Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors

Mentre tu dormi

Svuota
Quantità

Tecla Morelli, una donna di cinquant’anni con alle spalle una forte depressione, da cui non è mai davvero uscita, riceve nella notte la telefonata che nessuno vorrebbe mai ricevere: la sua giovane nipote Elena ha avuto un grave incidente. Giunta al Pronto Soccorso, scopre che la situazione è ben peggiore; Elena è stata violentata, picchiata e gettata in strada da un’auto in corsa. Ora è in coma e le sue condizioni sono critiche. Lo scarso interesse della polizia risveglia Tecla dal torpore in cui ha vissuto fino ad allora. Rabbia e dolore la portano a cercare giustizia e a ordire un piano per la vendetta: trovare il colpevole e fargliela pagare.

1. NESSUNA PIETÀ

Lo squillo del telefono mi fece saltare: non pensavo di essermi addormentata. Avevo trascorso tutta la serata ad aspettarti, passeggiando avanti e indietro fra il corridoio e la finestra della cucina, affacciandomi ogni qualvolta sentivo un rumore per strada. Speravo che prima o poi ti avrei vista arrivare, saresti scesa di corsa dalla macchina, giunta vicino al portone avresti cercato le chiavi nella borsa e finalmente saresti rientrata a casa. Ti avrei aggredita riversandoti addosso la mia preoccupazione, la rabbia per non avermi risposto al cellulare tutte le volte che avevo provato a cercarti. Stavolta non ti avrei permesso di chiuderti in camera tua come facevi di solito.

Continua a leggere

Continua a leggere

Ero così arrabbiata e stanca di ascoltare le tue scuse che non l’avresti passata liscia. Non stavolta. E invece, quando risposi alla telefonata, fui sorpresa di ascoltare la voce di una donna: forse perché mi aspettavo di sentire la tua? All’inizio le sue parole mi arrivarono confuse, come se fossero state eruttate fuori da un sacco e sparpagliate sul tavolo. Il mio cervello cercava di dar loro un ordine, un significato di senso compiuto, una concretezza di un pensiero lontano e ostile.

Eri al Pronto Soccorso, avevi avuto un incidente ed eri in gravi condizioni. Non respiravo mentre mi toglievo il pigiama e mi buttavo addosso i vestiti che avevo appoggiato sulla sedia in camera da letto; non respiravo mentre prendevo la borsa e le chiavi della macchina; non respiravo mentre mi precipitavo all’interno dell’ascensore. E non respiravo mentre lottavo contro l’impulso di aprire la porta bloccandone la discesa, percorrere a piedi lungo le cinque rampe di scale. Avevo l’impressione che il tempo si fosse fermato o che in qualche modo avesse rallentato il suo corso, mentre io avevo fretta, una fretta dannata.

Quando fui dentro la vecchia FIAT Uno imprecai ad alta voce perché il motore faticava ad accendersi, borbottando in modo preoccupante prima di avviarsi. I vetri erano bagnati dalla brina notturna. Era aprile avanzato ma la temperatura ancora non poteva considerarsi primaverile. Mi immisi nel viale a velocità ridotta per evitare il sobbalzare dell’auto ancora fredda, sorpassai il camion della nettezza urbana e aumentai un pochino la mia andatura rischiando di investire un gatto che percorreva la strada lentamente. Attraversai l’incrocio incurante del semaforo rosso perché la carreggiata era deserta.

Mi sentivo fluttuare in un fermo immagine ma con quel senso di angoscia che solo gli incubi sono in grado di scatenare. Ti vedevo ferita, esanime, sdraiata sulla barella del Pronto Soccorso. Quando fui davanti all’ingresso dell’ospedale venni sopraffatta da un giramento di testa. Dovevo ricordami di respirare. Respira, Tecla. Respira, mi ripetevo. Dovetti appoggiarmi al muro per paura di cadere. Mi precipitai all’interno chiedendo notizie di te, Elena.

