Attraverso un diario autentico e toccante, Chiara ci accompagna nella sua profonda e intima battaglia contro i disturbi del comportamento alimentare: una lotta che attraversa il buio dell’incomprensione, la solitudine, la perdita di sé, ma anche la forza della cura, l’amore della famiglia, il valore dell’amicizia e il potere della scrittura. Con una voce sincera e potente, l’autrice ci invita a non vergognarci della fragilità, a credere nella possibilità di rinascere e a riconoscere che chiedere aiuto è un atto di forza, non di debolezza.
Marzo, tempo di rinascita è insieme testimonianza, grido d’amore e messaggio di speranza per chiunque stia cercando un motivo per rialzarsi.
Introduzione
Ciao, sono Chiara.
Un nome come tanti, forse, ma dentro questo nome c’è un uragano, un abisso, un grido che nessuno sembra sentire. C’è una bambina che cerca disperatamente di aggrapparsi alla vita, mentre il buio la risucchia.
Ho imparato a fingere. Ho imparato a sorridere quando volevo urlare, a dire “sto bene” mentre dentro di me tutto crollava. Ma il mio corpo non poteva mentire. Lui urlava per me, e io non riuscivo a sentirlo. Diventavo sempre più leggera, quasi trasparente, come se il vento potesse spezzarmi. Eppure, quella fragilità era la mia armatura. Ogni osso sporgente era una bandiera piantata nel terreno della mia guerra.
Ma non ero forte. Non ero vincente. Ero solo spenta.
Ho perso tutto. Gli amici, la famiglia, me stessa. Avevo fame, sì. Fame di amore, fame di sicurezza, fame di qualcuno che mi dicesse: «Io ti vedo, e sei abbastanza, così come sei». Cercavo disperatamente un amore che non dovessi guadagnare, un amore che non mi chiedesse di essere diversa. Ma quel vuoto lo riempivo con il silenzio. Ogni boccone era un nemico, ogni piatto un campo di battaglia.
A scuola non ero mai abbastanza. A casa non ero mai abbastanza. Di fronte allo specchio? Un mostro.
Mi guardavo e vedevo colpe, errori, fallimenti. Il riflesso di una ragazza che non si meritava niente. Mi punivo per essere viva, per occupare spazio, per respirare.
Ero ossessionata. Numeri, chilometri, calorie. Ogni giorno era una corsa verso il nulla. Dieci chilometri al freddo, al buio, con i piedi gelati e il cuore vuoto. Camminavo fino a quando il corpo non cedeva. Perché? Perché fermarmi significava ascoltare quella voce che mi diceva quanto fossi inutile, quanto fossi sbagliata.
Poi arrivò il ricovero.
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La sveglia suonò, ma io ero già in piedi da ore. Le lacrime avevano già rigato il cuscino. Mia madre e mio padre, i miei rifugi, erano lì, e sapevo che li avrei lasciati. Li stringevo forte, come una bambina, come se il loro amore potesse salvarmi dall’abisso. Quando la porta si chiuse dietro di me, mi sentii morire.
Camminavo nel corridoio con le gambe che tremavano, con il cuore che implorava: Non lasciarmi sola.
La solitudine. Quella maledetta solitudine. È la mia peggior nemica, eppure la mia unica compagna. Mi segue ovunque, mi osserva dallo specchio, mi sussurra all’orecchio che nessuno potrà mai capirmi.
Ma lì, in quel silenzio, qualcosa è cambiato.
Ho dovuto affrontare i miei mostri interiori. Quella voce che per anni mi aveva detto che non ero abbastanza, che dovevo sparire, nascondermi, ridurmi. Ho lottato contro quella voce ogni giorno. E ogni giorno sembrava impossibile. Ma poi, lentamente, ho iniziato a vedere qualcosa.
Ho capito che la perfezione è un’illusione. Che il controllo non è forza, è paura. E che la vera forza è accettare le mie fragilità. Ogni cicatrice sul mio corpo, visibile o invisibile, non è il segno di una sconfitta. È la prova che ho lottato, che ho resistito, che sono qui.
La vita non è una linea retta. È fatta di curve, salite, discese. A volte ci si perde, si cade, si combatte contro i vecchi fantasmi. Ma ogni battaglia, anche quella che sembra una sconfitta, è solo un passaggio. Ogni ricaduta è una curva, non la fine del viaggio.
E sai cos’altro ho capito? Che non devo vergognarmi di amare, di sognare, di vivere, anche se fa paura. Per anni ho pensato che non meritassi nulla di tutto questo, ma mi sbagliavo.
E sai un’altra cosa? Anche tu ti sbagli.
Se credi di non meritare la felicità, ti sbagli. Non importa quante volte cadi, importa quante volte scegli di rialzarti. La strada è lunga, sì. Difficile, piena di dubbi e di paure. Ma ne vale la pena. Perché in quella lotta c’è vita, e nella vita c’è speranza.
Quando ti senti solo, ricorda che non lo sei mai veramente. Siamo tutti in cammino, l’uno accanto all’altro, anche se spesso non lo vediamo. A volte la mano che ti aiuta a rialzarti è quella di chi ha camminato dove tu stai camminando adesso. Non sei mai veramente solo, perché c’è sempre qualcuno che ha vissuto la tua stessa oscurità, che ha sentito il tuo stesso peso.
Insieme possiamo farcela.
Amarti non è una scelta, è una rivoluzione. È il coraggio di dire che meriti di respirare, di essere felice, anche se il mondo ti ha detto il contrario. Ogni passo che fai per abbracciare te stesso è un atto di resistenza, una dichiarazione che tu, esattamente così come sei, sei abbastanza.
La strada non è facile, ma è tua. E ogni giorno in cui scegli di vivere, scegli di riscrivere il tuo destino. Non importa quanto il cammino possa sembrare impervio. Ogni passo che fai non è un passo solo verso la guarigione, ma anche verso una vita che avrai ricostruito da solo, una vita che avrà il tuo nome scritto in lettere d’oro, perché non c’è nulla di più bello di una persona che ha imparato a vivere per se stessa, finalmente.
La tua storia non è finita. È appena iniziata.
La vita che ti aspetta è più luminosa di quanto tu possa immaginare. Tu meriti ogni cosa bella che la vita ha da offrire, e lo scoprirai, passo dopo passo.
Da questa malattia se ne può uscire, ma ci vuole tempo, pazienza: è una vetta da scalare. A volte scivolerai, cadrai, ti ribalterai, ma riuscirai sempre ad allungare una mano verso te stesso e a rialzarti. Imparare ad amare, ad amare te stesso, è la chiave per poter uscire da questo labirinto. Inizia ad amarti. Chiedi aiuto. Chiedi sostegno. E amati. Amati sempre.
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