Ogni giorno li sentivo allontanarsi, anche se sapevo che non era ciò che volevano. La nostra vita si trasformò in un continuo litigio; smettemmo di comunicare davvero. Non riuscivamo n
é ad ascoltarci né a condividere le nostre preoccupazioni e i nostri pensieri. Tra di noi si era innalzato un muro fatto di silenzi, urla, rancori e freddezza.
Ricordo una notte in cui non riuscivo a dormire. Mio padre, inaspettatamente, venne nella mia stanza e si sdraiò accanto a me. Parlammo, dopo tanto tempo. Gli raccontai dei miei progetti, delle mie ambizioni da adolescente, della mia prima cotta. Parlammo a lungo, fino a quando entrambi ci addormentammo.
Ogni giorno mi sentivo sempre più sbagliata, come se fossi la causa di ogni discussione e preoccupazione. Non sapevo a chi rivolgermi né di chi fidarmi.
Il mio aspetto era solo il riflesso di ciò che mi stava logorando dentro. Mi chiusi in me stessa, perdendo tutto ciò che mi era più caro: gli amici, la famiglia. Ero sola, o almeno così mi sentivo. Quante volte dissi che avrei voluto un cane perché cercavo un amore incondizionato! Avevo bisogno di qualcuno che mi amasse e mi ascoltasse, ma soprattutto avevo bisogno di essere io la prima a farlo: a volermi bene e ad ascoltarmi.
Cominciai a pretendere sempre di più da me stessa, spingendomi oltre i miei limiti, per poi cercare di superarli. Mi ponevo obiettivi sempre più alti, cercando qualcosa di irraggiungibile. Proprio come Icaro, che volò troppo vicino al sole con le ali di cera. Questa determinazione, o forse ossessione per il controllo, mi consumava. A scuola non ero mai soddisfatta dei miei risultati e pretendevo sempre di più. Quando iniziai a prendere i farmaci, la mia concentrazione calò drasticamente: ero stanca, spossata, e studiare divenne un’impresa. I miei voti peggiorarono e le mie incertezze crebbero. Mi sentivo stupida, inferiore ai miei compagni, inadeguata per il percorso scolastico che avevo scelto.
Le restrizioni, i numeri, la bilancia: tutto divenne un’ossessione. Ogni giorno il mio corpo diventava più magro, più fragile, esile e spigoloso. Diventai debole, incapace persino di sorreggermi. Il mio corpo gridava, ma io non riuscivo a percepire la sua sofferenza, né la luce spenta del mio viso.
A un certo punto, però, mi resi conto che dovevo riprendere in mano la mia vita.
Volevo tornare a vivere come qualsiasi ragazza della mia età. Volevo tornare a sorridere, a essere quella ragazza solare di un tempo. Mi piace immaginare quel periodo come un fiore in primavera: fragile, ma capace di rinascere dopo il freddo dell’inverno.
Fragilità e forza non sono una contraddizione: è proprio la fragilità a nutrire la forza.[Ritorno a capo del testo]I mesi successivi furono pieni di incertezza e insicurezze. Iniziai a odiare il mio corpo che cambiava ogni giorno di più. Il peso aumentava, e con esso, il disagio. Le persone intorno a me vedevano solo il mio corpo ristabilirsi, credendo che stessi meglio, ma lo stabilizzarsi del peso non porta necessariamente a un equilibrio emotivo. Si tende a pensare che una persona sia malata e infelice solo quando è sottopeso, ma la verità è che dietro l’aspetto fisico si nascondono pensieri, emozioni, angosce invisibili agli altri. La situazione mi sfuggì di mano. Iniziai a farmi del male. Il mio disagio cresceva con i commenti delle persone, che notavano i cambiamenti del mio corpo. Più me lo facevano notare, più mi sentivo sbagliata.
Volevo riprendere in mano la mia vita, ma mi sentivo intrappolata in quei pensieri e in quelle ombre che non mi lasciavano mai. Quelle voci nella mia testa erano sempre presenti, un’eco incessante.
Non è stato un percorso facile, e non lo è tuttora, perché non posso dire di esserne pienamente uscita. Credo che molti pensieri, molti meccanismi che si sviluppano nella mente restino saldi e continuino a riemergere. Ma sto imparando a conviverci.
Ho capito che ognuno di noi ha dei limiti, delle insicurezze. Siamo esseri umani.
Ho imparato ad accettarmi per ciò che sono, a dare meno
importanza a ciò che gli altri pensano di me.
Sono fatta così, e sono felice per quello che sono.[Ritorno a capo del testo]Mi ritrovo molto nella canzone di Ultimo, “Giusy”, in cui dice: “E ricorda, è dal dolore che si può ricominciare”. Il dolore condiziona la nostra vita, ma sta a noi decidere come affrontarlo. Il dolore può essere un punto di partenza, un nuovo inizio. Si cade e ci si rialza, con una nuova forza. Come un bambino che, dopo ogni caduta, trova la forza di rialzarsi e riprovare.[Ritorno a capo del testo]Schopenhauer diceva che il dolore fa parte della vita umana. Ed è proprio il dolore che ci ricorda di essere vivi, ed è dal dolore che possiamo ripartire. La vita è fatta di attimi. Dobbiamo viverla nei suoi momenti buoni e cattivi. Non possiamo permetterci di perdere anche un solo secondo pensando di non farcela, sentendoci inutili o falliti.
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