Il medico di turno venne avvisato del mio arrivo e quando lo vidi comparire nella sala d’aspetto con un’aria seria e preoccupata, dovetti reprimere l’impulso di scappare via. Non volevo sentirlo parlare, desideravo solo vederti, toccarti, prenderti fra le mie braccia e scappare lontano. Ma sapevo che dovevo continuare a respirare quel poco che bastava per far arrivare l’aria nella parte alta dei polmoni e non svenire.

Lui, invece, continuava a parlare, a darmi i dettagli di ciò che ti era successo: eri stata trovata poche ore prima da un automobilista che aveva notato il tuo corpo lungo la cunetta della Via del mare, a pochi chilometri da Ostia. Avevi battuto la testa contro il guardrail cadendo probabilmente da un’auto in corsa. L’uomo per poco non ti aveva investita con la sua macchina, la strada era buia e tu non ti muovevi. Aveva immediatamente chiamato l’ambulanza, che era arrivata velocemente e ti avevano portata in ospedale.

Osservavo il medico con la sua faccia seria e volevo urlargli di avere pietà per te, per noi, Elena; almeno lui, solo un po’ di pietà. E invece rimasi lì in silenzio ad ascoltarlo parlare delle tue lesioni, delle fratture multiple e del trauma cranico. Ti stavano operando.

Dopo pochi minuti, sopraggiunsero due poliziotti che mi fecero accomodare nella saletta adiacente all’accettazione del Pronto Soccorso. Mi indicarono una sedia e mi offrirono un bicchiere di acqua, così pensai che forse loro avrebbero avuto pietà. Quando incrociai però lo sguardo del più anziano dei due, seppi con certezza che in quel momento la mia vita stava per cambiare per sempre. Mi disse che eri stata violentata, picchiata ferocemente e poi abbandonata sul ciglio della strada. Le sue parole presero posto dentro di me depositandosi sulla bocca dello stomaco, erano come pietre che in qualche modo avevo ingollato facendole scendere giù lungo l’esofago, e che ora erano lì, mescolate con il sangue che avevano grattato via da dentro il mio corpo.

Non potevo alzarmi perché le gambe non tenevano tutto quel peso. Facevo fatica a respirare. Poi, come se fosse un rigurgito, risalì, da una parte profonda del mio essere, un gemito, lo sentivo premere sull’utero, aveva il sapore del sangue, era denso, si aggrappò alle mie viscere per arrivare alla gola, roco, infinito, disperato.

L’uomo mi appoggiò una mano sulla spalla. Cos’altro poteva fare per noi? La sua mano era calda, voleva farmi coraggio? Non volevo essere toccata, forse prima, non ora. Non c’era stata nessuna pietà e adesso era troppo tardi.

Quando riuscii a tenermi in piedi scivolai rasente i muri del corridoio dell’ospedale, appoggiandomi di tanto in tanto, fino a raggiungere la sala d’attesa, proprio all’uscita del reparto di Chirurgia. Era vuota.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

Commenti

Ancora non ci sono recensioni.

Recensisci per primo “Mentre tu dormi”

Condividi
Tweet
WhatsApp
Michaela Diotallevi
vive in provincia di Roma con il marito e la figlia, ed è una funzionaria commerciale per una multinazionale. Ha pubblicato i racconti brevi per ragazzi: Achille lo scrittore triste, Una famiglia per S-59 e Il colore viola delle cose, per una raccolta di fondi per la Onlus Peter Pan. Ha frequentato corsi di scrittura creativa alla scuola Omero e, in questo conte- sto, ha pubblicato altri racconti brevi: Angela, Una giornata di sole, Il botto, A testa in giù, Il giudice Lombardi, Odore di albicocche. Ha scritto una poe- sia in grammelot, intitolata I veji, e il suo primo romanzo è Mentre tu dormi.
Michaela Diotallevi on FacebookMichaela Diotallevi on Instagram
Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors