTE PRIMA

Dite quel che credete, ma io so riconoscere una sconfitta, quando mi prende in faccia. Ne ho una proprio qui, ora, davanti ai miei occhi impietriti e inutili.

E pensate quel che volete, ma so riconoscere un uomo raro, se mi capita. Non so voi, ma io sì. Ed Elmer lo è, lo era, lo è stato fin dal primo minuto.

Dimenticavo. So anche riconoscere una stronza, se irrompe nella mia vita. E lei non lo è, non lo è stata mai, a dispetto dell’inizio e delle apparenze.

Hanno massacrato Elmer. Intorno ristagna un fetore di brace bagnata che mozza il fiato. E di plastica. Un tanfo che fa piangere dietro le palpebre. Non ho mai dovuto sopportare una sconfitta così. Io e lei singhiozziamo, abbracciati forte. Lui è lì, sulla barella, lo stanno portando all’ambulanza che beccheggia, perché a Venezia le ambulanze beccheggiano, non stanno ferme un momento. A guardarle hai il mal di mare. E con tutta la rabbia, la nausea e il ribrezzo che ho in corpo, c’è da domandarsi perché io non stia vomitando. Forse perché lei mi tiene stretto e piange e mi bagna il maglione e allora riesco a fissare gli uomini arancioni che portano

Elmer a bordo, ci riesco, con sforzo, ma senza vomitare. Lo farò più tardi, perché so riconoscere anche una necessità, quando preme dal profondo.

Conobbi Elmer ai margini di piazza San Marco, nel salotto buono di Venezia, che non è passato molto tempo. Faceva un freddo da stordire e la prima cosa di lui che mi raggiunse fu la voce.

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La seconda, la puzza.

Cantava, sepolto vivo sotto una montagna rancida di coperte e stracci e cartoni e roba così. Un tappeto di giornali vecchi, anche. Brandelli di cellophane, forse per isolarsi dall’umidità delle notti lagunari. Non lo si vedeva nemmeno, nascosto in una nicchia del portico di Palazzo Ducale, sul lato dell’acqua, dove – per capirci – se fai due passi in più arrivi alla balaustra da cui si fotografa il Ponte dei Sospiri. Dalle parti del Ponte de la Paglia, insomma. Un angolino tutto suo, senza Imu e senza Ici, da cui, stivato in quella montagna di marciume, cantava con arcigna modulazione una canzone che mi fece subito sorridere, perché realizzai con lo schiocco delle dita che mi ero imbattuto in un esempio di coerenza che chissà quando mai ancora.

Cantava il pezzo dei Nomadi, quello di io vagabondo che son io, vagabondo che non sono altro. Ora capite dove stava la coerenza.

Alzai lo sguardo e fissai per un attimo la pietra del Palazzo, di giorno perlacea e di notte meno, nonostante un accenno d’illuminazione studiata, e pensai che tra quelle mura secolari non sarei mai riuscito a scovare altrettanta onestà intellettuale, pur potendo disporre degli araldi e delle pantofole delle più nobili casate veneziane che affollarono quelle sale e quei corridoi per farne la Storia. No, il meglio stava sotto il portico, a un passo dal canale raffermo, invisibile nel buio, mimetizzato sotto stoffe indurite da polvere e croste e dello stesso colore della pietra. E cantava, bisognava sentirlo come cantava.

Sconfissi un muro di naturale ritrosia e mi spinsi avanti ed è lì che mi accolse la puzza, una puzza che mi fece subito pensare a una grotta dove avesse appeso il cappello una famiglia di orsi. Tanfo di sottobosco e cortecce, muschio, roba selvatica, pelo sporco e bagnato, cibo animale, piscio e pioggia che filtra e si asciuga a stento. Lui si accorse e smise di cantare il manifesto di se stesso.

A poche decine di metri, si trascinava l’ultimo codazzo di frequentatori stanchi della città più galleggiante d’Europa, perdendo tempo tra vetrine d’inutilità o smaltendo aperitivi notturni consumati con finto entusiasmo in locali pretenziosi.

Loro di là, lui di qua, in un epico scontro degli opposti.

Una mano uscì dalle falde della montagna, la scostò di quel che bastava e furono allora gli occhi a occuparsi di me, spalancati e vivi tra la barba e i capelli che proliferavano a quel modo per un indiscutibile eccesso di concimazione.

Ne intuii la posa: era seduto o accovacciato, forse a gambe incrociate, alla maniera di un Gandhi grande e grosso anche se, con quella coltre magmatica a far da contenitore, risultava un po’ complicato tentare di farsene un’idea più precisa.

Mi fermai. Buttai un’occhiata intorno. C’era solo qualche anima viva, nonostante fossimo in uno degli angoli turisticamente più battuti del mondo. Di giorno. Perché va detto: di notte, specialmente se fonda, Venezia è tutta un’altra cosa e tira fuori il meglio di sé ed è uno spettacolo per pochi.

«Chi sei?» mi chiese. In italiano, non in dialetto, e il dettaglio mi sembrò interessante. Glielo dissi.

«E tu?» domandai a mia volta, come se ne avessi diritto. Me lo disse.

Sarebbe anche potuto bastare così, per rendere la notte meritevole di nota. Se ne ricordano di più insignificanti, in una vita. E invece decidemmo di strafare.

«Dove vai?» chiese, senza togliermi gli occhi di dosso.

«A casa.»

«Bravo» chiosò. «La casa è importante.»

Be’, se lo diceva lui.

«Sì. E tu?»

«Io cosa?»

«Tu dove vai?» domandai, avvicinandomi di un passo.

«In che senso?»

«Non vai a casa?» feci. Poi decisi di allargarmi. «Non ne hai una?»

Domanda cretina. E infatti lui sorrise, in quel modo comprensivo con cui si sorride ai cretini. I denti erano bianchi, lo si vedeva persino nella scarsità di luce. In quegli attimi di silenzio sentii subito il vuoto, una specie di lutto per la mancanza di quella voce calda, dal timbro vagamente catarroso degno di un pomo d’Adamo scolpito. Lui si diede subito da fare per togliermi la pena.

«Ti sembra brutta, questa?» disse, indicando tutta la pietra sopra di sé.

In effetti sembrava di stare nella veranda del Palazzo, a notte tardissima. Sorrisi anch’io, all’idea.

«Direi proprio di no.»

«E allora.»

Ci fu tra di noi un altro silenzio, che mi permise di cogliere segnali di vita intorno. Finalmente qualcuno sciabattava dietro di me e il rumore dei passi mi ricordò che c’era tutto un mondo, là fuori.

«Bon, io andrei» dissi.

«Bravo.»

«Ti serve qualcosa?» gli chiesi, osando ma sentendomi stranamente a mio agio.

Ci pensò un momento.

«Fumi?» fece infine.

«No.»

«Peccato. Domani ripassi?»

«Facile.»

«Me ne porti una?»

«Una o un pacchetto?»

«Ah, se vuoi fare il gran signore, chi sono io per impedirtelo?»

Mi strinsi nelle spalle.

«Direi che sarebbe il caso, tanto per adeguarci all’ambiente» conclusi, indicando a mia volta le stanze sopra di noi e roteando una mano nel gesto dell’esagerazione.

Lui sorrise, io pure.

«Io vado, allora.»

«Bravo» disse, tirandosi le coperte sulla testa.

«Allora a domani.»

«A domani.»

E ricominciò a cantare. Ma solo per un attimo, perché poi si scoprì di nuovo.

«Oh» fece.

Fermai il passo.

«Cosa?»

«Guarda che è buio.»

«Lo vedo.»

«Attento ai canali, sai?»

«Grazie di avermelo detto.»

«E attento ai ponti, capito?»

«Capito.»

«Vai allora.»

«Vado.»

E andai, facendo attenzione ai canali, ma ancor di più ai ponti. Perché a Venezia è tutta una questione di ponti.

Prendete lei, per esempio. Lei, quella che conobbi di lì a un attimo. Ecco: io ancora non lo sapevo ma lei, per mantenersi, cascava dai ponti.

