Adagiato mollemente sulla sua poltrona, appoggiava i piedi gonfi, avvolti da consunte pantofole in cuoio, su un ciocco di abete. Era l’ora del riposino pomeridiano e Giovanni Pressenda, settantotto anni meno un mese, nel sonno sbuffava dalla bocca con delicatezza, come una pentola di minestrone appe-sa sopra a un fuoco. In fondo alla stanza, sulla sua destra, il caminetto era acceso e sopra le braci stavano appesi ad asciugare alcuni grembiuli da lavoro. Di fronte a lui, sul tavolaccio di legno tarlato, vi era ancora una parte del pranzo: qualche agnolotto nella scodella, alcuni grissini e un bicchiere rigato con due dita di vino e acqua.
Sul pavimento vi erano dei mucchietti di trucioli di legno, che sarebbero già stati spazzati nel camino, se solo il vecchio avesse avuto la forza di un tempo. Ora, ogni piccolo movimento era per lui uno sforzo. Le gambe, infragilite dall’artrite, lo facevano sentire insicuro nei passi, come se potesse cadere da un momento all’altro e rompersi irreparabilmente. E le dita delle mani, così accartocciate, non erano più in grado di lavorare il legno, la materia prima delle sue creazioni. Di suo, nei violini che uscivano dal laboratorio, ormai c’era solo la verniciatura. Troppa forza ci voleva nell’impugnare la sgorbia. Quel lavoro lo lasciava fare ai giovani garzoni che passavano nella sua bottega per apprendere l’arte della liuteria. Era sempre stato generoso nell’insegnare, aveva sempre saputo riconoscere il potenziale di un bravo artigiano, aveva premiato con una pacca sulla spalla le doti di pazienza, precisione e velocità, ma il virtuosismo dell’artista… quello non lo aveva trovato in nessuno dei suoi praticanti. Tranne uno, uno solo. Quell’allievo, quel Giuseppe Rocca, lo portava nel cuore.
D’un tratto dei colpi lo svegliarono. Qualcuno stava bussando alla porta con decisione. Lentamente scivolò in avanti sulla poltrona, portò un piede a terra, poi l’altro, e prese il suo bastone per sostenersi nell’andare ad aprire.
«Arrivo! Arrivo! Chi bussa?» disse il vecchio, col tono roco di chi si è appena svegliato. Strisciò piano piano le sue pantofole verso l’uscio.
«Una lettera per lei, signor Pressenda!» replicò una voce maschile dall’esterno. Una lettera per me? E chi mi scrive?, mormorò fra sé e sé. Tirò a destra il chiavistello, girò la chiave nella serratura, aprì leggermente la porta di legno e, con cautela, sbirciò dalla fessura. Fuori cominciava a fare scuro e l’aria invernale di Torino, gelida e tagliente, dalle scale del palazzo si intrufolò in casa.
«Prego, signor Pressenda, ecco la missiva» disse il ragazzo da fuori, passandogli frettolosamente la busta.
Pressenda la ritirò, ringraziò l’uomo e chiuse velocemente la porta, reinserendo con accuratezza il chiavistello. Trascinando i piedi, riprese posto sulla sua poltrona e aprì la lettera. Nel riconoscere la grafia, incerta nel tratto ma precisa nel risultato finale, un sorriso gli illuminò il viso. Cominciò a leggere.
Genova, 20 novembre 1854
Caro Maestro,
è ancora il tuo Giuseppe che ti scrive. Ti comunico che mi sono trasferito definitivamente a Genova, in via dei Sellai 6, vicino al Teatro Carlo Felice. Spero di poter un giorno ricevere la tua visita qui.
Con affetto e stima, Giuseppe
Gli occhi di Pressenda, resi opachi dalla cataratta, si riempirono di calde lacrime. Si asciugò le guance cadenti e posò la lettera sulle ginocchia. Giuseppe, il mio caro Giuseppe…, pensò. Desiderava con tutto il cuore rivederlo, ma la malattia non gli consentiva di intraprendere un viaggio così lungo. Anche se ora… con quel treno… sarebbe stato più semplice e più veloce… ma anche costoso… Ma no, gli avrebbe risposto ringraziandolo e declinando l’invito. Col favore del destino si sarebbero rivisti, magari a Torino, di passaggio.
Si lasciò andare sullo schienale della poltrona. Pensò che avrebbe dovuto prendere carta e penna per rispondere, ma si sentiva molto stanco e rimandò al momento in cui le forze lo avrebbero assistito. Tornò a dove era stato interrotto, richiuse gli occhi e lasciò riposare il cuore.
Giulia Canteri
Davvero fantastico! Ho letto questo libro con un interesse che a ogni pagina aumentava. I fatti storici a ritmo con una narrazione scorrevole e incalzante, fanno di questa lettura un buonissimo lavoro. Inoltre, il regalo più bello che la storia mi ha fatto, è stato proprio scoprire le vicende di Giuseppe Rocca, figura quanto mai sconosciuta per me che, oltre a non sapere priprio nulla di liuteria, so poco anche di musica. È bellissimo quando un libro regala una nuova storia ai lettori, un nuovo capitolo da aggiungere alla propria esperienza.