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Mentre tu dormi

Mentre tu dormi

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Consegna prevista Dicembre 2023
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Questo romanzo è un lungo dialogo interiore che la protagonista Tecla sviluppa con sua nipote Elena ridotta in coma a seguito di una terribile violenza perpetrata nei suoi confronti da un uomo sconosciuto.
Vedendo quel corpo straziato e afflitta dalla lentezza delle indagini della polizia, Tecla, con il desiderio di trovare da sé i colpevoli e poter vendicare sua nipote, inizia a guardarsi intorno per ricercare, nell’ambito del giro di amici di Elena, qualcuno che le possa dare qualche informazione su quanto accaduto la sera dell’incidente.
Tecla affronta una serie di prove che la porteranno a trovarsi da sola davanti l’aguzzino della nipote, la resa dei conti, a quel punto, sarà per entrambi.

Perché ho scritto questo libro?

Scrivere questo libro è stato per me un dare concretezza a un sogno o meglio un progetto di vita.E’ stata un’esperienza intima che ha dato una forma al mio vissuto.Era qualcosa che avevo dentro di me e che sapevo di dover provare a fare per sentirmi ascoltata e realizzata nel profondo.C’erano tante immagini nella mia mente e altrettante atmosfere che ho dovuto solo attendere che i miei personaggi prendessero posto sulla scena per poi lasciare parlare la mia protagonista che, con la sua voce, era l’unica che poteva raccontare questa storia.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Lo squillo del telefono mi fece saltare: non pensavo di essermi addormentata. Avevo trascorso tutta la serata ad aspettarti, passeggiando avanti e indietro fra il corridoio e la finestra della cucina, affacciandomi ogni qualvolta sentivo un rumore per strada. Speravo che prima o poi ti avrei vista arrivare, saresti scesa di corsa dalla macchina, giunta vicino al portone avresti cercato le chiavi nella borsa e finalmente saresti rientrata a casa. Ti avrei aggredita riversandoti addosso la mia preoccupazione, la rabbia per non avermi risposto al cellulare tutte le volte che avevo provato a cercarti. Stavolta non ti avrei permesso di chiuderti in camera tua come facevi di solito. Ero così arrabbiata e stanca di ascoltare le tue scuse che non l’avresti passata liscia. Non stavolta. E invece quando risposi alla telefonata fui sorpresa di ascoltare la voce di una donna: chissà forse perché pensavo di sentire la tua? 

