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Un padre ritenuto morto e forse ancora vivo. Inizia così il viaggio di Giacomo alla ricerca della verità attraverso il paesaggio marchigiano, che restituisce ancora brandelli di bellezza e si contrappone a una Milano imbruttita e sciatta. Accompagnato dalla saggezza di un vecchio e dalla freschezza e positività di una giovane donna, Giacomo riuscirà a comporre il puzzle che è la vita del padre, a ricostruire fatti e percorsi e, soprattutto, a maturare un approccio diverso alla vita.

CAPITOLO 1

Mi feci la barba con cura. Poi scelsi una cravatta color blu petrolio, non aggressiva, da accompagnare al completo grigio chiaro. Camicia rigorosamente bianca.

Avvertii un certo nervosismo che mi pervadeva. Ebbi la riprova di ciò quando davanti allo specchio mi accorsi del nodo troppo stretto attorno al collo. Con un gesto di stizza lo allentai. Mentre mi apprestavo a rifarlo, suonò il telefono.

Sobbalzai dalla sorpresa guardandomi intorno come per cercare qualcuno che rispondesse, ma ero solo. Al terzo o quarto squillo mi resi conto che non poteva essere altri che Elisabetta, che probabilmente mi chiamava prima di uscire dalla camera d’albergo del Lisboa Plaza dove si trovava per lavoro.

«Ciao amore, buongiorno!» la fresca e squillante voce di Elisabetta mi investì appena alzata la cornetta.

«Ah, ciao, sei tu…» risposi come sollevato da un peso.

«E chi doveva essere a quest’ora? Dormito bene?» proseguì lei un po’ sorpresa dalla mia titubanza.

«Sì, sì… no… è che mi stavo vestendo. Sai fra un’oretta ho quell’appuntamento di cui ti avevo parlato» risposi con un tono più sicuro.

«Certo che mi ricordo! Ma stai tranquillo amore, vedrai sarà una bella sorpresa. Magari la promozione a direttore di qualche sede importante all’estero. Ammetto che un po’ mi dispiacerebbe non vederti tutti i giorni come adesso, già soffro all’idea. Però penso anche ai romantici week-end che passeremo! Adesso devo proprio andare. Ci sentiamo verso l’ora di cena. In bocca al lupo, amore» disse lei con dolcezza.

«Crepi! Ciao Elisabetta. Grazie della telefonata. Sì, ci sentiamo stasera. Un bacio» e le labbra sfiorarono l’apparecchio in un lieve schiocco.

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Lanciai il cordless sul letto e tornai allo specchio per finire di annodarmi la cravatta. Dopo pochi minuti ero in strada, cercando di individuare dove avevo parcheggiato l’auto la sera precedente.

A quell’ora del mattino il traffico era sempre intenso sulla circonvallazione, lo sapevo, ma quel giorno non avevo voglia di mezzi pubblici. Normalmente i vapori compatti della pesante umidità umana che emanava la metropolitana in quelle prime giornate di una primavera cittadina, che alternava mattinate fresche di inverno protratto ad altre quasi calde, mi avrebbero dato una sensazione di protezione. Ma quel giorno avevo preferito la pulita e asettica atmosfera condizionata della mia Alfa 156 sw e, sebbene ora procedessi a passo d’uomo, non ne ero pentito.

A un incrocio mi venne incontro un vecchio magrebino con uno straccio in una mano e l’immancabile spatola lavavetri nell’altra. Ebbi un gesto istintivo di diniego con la testa, ma evidentemente non sufficiente per convincere il vecchio che cominciò a passare lo straccio sul parabrezza. Rassegnato lo osservai mentre cercavo di trovare qualche moneta in fondo a una delle tasche dei pantaloni. Il vecchio si muoveva impacciato dentro un cappotto usato e per lui troppo ampio, soprattutto nelle spalle che gli cascavano in fuori e nella lunghezza delle maniche. Nonostante ciò manteneva intatta una sua dignità resa ancora più credibile da una capigliatura di corti riccioli brizzolati. La fatica degli anni traspariva tutta dalle profonde rughe che segnavano il viso, in particolare attorno agli occhi e alla bocca, e da un sorriso fatto di pochi e anneriti denti che gli disegnavano una smorfia da vecchio satiro vagamente inquietante. Il brillio degli occhi scuri conservava però ancora tutta la sua fierezza, rivelando un antico orgoglio e il ricordo mai rinnegato di calde e luminose distese di sabbia.