Pure lei la conobbi di notte, solo un attimo più fonda. Erano infatti passati altri sette o otto minuti. Dieci al massimo.

A quel tempo dribblavo le giornate, le lasciavo scorrere via senza che mi rimanesse attaccato niente. Mi annoiavo e poltrivo, pur facendo cose svogliate, che arrivavano e andavano, arrivavano e andavano, senza importanza, senza trasporto. Ero in cerca, ma cercavo piano. Non so neppure cosa, ma un po’ la cercavo. O forse speravo soltanto che fosse quel qualcosa a trovare me, risparmiandomi fatiche.

Non so.

Probabilmente avevo semplicemente bisogno di una sferzata, di una novità che sparigliasse il mazzo di carte proponendo un gioco diverso. Una scrollata di fantasia. E finalmente fui accontentato, tutto d’un botto. Prima Elmer, poi lei, nel giro di pochi minuti, dieci al massimo. Quel che si dice o poco o troppo.

Il vaporetto notturno accostò con flemma e con flemma montammo a bordo io e nessun altro. Lei era già lì, la notai subito nella luce giallognola che rendeva i vetri più sporchi e i sedili più vecchi. Quasi tutti liberi, perché di notte c’è poca gente che pascola per Venezia.

Venezia è due. Una è solo dei veneziani, sempre un po’ immusonita, sempre un po’ infastidita. L’altra è di chi vuol prendersela, soldi alla mano. Una zoccola di provincia sfatta e attempata che la sera fa finta di andare a letto presto, a compiangersi di nostalgia per i bei tempi andati. Lavora giusto di giorno, ormai, e la notte riposa. La mattina si trucca e si stucca, scrolla la polvere dalle ossa e sfoggia le gioie di famiglia. Si affaccia ai balconi e si specchia nei canali per controllare di esistere ancora, sperando che l’acqua alta non abbia fatto altri danni. Mostra tette e culo, ori e merletti e tutto quel che può mettere in vendita. Apre le gambe per stanca abitudine ché tanto ognuno conosce la strada, chi ci arriva per la prima volta e chi ci torna e ritorna e ritorna.

Raramente c’è qualcosa di nuovo, l’immaginazione la metta chi freme. Oltre ai soldi, naturalmente, da lasciare con discrezione sul tavolino d’ingresso.

In realtà esiste una terza Venezia, quella riservata solo a chi respira di notte. Di notte, fidatevi, di notte esce la Venezia più bella. Un batuffolo di latte detergente e via lo strato spesso di cerone e il finto neo di bellezza, via la parrucca incipriata e il corpetto asfissiante, perché di notte Venezia si offre per amore. Torna anima e cuore alla gran dama che fu e non le importa delle rughe, forse perché sa che nell’oscurità si notano appena.

Passata l’ora delle streghe, Venezia vale la pena. E se quello che cerchi è una piuma che solletichi la fantasia, allora sei nel posto che è stato inventato per questo. Certe cose, se davvero lo speri, non possono che accadere a Venezia.

Sui vaporetti ho sempre preferito viaggiare a poppa, nel semicerchio di seggiolini piazzati all’aperto, perché da lì si vede e si annusa la città. È l’unico optional del vaporetto che giustifichi un biglietto che ti svena, se non sei del posto. Solo che con certe temperature ci vuole coraggio. Scelsi allora di stare al coperto, puntai un angolo e mi lasciai cadere. Non troppo vicino a quello della ragazza, per non destare sospetti, né abbastanza lontano da non destarne. C’è sempre una misura che fa la differenza. Frugai lo zainetto e ne tirai fuori il libro che stavo leggendo. Lo aprii alla pagina giusta e cominciai.

Fu al secondo sbadiglio che mi venne una curiosità. Era dal pomeriggio che giravo senza orologio, una condizione che mi lascia sempre precario ma che, col passare della giornata, s’era fatta via via meno assillante. Ora, alla terza fermata di vaporetto e al secondo sbadiglio, un piccolo calabrone d’ansia riprendeva a svolazzarmi nello stomaco. Detesto dimenticare a casa l’orologio.