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All’inizio le sue parole mi arrivarono confuse, come se fossero eruttate fuori da un sacco e fossero state sparpagliate sul tavolo e il mio cervello cercasse di dar loro un ordine, un significato di senso compiuto, una concretezza di un pensiero lontano e ostile. Eri al pronto soccorso, avevi avuto un incidente ed eri in gravi condizioni. Non respiravo mentre mi toglievo il pigiama e mi buttavo addosso i vestiti che avevo appoggiato sulla sedia in camera da letto; non respiravo mentre prendevo la borsa e le chiavi della macchina; non respiravo mentre mi precipitavo all’interno dell’ascensore. Non respiravo mentre lottavo contro l’impulso di aprire la porta, bloccandone la discesa, per correre a piedi lungo le cinque rampe di scale. Avevo l’impressione che il tempo si fosse fermato o che in qualche modo avesse rallentato il suo corso, mentre io avevo fretta, una fretta dannata di arrivare.
Quando fui dentro la vecchia Fiat Uno imprecai ad alta voce perché il motore faticava ad accendersi, borbottando in modo preoccupante prima di avviarsi. I vetri erano bagnati dalla brina notturna. Era aprile avanzato ma la temperatura ancora non poteva considerarsi primaverile. Mi immisi nel viale a velocità ridotta per evitare il sobbalzare dell’auto ancora fredda, sorpassai il camion della nettezza urbana, aumentai un pochino la mia andatura rischiando di investire un gatto che percorreva la strada lentamente. Attraversai l’incrocio incurante del semaforo rosso perché la carreggiata era deserta. Mi sentivo fluttuare in un fermo immagine ma con quel senso di angoscia che solo gli incubi sono in grado di scatenare. Ti vedevo ferita, esanime, sdraiata sulla barella del pronto soccorso. Quando fui davanti all’ingresso dell’ospedale fui sopraffatta da un giramento di testa. Dovevo ricordami di respirare. Respira Tecla, respira, mi ripetevo. Dovetti appoggiarmi al muro per paura di cadere. Mi precipitai all’interno chiedendo notizie di te Elena. Il medico di turno venne avvisato del mio arrivo e quando lo vidi comparire nella sala d’aspetto con un’aria seria e preoccupata, dovetti reprimere l’impulso di scappare via. Non volevo sentirlo parlare, desideravo solo vederti, toccarti, prenderti fra le mie braccia e scappare lontano. Ma sapevo che dovevo continuare a respirare quel poco che bastava per far arrivare l’aria nella parte alta dei polmoni e non svenire.
Lui invece continuava a parlare a darmi i dettagli di ciò che ti era successo: eri stata trovata poche ore prima da un automobilista che aveva notato il tuo corpo lungo la cunetta della via del mare, a pochi chilometri da Ostia. L’uomo per poco non ti aveva investita con la sua macchina, la strada era buia e tu non ti muovevi. Aveva immediatamente chiamato l’autoambulanza che era arrivata velocemente e ti avevano portata in ospedale. Lo osservavo il medico con la sua faccia seria e volevo urlargli di avere pietà per te, per noi Elena, almeno lui, solo un po’ di pietà. E invece rimasi lì in silenzio ad ascoltarlo parlare delle tue lesioni, delle fratture multiple e del trauma cranico. Ti stavano operando. Dopo pochi minuti, sopraggiunsero due poliziotti che mi fecero accomodare nella saletta adiacente all’accettazione del pronto soccorso. Mi indicarono una sedia e mi offrirono un bicchiere di acqua, così pensai che forse loro avrebbero avuto pietà. Quando incrociai però lo sguardo del più anziano dei due seppi con certezza che, in quel momento, la mia vita stava per cambiare per sempre. Mi disse che eri stata violentata, picchiata ferocemente e poi abbandonata sul ciglio della strada. Le sue parole presero posto dentro di me depositandosi sulla bocca dello stomaco, erano come pietre che in qualche modo avevo ingollato facendole scendere giù lungo l’esofago ed ora erano lì mescolate con il sangue che avevano grattato via da dentro al mio corpo. E non potevo alzarmi perché le gambe non tenevano tutto quel peso. Facevo fatica a respirare. Poi, come se fosse un rigurgito, risalì, da una parte profonda del mio essere, un gemito, lo sentivo premere sull’utero, aveva il sapore del sangue, era denso, si aggrappò sulle mie viscere per risalire nella gola, roco, infinito, disperato.
L’uomo mi appoggiò una mano sulla spalla. Cos’altro poteva fare per noi? La sua mano era calda, voleva farmi coraggio? Non volevo essere toccata, forse prima, non ora. Non c’era stata nessuna pietà e ora era troppo tardi.

Quando riuscì a tenermi in piedi scivolai rasente i muri del corridoio dell’ospedale, appoggiandomi di tanto in tanto, fino a raggiungere la sala d’attesa, proprio all’uscita del reparto di chirurgia. Era vuota. Appoggiai la fronte sul vetro freddo della finestra, le luci del giorno rischiaravano il cielo che appariva limpido, le prime rondini della stagione si alzavano in volo dai rami degli alberi ancora spogli. Mi ritrovai a patteggiare con la vita un accordo segreto, ero disposta a tutto, a qualsiasi sacrificio pur di non perderti. Avevo ancora così tante cose da dirti, volevo vederti crescere, osservare il modo in cui ti arrotolavi i capelli fra le dita quando eri intenta nei tuoi pensieri. Non eri mai stata una ragazza facile, sin dal primo momento in cui venisti a vivere a casa mia rappresentasti una sfida. Venisti affidata a me dopo la morte di tua madre, mia sorella. Io conoscevo la bambina che sgambettava nel passeggino durante i suoi primi mesi di vita ma non avevo avuto modo di frequentare la ragazzina che eri diventata.  L’adolescente seduta in prima fila in chiesa, che piangeva silenziosamente con gli occhi che non lasciavano neanche per un momento il feretro della madre, con un contegno inaspettato per i suoi undici anni, era un’estranea per me. Dopo essere andate al cimitero ti presi per mano, la tua piccola arrendevole mano nella mia, scambiammo poche inutili parole durante il tragitto per rientrare nel mio appartamento alla periferia sud di Roma.