Quando ebbe finito mi tese la mano resa incerta da un leggero tremolio, io feci scendere il vetro laterale e gli consegnai le monete appena recuperate. Per un attimo le nostre dita si sfiorarono, io indugiai qualche istante, e anche lui. Stavamo quasi per stringercele, poi un colpo di clacson proveniente dall’auto dietro ruppe quell’atmosfera di complicità e ci riportò alla concreta quotidianità.

Ingranai la marcia e l’auto si mosse verso la colonna di macchine che mi precedeva ormai di circa un centinaio di metri.

All’altezza di piazzale Dateo diedi un occhio all’orologio e visto che erano solo le otto e trenta decisi di fermarmi a bere un caffè in un bar. Lasciai l’auto parcheggiata in seconda fila e, vergognandomi un po’ di ciò, mi guardai intorno per vedere se nei paraggi non ci fosse un vigile e alla fine entrai in un anonimo e insignificante baretto.

Ordinai un caffè, ritrandomi all’estremità più interna del bancone, e di lì mi misi a osservare gli altri clienti, tre o quattro persone in tutto.

Un paio di impiegati, abito da grandi magazzini già spiegazzato a quell’ora del mattino, cravatte vistose dai colori troppo sgargianti, chiacchieravano fra loro addentando la brioche che avevano in mano davanti a una tazza di cappuccino fumante.

Una coppia di studenti universitari dall’aria assonnata e vagamente no-global, sicuramente ragazzi di buona famiglia e con studi classici alle spalle ma frequentatori di centri sociali, fumava una sigaretta bevendo un caffè.

Mentre scrutavo quei due e sorridevo all’idea che uno dei giovani no-global tempo quattro o cinque anni probabilmente avrebbe fatto il manager capo dei due sfigati impiegati, si materializzò improvvisa l’immagine del vecchio incontrato all’incrocio. Pensai alla forza interiore che occorre per affrontare gli sguardi di benevola ma distaccata compassione di tanti sconosciuti, mentre lontano dal proprio Paese e dai propri familiari si consumano gli anni che dovrebbero essere di sereno riposo, lavando vetri di auto dal costo irraggiungibile.

Il pensiero mi confermò a riguardo della relatività delle umane cose così come della grande fortuna che toccava a tutti coloro che si affacciavano alla vita dalla parte giusta del mondo.

Mi insultai mentalmente per aver perso del sonno e del tempo facendo le più varie congetture sull’importanza dell’appuntamento che avevo da lì a poco. Trangugiai il caffè bollente che nel frattempo il barista mi aveva preparato, pagai e senza attendere il resto uscii in strada e risalii in auto con l’umore rinfrancato.

Le gambe della segretaria dell’amministratore delegato erano notoriamente uno dei punti di maggiore attrazione presenti in quell’austero palazzo di fine Settecento, dove aveva la sede centrale italiana la multinazionale per la quale lavoravo.

Così quando lei mi chiese con voce gentile «Può accomodarsi cinque minuti che il dottore sta terminando un altro incontro?» non solo la mia risposta ovviamente fu «Ma certo, non c’è nessun problema!», ma in cuor mio lo avevo sperato, così da potermi accomodare sul divanetto riservato agli ospiti in attesa e rimirarmi con calma quelle lunghe e aggraziate leve, sempre sottolineate al punto giusto da fascianti gonne abbondantemente sopra il ginocchio.