Insomma, mi venne la curiosità e un’urgenza di soddisfarla. Non dovevo andare da nessuna parte e non avevo incontri o appuntamenti da onorare. Mi aspettava solo il letto, eppure avevo bisogno di sapere. Perciò mi alzai e osai, per la seconda volta nella stessa notte.

Raggiunsi la ragazza prendendola alle spalle. Non le avevo ancora invaso il campo visivo che lei sollevò testa e mento, fin lì sprofondato nella sciarpa di lana grezza o comunque di quel tipo che fa prurito solo a guardarlo. Stava stretta stretta dentro se stessa e dava l’idea di godersi un clima tutto suo e incredibilmente prezioso. Mi aveva sentito avvicinarmi.

«Scusa» le feci, gentile, mentre già si voltava verso di me. Conosco e coltivo le buone maniere da una vita.

Lei sorrise e basta, per un lungo istante, tornando poi a capofitto nella sciarpa. Ci rimasi male. Poi pensai quello che a Venezia può risultare fin troppo ovvio.

Sarà straniera.

«Excuse me» riprovai, mettendomi un po’ più di fronte e toccandole persino una spalla, ma con la leggerezza del suddetto calabrone. Uno sfioramento che non sarebbe stato perseguibile in alcuna aula di tribunale al mondo.

Lei non si sottrasse e mi scrutò di nuovo, senza ostilità ma con null’altro.

Decisi allora di passare alla maniere forti e di dare sfoggio della mia sbalorditiva padronanza dell’inglese, tanto per mettere in chiaro la faccenda.

«Excuse me» rinforzai. «Can you tell me what time is it, please?»

Un vero duro.

Mi perquisì con gli occhi grandi e scuri e ai punti avrebbe vinto. Il suo silenzio mi disarmava e desiderai fare un balzo temporale per svincolarmi e poter andare a chiedere l’ora direttamente all’ammiraglio o al commodoro o come si chiama il tizio che pilota un vaporetto. Forse pilota, appunto. Quel che è. Restava il fatto che ero già ostaggio della ragazza e lei, di me, avrebbe potuto fare poltiglia. Invece, mostrando di avere un cuore, mi lanciò il salvagente.

«Sono di queste parti» disse infatti.

«Oh, bene, allora mi capisci.»

«Vorrei sperare.»

«Perfetto. Scusami se ti disturbo, non è che sai dirmi l’ora, vero?»

Sogghignò con gli occhi prima ancora che con le labbra e non potei fare a meno di notare gli zigomi alti e lievemente arrossati, come dal vento. Era il risolino di un usuraio che viene a esigerti il saldo a brutto muso, affiancato di qua e di là da due tirapiedi grossi come le colonne d’Ercole. E che spera che tu il debito non sia in grado di onorarlo, giusto per gustarsi quel che non potrà non scaturirne di conseguenza. Tirò fuori alcune dita dalle maniche unite del cappotto e scrutò le unghie smaltate, per poi portarne una a scacciare un infinitesimale corpuscolo dall’angolo della bocca lucida, ma non di rossetto. Era un carminio naturale e crudo.

«Cos’è, il vecchio trucco?» domandò con voce assassina, tornando a fissarmi.Ma soprattutto i ponti 23

«Scusa?»

«Non fare l’ingenuo.»

Capii al volo e senza dubbio virai di colore. Il vaporetto stava attraccando non so a quale fermata e buttai un’occhiata veloce là fuori. Chissà, con un gesto atletico forse sarei potuto saltare giù per mettermi a correre e dileguarmi nella notte, senza lasciare tracce. Ma i colpi di testa non sono mai stati il pezzo forte del mio repertorio e quindi restai a portata di mano della tizia, accettando supinamente che mi rosolasse a puntino.

«No, scusa, cos’hai capito?» provai a difendermi, anche se l’onore era già andato perso. «Guarda che non è mia intenzione infastidirti.»

«E chi ti dice che mi dia fastidio?» disse lei, fissandomi come una gatta. Un rametto di rosmarino, due spicchi d’aglio e forno a duecento gradi, poi c’era solo da lasciar cuocere. Me.

«No, ascolta, volevo solo sapere l’ora. Scusami se…»

«Ti sei già scusato dieci volte. Troppe, dai.»

Lei sorrideva e io no. Il vaporetto prese di nuovo il largo, se così si può dire di un vaporetto che fa la via crucis da una sponda all’altra del Canal Grande.

«Senti. Non lo so se ti dia fastidio o meno, ma ti ho solo chiesto l’ora.»

Stavo lì in piedi come un fesso. La cosa non dovette passare inosservata.

«Siediti qui, che ne parliamo un attimo» fece lei, picchiettando col palmo della mano la porzione di panca libera lì vicino.

Forno in temperatura. Ubbidii, poiché di solito mi riesce bene. Nel sedermi valutai in tempo reale che tipo di distanza mantenere e optai per la minima, a insinuare che non mi stava certo intimidendo. Un coscia contro coscia del settimo grado della scala Richter.

Un vero duro, l’ho detto.

«Ascolta» belai.

«Shhh.»

«No, dai, ascolta.»

«Su, respira e rilassati.»

«Cazzo, mi fai parlare?»

«Non dire le parolacce.»

«Senti, non mi va di passare per quello che all’una di notte va ad attaccare la pezza alla prima che incontra.»

«Be’, be’» fece lei. «Non mi cadere così facile.»

«Cosa?»

Mi gettò in faccia una secchiata di sarcasmo, con una sola passata degli occhi, e rimase a contemplare l’effetto.

«Cosa?» riuscii a ripetere.

«Come fai a sapere che è l’una? Sei proprio un furbetto, lo vedi che la conosci già, l’ora?»

«Ma ascolta, l’ho sparata lì» e sollevai la manica sinistra per mostrare il polso nudo. «L’orologio l’ho lasciato a casa.»

Che pena. Mi giustificavo come se avessi avuto davanti la mia maestra delle elementari.

«Lascia stare» disse, mettendosi più comoda contro lo schienale. Si divertiva, era evidente, anche se si fece seria. «E comunque cosa vorresti dire? Che non ti sembro una con cui valga la pena di provarci?»

E vaffanculo, allora! Sparami, che facciamo prima.

«Sì. Cioè no… no… Sì!»

«Sì non ti sembro o sì valgo la pena?»

Basta. Avanti così e avrei perso conoscenza. Tanto valeva fare la parte del poveretto fino in fondo.

«Merda» mi arresi. «Non mi ricordo più la domanda.»

E finalmente le si formò una risata, una risata bella, rotonda. Gli zigomi alti si accesero di un colore che su di lei stava a pennello. Ridacchiai anch’io, mettendomi di tre quarti quasi a sancire una tregua. Che lei non accettò.

«Ci stai provando?» mi chiese appena le fu passata.

«No. Voglio solo sapere l’ora.»

«Ancora questa storia?»

«Vabbè, ormai è una questione di principio.»

All’ennesima fermata montarono a bordo due coppiette infreddolite. Beate loro, io avevo i bollori.

«Lascia perdere i principi» disse seria. «Hai iniziato il gioco? Ecco, adesso continualo.»

Cominciavo a preoccuparmi. Ma in che grinfie ero finito?

«Sai cosa mi piace di voi maschietti?» continuò, a bassa voce, fissandomi dritto.

«Cosa?»

«Che siete tutti dei bambini. Inguaribilmente.»

«Ah sì?»

«Eh, sì. Dei bambinoni molli come il burro.»

«In che senso?»

«Nel senso che prima lanciate il sasso e poi nascondete il pugnetto dietro la schiena. Ma tanto vi si legge tutto su quei bei faccini che avete.»

E di nuovo rise, sonoramente. Mi venne la tentazione di andare a importunare le due coppiette, che avevano preso posto qualche fila di sedili più indietro. Magari, se avessi rivolto parole sconce alle ragazze, i signorini mi avrebbero preso per la collottola e buttato fuori bordo, levandomi di mezzo. Sì, certo, lo so che l’acqua dei canali è famosa per sapere di merda, ma non è che fin lì stessi inghiottendo di meglio.

Invece fu lei ad alzarsi di scatto e, complice una brusca impennata del motore, mi parve volesse saltarmi al collo. Rimase in equilibrio, nonostante tutto, e mi poggiò una mano sulla spalla.

«Io scendo» disse. «Tu che fai?»

«Non so. Che faccio?»

«Be’, devi dirmelo tu. Resti o scendi?»

«Ma io non sono mica arrivato.»

Mi strizzò la spalla. Non dovevo sembrarle vero, in tutto il mio splendore di coglioneria.

«Ah no?»

«No.»

«Quindi davvero non è questo che avevi in mente?» chiese, mentre il vaporetto iniziava la manovra.

«No. Io volevo solo sapere l’ora. Se vuoi dirmela sei ancora in tempo, altrimenti va bene lo stesso. Mi sono spiegato adesso?»

«Oh ecco, così sì mi piaci. Bello deciso e padrone della situazione.»

Chissà perché suonava un po’ come una presa per il culo. Mi alterai un pelo, così, più che altro perché sentivo che era giunto il gran finale e speravo nel gol della bandiera.

«Bello deciso un cazzo! Ma si può sapere cos’è che vuoi da me?» feci.

Sgranò gli occhi, mollando la presa.

«Cos’è che voglio io? Da te?» chiese a voce un po’ più alta, apparentemente scandalizzata dal tentativo d’inversione di ruoli che mostrava di aver colto e su cui non era certo disposta a sorvolare. «Ma sentilo!»

Si avvicinò alla balaustra e si rivolse al marinaio col giaccone scuro e i guanti, indossati un attimo prima per maneggiare le funi d’ormeggio.

«Ma lo sente?» gli chiese, quasi fosse il suo tutore legale. «Prima vuole infilarsi nel mio letto e poi fa il vergognoso.»

Quello mi buttò un’occhiata come a dire ti xe propio un mona.

«El ga da esser propio un mona» le disse infatti, scuotendo la testa per lo sconforto di dover essere testimone di tanto scandalo. Poi, mentre dava un giro di corda per fermare il vaporetto contro il molo e si faceva da parte per lasciarla scendere, mi lanciò un rapido sguardo per invitarmi a un minimo di riscossa. Dai, baucco, alzati e salta, lessi in quell’occhiataccia.

«Ma che letto e letto!» protestai, alzandomi dalla panca per seguire il consiglio. Superai il marinaio e saltai sulle assi di legno. «E guardi che non è mica andata così.»

«Cosa?» chiese lui, districando il giro di corda.

Mi fermai per chiarire. Lei intanto si allontanava, lo sentivo dai bassi tacchi che percuotevano il selciato.

«Non è mica vero che voglio andare a letto con lei.»

«Ah no?» chiese, lasciando cadere la fune e iniziando a sfilare i guanti.

«No.»

«E ‘ora, scóltime. Ti sa cossa che femo?» alzò la voce, per sovrastare il motore che saliva di giri per separarsi dalla riva. «Ti ti ciapi el me posto e mi ghe coro drio, parché me sa che ti ti xe davero un gran cojon

E mi sbatté davanti una ghignata che fece il lavoro di uno schiaffo.

Ridevano tutti quelli che incrociavo, ultimamente. Chissà perché.

Ma non c’era niente da ridere, in quei giorni. Non per me, almeno. Da qualche tempo stavo seriamente maturando l’idea di tornare a Milano e dentro cresceva una malinconia. Sono sempre stato convinto che Venezia sia fatta apposta a labirinto, ci hanno lavorato su per secoli. È una città di passaggi segreti, itinerari misteriosi, false piste e trabocchetti. È intrecciata di rovi e non ti lascia andare senza graffiarti la pelle.

Ormai c’era da prendere definitivamente atto che l’università era un passato remoto, non poteva più costituire un alibi. Era finita e conclusa. Conclusa bene, ma finita da troppo. C’era da arrendersi all’evidenza che il mio primo romanzo aveva venduto bene ma non benissimo e che le serate di presentazione erano state più un balsamo per l’ego che per il portafogli. Serate emozionanti, ma destinate a esaurirsi in fretta. Non è che a Venezia ci siano più librerie che altrove, ammesso che oggi questo faccia qualche differenza.

La verità è che ormai non legge quasi più nessuno.

Se ero riuscito a rimanere era solo per l’ospitalità di amici. L’appartamento in condivisione con altri studenti era già un ricordo, sempre meno caro man mano che cresceva la consapevolezza che negli ultimi tempi lo avevo abitato con degli insopportabili idioti. Gli anni ci avevano avvicendati, il gruppetto di partenza aveva perso pezzi con lo stillicidio degli esami, che erano caduti come le foglie dagli alberi. Se n’era andato Stefano, se n’era andato Mauro. Idem Massimo. Man mano che ci si laureava, si andava. E altri, più giovani e più stupidi, arrivavano, e la magia si dimezzava, come l’anice nel Pastis ogni volta che rabbocchi con l’acqua. Mi ero rotto le palle di scrivere il nome sugli yogurt, di sprecare ore a millesimare le bollette, di essere sempre l’unico a tirare su la tavoletta del cesso. Basta coi turni per questo e quello, col solo risultato di vederli non rispettati. O io o loro. Ed ero uscito io.

Che andassero al diavolo.

Poi se n’era andato anche l’altro motivo per rimanere. O andata, per meglio dire. Tutta un’altra storia, una ferita sanguinante.

Lasciamo perdere…

La Laguna iniziava davvero a sembrarmi triste. Non era il primo inverno che passavo lì, ma era il primo inverno che sentivo. Ci sono stagioni che sono più autentiche sottopelle che sul calendario appeso in cucina.

Anche l’ospitalità a casa di amici andava sempre più stretta. C’è un tempo per ogni cosa e adesso ciascuno aveva i propri progetti cui star dietro, nuove ambizioni, prospettive appena abbozzate. impegni personali non più condivisibili. Gli interessi si erano differenziati, le maglie della rete che ci aveva tenuti uniti si erano sfaldate. Non c’era più voglia di coinvolgerci reciprocamente. E non si vive di soli ricordi, se non combini più nulla di concreto insieme la frequentazione diventa impalpabile. Stanca abitudine.

Ognuno aveva una strada davanti a sé. Ci si stava scollando.

Tirava un’aria strana, un’aria col magone.

Mi viene in mente quella canzone che dice:

sarai molto occupato,

dai venti ai trent’anni.

Non sarai mai felice,

dai venti ai trent’anni.

Così la canta chi l’ha scritta e mi riesce difficile andargli contro. Non è un’età semplice, dai venti ai trent’anni. Sono dieci anni ma ne valgono il triplo. È un arco temporale che ti vede entrare con una luce di spensieratezza negli occhi che, quando ti appresti a uscirne, ti domandi dove diamine sia finita. Ci entri per gioco e ci esci per forza.

Sono gli ultimi scampoli di adolescenza.

Amen.

Ormai avrei avuto ventisette anni solo per altri due mesi ancora. Forse era giunto il momento di raccogliere le mie cianfrusaglie e voltare pagina.

Questo meditavo.

E invece guarda cosa mi va a capitare.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

Commenti

  1. Sarai molto occupato dai venti ai trentanni, non sarai mai felice dai venti ai trent’anni.
    È la citazione iniziale dell’ultimo lavoro di Iuri Toffanin.
    Leggetelo, merita davvero.
    Una storia, come dice anche lui, che si presta a molte chiavi di lettura.
    Un “restiamo umani” per niente radical chic, un viaggio in piccole oasi di gioia e amore su uno sfondo di un dilaniante e sotterraneo dolore per una perdita terribile.
    Un elogio della caduta e del saper rialzarsi. Un inno agli ultimi e alla lotta contro i soprusi. Una scrittura anche ricercata ma scorrevole, una leggerezza profonda.
    È tanti riferimenti ai Diaframma sparsi qua e là. Anche dove non sono citati esplicitamente e forse neanche lui si è reso conto.

  2. (proprietario verificato)

    Amo Venezia e il libro mi ha affascinato subito… ho ritrovato la città che adoro e il racconto ti conquista e ti trasporta in un mondo dal quale è difficile staccarsi! Complimenti all’autore, spero di leggere presto ancora qualcosa di suo.

  3. (proprietario verificato)

    Complimenti davvero, sinceri, di cuore, per aver scritto una storia bella, delicata, che fa sorridere e commuovere, che ti prende per mano e ti accompagna a spasso per una Venezia affascinante e sconosciuta ai più. Bravo!

  4. (proprietario verificato)

    Bravo Yuri, ce l’hai/abbiamo fatta! non vedo l’ora di leggere tutto il libro!!! ciao

  5. (proprietario verificato)

    La scrittura di Iuri ammalia, stupisce, acchiappa. In molti casi può creare dipendenza e tenervi incollati sulla poltrona fino all’ultima pagina. A me è successo leggendo altri suoi romanzi. Come pure mi è successo d’imbattermi in passaggi stilisticamente geniali e di apprezzare la ricercatezza di certi espedienti, messi in quella pagina, in quel preciso punto con maestria. Più di una volta, poi, sono anche scoppiato in una risata fragorosa, perché le spara, che le spara, grosse!!
    Cosa mi aspetto di trovare in questo romanzo? Beh di certo non la Venezia mordi e fuggi che si palesa ai crocieristi. No, proprio no.

    Che aspettate a prenotare la vostra copia? Venghino siori venghino!!

  6. (proprietario verificato)

    Acquistato!

  7. (proprietario verificato)

    Ho prenotato la copia del libro e ho già potuto scaricare le bozze digitali. Ho appena letto qualche pagina e si preannuncia molto interessante. Ora mi fermo, in attesa di avere il libro tra le mani, certo che l’obiettivo delle copie verrà raggiunto.
    Ho il piacere di conoscere l’autore e ho avuto l’onore di leggere un suo precedente romanzo breve che già metteva in luce le sue qualità.
    Buona lettura a tutti quanti vorranno sostenere questo progetto.

  8. (proprietario verificato)

    Io sono il fratello dello scrittore. Sono stato uno dei primi a prenotare il libro, sono il primo a lasciare un commento. Capirai, direte voi, è il fratello.
    E invece no, capirai un cavolo. L’anteprima mi è piaciuta e molto. Ditemi che non è vero, avanti. Ditemi che non è un gioiellino di scrittura che non si vede tutti i giorni, con uno stile che ti prende per mano e ti accompagna tra i calli di Venezia e tra le passioni di Iuri. È divertente, ironico, pessimista al punto giusto e in sole 19 pagine ci ho trovato tutto il mio fratello che conosco. Mi agevola anche il fatto che, per me, il protagonista ha un volto familiare. Lo vedo perfettamente lì sul vaporetto, imbarazzato e un po’ mona, per dirla alla veneziana.
    Prenotando il libro, bookabook.it mi ha regalato il pdf dell’intero romanzo, ma l’ho già detto a mio fratello, io voglio leggere la mia copia cartacea, con tanto di copertina flessibile. Quindi ho letto solo l’anteprima e non ho avuto alcuna anticipazione da parte di Iuri.
    La voglia di sapere come continua è tanta ma è bella anche l’attesa.
    Per concludere, complimenti davvero allo scrittore.
    E complimenti a voi che gli permetterete di raggiungere l’obiettivo. Ne vale la pena.

    Andrea Toffanin

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Iuri Toffanin
è nato a Desio nel 1970. Da qualche anno vive con la moglie e i tre figli in Baviera, dove esercita la professione di educatore scolastico e d’insegnante di lingua e cultura italiane per tedeschi, facendo buon uso delle lauree in Storia Medievale e in Scienze dell’Educazione e della Formazione. Coltiva la passione della lettura tanto quanto quella per la scrittura di romanzi e saggi. A guardar passare le famiglie felici è la sua quinta pubblicazione, la seconda con bookabook, dopo l’esordio, nel 2017, con Ma soprattutto i ponti.
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