Avevo avuto poco tempo per sistemare quella che sarebbe diventata la tua stanza, era accaduto tutto così in fretta. Mi ero disfatta degli scatoloni che avevo impilato in un angolo, erano pieni di libri e cianfrusaglie che era arrivato il momento di buttare, avevo spostato l’asse da stiro in cucina, avevo comprato un materasso e un cuscino nuovo, il letto con l’armadio erano stati spolverati. Piccoli accorgimenti per provare a rendere il tuo arrivo un po’ meno penoso. Quando giungemmo a casa il rumore della porta che si chiudeva alle nostre spalle suonò cupo. Rimanemmo lì, ferme, lungo il corridoio per alcuni secondi, poi ci guardammo negli occhi per riconoscerci nella tristezza di entrambe. Ti mostrai la stanza e tu mi seguisti in silenzio. Ferma sulla soglia della camera le tue parole rimbombarono nell’aria con lo stesso suono che aveva fatto il portone chiudendosi:
“ C’è puzza qui dentro. Tutto puzza in questa casa, non voglio starci qui! “
Mi sentii venire meno. Avevo provato a sistemare la stanza al meglio ma solo in quel momento l’odore denso di umidità, a cui forse mi ero abituata con il tempo, attraverso le tue parole, assunse una nuova consistenza: per un attimo quel tanfo fu insopportabile anche per me. Vidi come per la prima volta la vernice ammuffita e gonfia che si staccava dal muro e notai il percorso che l’infiltrazione di acqua disegnava da sotto al davanzale fino all’angolo della parete per finire assorbita dall’intonaco. Mi girò la testa per seguirne i contorni con lo sguardo. Ti presi per mano, la tua piccola arrendevole mano, e lasciammo la stanza dopo aver aperto la finestra. Il giorno dopo con un secchio di acqua e della candeggina tentai di rimuovere la muffa, strofinai a lungo rovinandomi le mani, la parete tornò quasi bianca. Dopo aver fatto arieggiare l’ambiente preparai il letto e sistemai i tuoi vestiti nell’armadio. Ti trasferisti a dormire lì la sera stessa. Dopo alcuni mesi, la macchia comparve nuovamente sul muro e quando provai a rimuoverla, stavolta armata di guanti, tu mi proibisti di entrare nella stanza. La chiazza si allargò e quell’odore di umido continuò ad aleggiare in tutta la casa. Lo sentivo forte e sapevo di certo che non potevi esserti abituata a quel fetore ma che, forse, avevi deciso di ignorarlo o semplicemente lo avevi accettato come avevi fatto con tutto il resto.

Quando il dottore comparve sulla porta della sala d’attesa ebbi l’impressione che il mio cuore saltasse qualche battito, rughe profonde gli solcavano il viso, aveva uno sguardo stanco, le spalle leggermente curve come se avesse portato addosso tutte le brutture che aveva visto in quel giorno, aveva un’espressione seria e provata. Mi venne incontro porgendomi la mano
“ Lei è la mamma della ragazza?”  mi chiese