Distratto da tali visioni mi accorsi all’ultimo di Cecconi che uscì dall’ufficio del dottore e mi passò davanti senza salutarmi con passo frettoloso e lo sguardo perso e sfuggente. Rimasi seduto, perplesso e stupito da quel comportamento. Cecconi era un collega affabile e sempre disponibile, pronto alla battuta. Entrato più o meno con me in azienda, non si era mai posto in chiave competitiva o conflittuale pur essendo in una posizione che avrebbe potuto spingerlo a farlo.

Rimasi per qualche attimo ancora turbato dal comportamento del collega, poi mi convinsi che non poteva essere nulla di grave e che una mattinata storta può capitare a chiunque. Presi così dal tavolino una rivista di marketing e finanza, con l’aria di chi non vedeva l’ora di immergersi in quella lettura.

Alzando lo sguardo di tanto in tanto, potevo osservare la segretaria china a scrivere o a inviare documenti via e-mail a nome del dottore. Gli occhiali cerchiati di blu facevano risaltare ulteriormente due occhi che, anche se al momento non potevo vederli bene, sapevo essere di un azzurro intenso come certi cieli di lontane latitudini. Ogni tanto lei interrompeva la scrittura al computer e con un rapido gesto della mano scostava i lunghi capelli neri dalla fronte.

«Sì dottore, è qui… certo… va bene» ripose la cornetta e mi fissò sorridendo. «Ancora un momento e sarà da lei» mi disse, rimmergendosi immediatamente nel video.

Feci un lieve cenno di assenso con il capo. Qualche minuto dopo la segretaria rispose nuovamente al telefono e alzò la testa girandosi verso di me mentre annuiva in silenzio. I nostri sguardi si incrociarono. Mi alzai, mi aggiustai con un tocco rapido il nodo della cravatta e mi avviai con passo deciso verso la porta dell’ufficio. Quando le passai davanti le sorrisi con aria complice, lei ricambiò fuggevolmente poi tornò a concentrarsi sullo schermo del computer.

L’ufficio dell’amministratore delegato si presentava ordinato, anonimo, in puro stile high tech ma con un tocco di classe imprevedibile che riscaldava l’ambiente e ne arricchiva l’atmosfera: un’antica dispensa da farmacia del Settecento in noce italico. La sua presenza in quella stanza, appoggiata alla parete dietro la scrivania, appariva come una colta citazione posta lì per dare maggiore credibilità ai prodotti del colosso farmaceutico realizzati nei moderni e asettici laboratori disseminati in mezzo mondo.

«Dottor Bucci, prego si accomodi…» il dottore inarcò leggermente la schiena, appoggiando una mano sulla scrivania e con l’altra indicandomi di sedermi davanti a sé.

«Grazie dottore» mi accomodai un po’ impacciato sulla sedia in pelle e acciaio.

«Guardi Bucci non voglio girare troppo intorno alla questione. Come lei ben sa siamo in una congiuntura di mercato negativa… insomma stiamo andando male!» disse il dottore, appoggiando le spalle all’alto schienale della sua poltrona e intrecciando le mani con un gesto che istintivamente mi ricordò il pretino della Prima Comunione, quando imbarazzato cercava di trovare le parole giuste alle mie domande dettate da giovanile esuberanza.

«Sì, certo conosco la situazione. Ma mi sembra che le analisi di mercato prevedano per la fine dell’anno, o al massimo per l’inizio del prossimo, una certa ripresa. E del resto negli States si sta incominciando a vedere qualcosa del genere» risposi con tono professionale ma cercando istintivamente di mettermi a mio agio accavallando le gambe.

«Già, già… però al momento siamo ancora sotto l’effetto depressivo dello scoppio della bolla speculativa della new economy. Insomma la situazione è critica, gli scenari non sono rosei e da Boston ci impongono di ridimensionare impegni e risorse. L’idea è quella di concentrare il più possibile in Olanda la presenza in Europa, noi in Italia dobbiamo accontentarci di essere sostanzialmente una buona rete commerciale. L’ordine è di tagliare su costi e personale… e a noi tocca eseguire!» concluse con una smorfia che sembrava di autentico disappunto e imbarazzo.

«Capisco» mormorai quasi fra me e me, anche se in realtà non capivo bene dove il discorso del dottore volesse andare a parare.

«Vede Bucci, lei è giovane. Avrà tutto il tempo per rifarsi e togliersi le sue soddisfazioni. Magari anche con noi, quando la situazione sarà migliore» disse questa frase tutta d’un fiato, quasi si vergognasse persino d’averla pensata.

«Mi scusi dottore, ma lei mi sta forse licenziando?» chiesi con voce appena incrinata da una leggera emozione.

«Licenziare… via, Bucci, non sia eccessivo. Diciamo che le consiglierei di cambiare, magari intascando un’interessante buona uscita. Direi delle dimissioni. Concordate naturalmente! Cosa ne dice di liquidazione, ferie pagate e due anni di stipendio anticipati? Mi sembra una buona offerta. Lei si può anche rifiutare, ma certo andrebbe incontro a un periodo forse poco gratificante. Insomma Bucci, ci pensi, non mi deve rispondere subito, però…» e lì si fermò ritraendosi sulla poltrona.

Mi alzai in piedi con uno scatto. D’impulso avrei voluto girarmi e andarmene sbattendo la porta, invece accennai un sorriso di circostanza e a mezza voce risposi: «Le farò sapere quanto prima!».

Poi tesi la mano, che il dottore prontamente mi strinse con grande trasporto.

Mentre stavo per varcare la porta, mi sembrò di sentire un “buona fortuna Bucci” ma forse era la mia fervida immaginazione liberatasi dopo la tensione del colloquio.

Avrei dovuto andare nel mio ufficio ma dopo la conversazione che avevo appena avuto non me la sentii. Concentrarsi sul lavoro: telefonate, incontri, scrittura e lettura di report, mi sembrava tutto così irreale. Quello che fino al giorno prima rappresentava l’occupazione principale del mio tempo e le preoccupazioni quotidiane, l’abito mentale che mi ero costruito e di cui andavo fiero, ecco tutto ciò in un attimo mi appariva come estraneo, futile, vuoto. Adesso capii da cosa stava scappando Cecconi quando lo vidi passare con aria stralunata qualche minuto prima, anche lui ridotto in un attimo a un puro numero di una multinazionale con la necessità di ristrutturare la sua presenza produttiva e occupazionale sul mercato europeo.

Uscii in strada e fermo in piedi sul marcipiede respirai profondamente. Sentii i polmoni riempirsi di aria umida, pesante, intrisa di odore di asfalto misto al puzzo di scarico d’auto che a passo d’uomo procedevano una attaccata all’altra. Tutto intorno si diffondeva, da un cielo basso e lattiginoso, una luce giallognola ovattata e malata.

La testa si mise a girare e immagini acquose e un po’ sfuocate si materializzarono mentre nella mia mente rimbombavano le parole “le consiglierei di cambiare, di cambiare, di cambiare”. Mi allentai il nodo della cravatta, mi tolsi la giacca accorgendomi di avere la camicia intrisa di sudore e sbracciando come un naufrago tra passanti indifferenti mi allontanai dal portone.

La sicurezza ostentata che mi aveva accompagnato per tutta la mattinata ormai era svanita e mi ritrovai davanti a un bicchiere di martini rosso a cercare di mettere ordine ai miei pensieri.

Il cellulare nella tasca della giacca ripeteva a intervalli irregolari la sua metallica melodia.

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Paolo Matteucci
Paolo Matteucci, è nato a Milano 58 anni fa. Dal 1994 lavora per la Regione Lombardia occupandosi, attualmente, di gestione delle risorse umane. Da sempre politicamente impegnato, è stato per anni funzionario del PCI e, prima, collaboratore del quotidiano il Manifesto. Memoria è il suo romanzo d'esordio.
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