Osservavo il medico con la sua faccia seria e volevo urlargli di avere pietà per te, per noi, Elena; almeno lui, solo un po’ di pietà. E invece rimasi lì in silenzio ad ascoltarlo parlare delle tue lesioni, delle fratture multiple e del trauma cranico. Ti stavano operando.
Dopo pochi minuti, sopraggiunsero due poliziotti che mi fecero accomodare nella saletta adiacente all’accettazione del Pronto Soccorso. Mi indicarono una sedia e mi offrirono un bicchiere di acqua, così pensai che forse loro avrebbero avuto pietà. Quando incrociai però lo sguardo del più anziano dei due, seppi con certezza che in quel momento la mia vita stava per cambiare per sempre. Mi disse che eri stata violentata, picchiata ferocemente e poi abbandonata sul ciglio della strada. Le sue parole presero posto dentro di me depositandosi sulla bocca dello stomaco, erano come pietre che in qualche modo avevo ingollato facendole scendere giù lungo l’esofago, e che ora erano lì, mescolate con il sangue che avevano grattato via da dentro il mio corpo.
Non potevo alzarmi perché le gambe non tenevano tutto quel peso. Facevo fatica a respirare. Poi, come se fosse un rigurgito, risalì, da una parte profonda del mio essere, un gemito, lo sentivo premere sull’utero, aveva il sapore del sangue, era denso, si aggrappò alle mie viscere per arrivare alla gola, roco, infinito, disperato.
L’uomo mi appoggiò una mano sulla spalla. Cos’altro poteva fare per noi? La sua mano era calda, voleva farmi coraggio? Non volevo essere toccata, forse prima, non ora. Non c’era stata nessuna pietà e adesso era troppo tardi.
Quando riuscii a tenermi in piedi scivolai rasente i muri del corridoio dell’ospedale, appoggiandomi di tanto in tanto, fino a raggiungere la sala d’attesa, proprio all’uscita del reparto di Chirurgia. Era vuota.
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.