“No, sono la zia. Elena vive con me, i suoi genitori sono morti” mormorai con un filo di voce.
Lui aggiunse, con un tono piatto senza alcuna traccia di emozione:
“Signora le devo dire purtroppo che la situazione al momento ci rende cauti. Sua nipote ha riportato varie lesioni esterne ed interne. Ha un braccio che le è stato ingessato a causa della frattura di radio e ulna. Abbiamo riscontrato un ematoma cranico, abbiamo cercato di drenare il versamento ematico aspirandolo attraverso un foro che le abbiamo fatto in testa.  Speriamo sia sufficiente per evitare che la pressione del liquido spinga da sotto al tessuto cerebrale sul cervello, rischiando di apportare danni molto seri. Dovremo aspettare le prossime ore per vedere come reagirà.  È giovane e forte, confidiamo che possa farcela ma, per il momento, sua nipote è in stato di incoscienza”.
“Cosa significa dottore? La tenete sedata?” dissi io
“Elena è in coma signora… dobbiamo attendere e non perdere la speranza. Ci vorrà del tempo per capire l’esisto dell’operazione. Al momento non può vederla, le consiglio di andare a casa e di ritornare nel pomeriggio, più tardi la sistemeranno in terapia intensiva e così potrà farle visita”
Lo guardai mentre, dopo avermi salutata, si infilava le mani nelle tasche del camice e si allontanava. Quando lo vidi scomparire alla fine del corridoio mi resi conto di non essere riuscita ad aggiungere altro alla nostra conversazione. Avevo appena fatto un cenno con la testa solo per confermargli di aver compreso quanto aveva detto. È strano, ma pensavo al foro che ti avevano fatto in testa: saresti potuta scivolare via da lì? La tua essenza vitale sarebbe stata drenata via insieme al sangue in cui era immerso il tuo cervello ora? Chiuda quel foro! Avrei voluto urlargli dietro. Non la lasci scivolare via! Mi strinsi forte le tempie e premetti le dita sulle palpebre per rimuovere la tua immagine dalla mia vista e iniziai a piangere. Mi sentivo come se mi avessero preso il cuore fra le mani e avessero stretto così forte da farlo smettere di sanguinare per sempre. Smettere di battere per sempre.

Quando riuscì a tranquillizzarmi un po’ mi trascinai pesantemente sulle scale che mi conducevano all’uscita ed ebbi la sensazione di risalire da un baratro. Il sole era ormai alto in cielo e la sua luce era così forte in quella giornata nitida che mi costrinse a socchiudere gli occhi. Pensai, quasi con rabbia, che il suo splendere incurante fosse ingiusto verso le atrocità degli esseri umani e della mia disperazione. Quando giunsi sotto casa parcheggiai la macchina vicino ai cassonetti straripanti di spazzatura. I sacchetti, appoggiati con noncuranza sull’asfalto, mi fecero pensare al tuo corpo abbandonato sul ciglio della strada come fosse anch’esso un rifiuto di qualcosa che è stato aperto, divorato e poi gettato.

La casa era al buio, le serrande erano ancora abbassate, aleggiava nell’aria un sentore di verdura bollita. Non mi tolsi neanche la giacca, ma mi diressi nella tua stanza Elena e per un attimo pensai che ti avrei trovato lì, con le cuffiette alle orecchie, intenta a scrivere o a disegnare qualcosa. Volevo vederti, toccarti, volevo sentire il tuo odore, così mi sdraiai sul letto annusando il cuscino dove avevi dormito la notte prima. C’era il tuo profumo, quello della tua pelle che avevo imparato a riconoscere con il tempo, una fragranza che non aveva niente a che fare con quella dolce e delicata che ricordavo di quando eri piccola e ti cullavo fra le mie braccia. Era un odore più denso e caldo, mescolato con le note speziate della tua acqua di colonia. Immersi il mio viso nel cotone della federa, volevo fondermi nelle trame della stoffa, nascondermi fra queste e rimanere in attesa del tuo ritorno. Lasciai vagare il mio sguardo sulle pareti della stanza dove avevi attaccato un poster di un giovane cantante romano. Con le puntine da disegno in un angolo avevi fissato il biglietto del concerto a cui avevi partecipato l’estate prima. Te lo avevo regalato io quel biglietto per sancire una tregua dalle discussioni e dai tanti silenzi carichi di astio e incomprensioni. Negli ultimi tempi ci scivolavamo accanto, attente a muoverci all’interno delle conversazioni che sapevamo essere un campo neutro: la spesa, apparecchiare e sparecchiare la tavola, a volte la scuola. Evitavamo con cura tutti gli argomenti che scatenavano le nostre discussioni e a volte le nostre liti furiose: le amicizie che frequentavi, le bugie che ti costringevo a dirmi per la rigidità con le quali cercavo di importi delle regole che tu difficilmente rispettavi, i ritardi con i quali rientravi a casa la sera. Mi facevano impazzire quei venti minuti che aggiungevi ad ogni limite di orario che ti imponevo. Ho sempre pensato che lo facessi apposta solo per farmi arrabbiare o per non darmela vinta. Non voglio nascondermi dietro a un velo di ipocrisia non ammettendo che la nostra convivenza era stata da subito complessa. Eravamo due anime sole, ferite, le parole che ci scambiavamo venivano fuori dalla nostra bocca come se le sillabe, delle quali erano composte, fossero state macigni pesanti da incastrare uno dopo l’altro e così preferivamo avvolgere le nostre singole sofferenze e la nostra incapacità di comunicare nel silenzio. Ancora ricordo il tuo primo giorno di scuola. Eri così attenta a non camminare affiancata a me ma sempre qualche passo indietro, quasi a voler sottolineare la tua necessità di definirti come qualcosa di diverso, uno iato esistenziale da palesare al mondo. Eravamo al semaforo, ferme in attesa del verde per attraversare la strada, quando vidi la mia immagine riflessa nella vetrina di un negozio. Vidi una donna sulla cinquantina e mi sembrò così misera nei suoi vestiti acquistati al mercato, i capelli castani inariditi dalle tinture fatte in case, le scarpe basse e comode deformate dalle nocche dei piedi artritici. Per la prima volta mi vidi con i tuoi occhi Elena e compresi la tua vergogna che così divenne un po’ anche la mia. Quando arrivammo davanti all’ingresso della scuola venimmo accolte dal vociare chiassoso dei ragazzini e dagli occhi curiosi di alcune madri che chiacchieravano un po’ in disparte vicino al grande cancello in ferro battuto. Ci guardammo per qualche secondo, eravamo spaesate e con la stessa voglia di scappare via da quel posto il prima possibile. Tu invece ti avvicinasti a me per salutarmi e per sussurrarmi piano che saresti tornata a casa da sola. Sconfitta, accettai. Con sollievo posso aggiungere ora. Rientrando passai sul marciapiede opposto affinché la mia immagine, riflessa nella vetrina, non potesse dar forma al senso di profonda inadeguatezza che sentivo gravarmi addosso come una cappa di ferro.

Era stato così facile lasciar correre, lasciarti sistemare le cose per entrambe. Avrei dovuto insistere, da subito, da sempre. Avresti dovuto trovarmi lì all’uscita della scuola ad attenderti, invece ti avevo lasciata fare perché era più comodo e così non ti avevo protetto.  Ora mi sentivo impazzire mentre pensavo a tutto ciò che non avevo fatto e a quanto avevo fatto finta di non vedere per quieto vivere. Con lo sguardo fisso sul soffitto continuavo a lottare con l’immagine del tuo corpo riverso sul ciglio della strada. I sensi di colpa mi strozzavano, non riuscivo a respirare, tu eri da qualche parte in attesa di decidere se tornare a vivere e purtroppo non c’era niente che io potessi fare per trattenerti, per non farti andare. Iniziai ad urlare in preda a una rabbia cieca, nascondendo il viso nel cuscino che odorava del tuo profumo. Volevo avere un’altra possibilità Elena, non chiedevo altro: solo una seconda possibilità.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Michaela Diotallevi
Sono romana ma per amore, vent'anni fa, mi sono spostata ad Ariccia, un paese tranquillo e accogliente situato nella zona dei Castelli Romani, qui vivo con mio marito, mia figlia e il nostro cagnolino Dusty.
Nella vita lavoro in una multinazionale all'interno della quale svolgo la funzione di responsabile commerciale di una divisione operativa.
Scrivere per me non è solo un hobby ma un modo per riordinare i pensieri e per dare un senso al mio vissuto. Significa anche progettare il mio futuro, perchè scrivere è ciò che vorrei fare quando potrò rallentare gli impegni lavorativi.
Mi cullo al pensiero che potrò finalmente sedermi per ascoltare i miei personaggi e dare loro voce attraverso la tastiera del PC.
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