Magari, come fanno molti, cercherai anche di cancellarla, come se volessi ripulire al tua fedina penale, inventandoti origini più degne e socialmente accettabili, considerandola alla stregua di un peccato originale senza possibilità di redenzione.
Magari qualcuno crederà anche di esserci riuscito. E’ una lotta, che spesso prevede uno o più ritorni in quei luoghi di cui spesso conservi ricordi con una visuale dal basso, che ti aspettavi ancora imponenti e minacciosi oppure fantastici ed immaginifici mentre ora, ammesso che esistano ancora, ti offrono solo che tracce di quello che erano un tempo per te.
Tutto questo e molto altro mi passa per la mente quando penso al rapporto fra me e Napolinord. La “mia” terra. In tutti questi anni non ha mai smesso di starmi tra i piedi e ricordarmi la sua presenza: una telefonata, una servizio televisivo, canzoni, persone, misfatti, commenti di passaggio, miserie ed eroismi quotidiani. Di solito faccio finta di nulla: dribblo, evito, scanso, cambio argomento, mi allontano, protesto, me ne frego. In definitiva cerco sempre di tenermi a distanza, per non farmi condizionare anche qui, a seicento chilometri di distanza, nei luoghi che respiro ogni giorno. Ma poi arriva sempre il momento in cui devo concedergli un po’ di spazio e pagare i miei debiti.
Napolinord.
Terra dei Fuochi.
Gomorra.
Alta Terronia.
Hinterland.
Terra di Lavoro.
Provincia a nord di Napoli.
Chiamala come vuoi, ma resta sempre una delle più formidabili riserve di cafoni, da usare a piacimento, per qualsiasi esigenza. Perché è giusto che tutti conoscano questa verità inconfessabile: l’Italia è stata fatta, materialmente, mattone dopo mattone, zolla su zolla, uno stramaledetto voto alla volta, da cafoni ed emigranti.
Contadini e schiavi alla Fontamara.
Votanti prêt a porter.
Manovalanza per il Sistema.
Giovani che per il solo fatto di andarsene fanno crescere il PIL della Regione.
Fedeli cristiani da scarrozzare in giro con il minimo preavviso in pullman turistici secondo ogni necessità politica, personale, civica e persino religiosa.
Affezionati leghisti.
Lavoratori in nero, affidabili e silenziosi, per i più grandi marchi di moda, molto prima dei cinesi.
I più grandi levigatori di pavimenti in marmo del pianeta, piastrellisti ed elettricisti edili eccezionali quanto sommersi.
Antichi ed esperti lavoratori della canapa.
Preti elettorali, preti da ammazzare, da intervistare in TV, preti per amministrare il territorio, preti briganti e preti per davvero.
Geniali accademici da ignorare fino alla loro morte, per poi riabilitarli senza danni per nessuno.
Politici e signori della tecnocrazia locale.
Contrabbandieri di ogni risma, instancabili e creativi, dagli antichi Romani ai Normanni, ai Francesi, ai Borbone, agli Inglesi, ai Savoia, ai fascisti, agli Americani, ai Cinesi.
Rivoluzionari ante litteram, con la sconfitta e la divisione nel DNA.
Questa è Napolinord, ed è solo uno dei polmoni di questo Sud che va bene va bene così, che ci serve così, che vogliamo ad ogni costo così. E cambia anche, certo.
E’ cambiata secondo le epoche, le guerre, le tempeste ed i venti che soffiano da una parte all’altra della Storia. Questo è il grembo in cui sono cresciuto: le strade con i portoni, i cani randagi, i mattoni di tufo, il corso allagato quando pioveva troppo, la ferrovia che ce l’hanno scippata i Signori, l’anno della neve, le sanare e i munacielli, i funerali col tiro a quattro, le partite in mezzo alla strada col Super Santos, le ultime tracce dei binari del tram, il verdummaro sull’apecar ogni mattina in giro fra i condomini nuovi, la vrasiera, le pasquette alla Reggia di Caserta, i bambini degli anni cinquanta a nuoto nei Regi Lagni di borbonica fattura, i tossici, l’aria buona a Castel Morrone, il Caserta – Napoli via diretta, altresì conosciuto come “la cafoniera”, la SS 87 che tagliava in due ogni cosa, le nostre giornate, tutto il tempo che abbiamo passato su queste strade una volta lastricate coi basoli.
E’ cambiata, adesso, stando attenta a rimanere sempre uguale, e le parole che seguono sono già vecchie, dicono di cose che già non esistono più, le uniche di cui si può parlare davvero: perché il presente qui è inconoscibile, annebbiato dalla censura, dalla manipolazione, da una agitazione creata ad arte per cui nulla deve essere distinguibile e quindi passibile di una soluzione vera.
Rimangono frammenti, pezzi di ricordi che si mettono nei cassetti, come lettere strappate, fotografie in bianco e nero da mostrare a qualcuno in momenti di grande empatia o quando ti fanno l’eterna, fatidica domanda: “si, ma esattamente, da dove vieni?” Così a volte accade che la sera, quando smetto di essere il mio lavoro, il mio conto in banca, il mio cellulare, le mie bollette, i miei errori, la mia diversità, finalmente mi fermo per un po’. E’ un tempo variabile fra i trenta secondi e i sei-sette minuti in cui lascio che la mia mente venga attraversata dai pensieri provenienti da quel Big Bang di cui sopra, dalla immagini che per prime hanno impressionato la mia retina, lungo l’infanzia e l’adolescenza, ricostruendo percorsi e ricordi che non pensavo più di possedere. Di solito non serve a molto, è solo lo sfogo di una mente un po’ annebbiata dalla stanchezza di fine giornata. Altre volte, invece, si riattivano tracce sotterranee, illuminazioni inaspettate, come una poesia che emerge dal nulla. Indizi che spiegano un avvenimento, un gesto, un dettaglio sfocato. Oppure danno inizio ad una storia.
E allora scrivo.
Se qualcuno riuscisse a capire, a ritrovarsi in un racconto, in una storia che ho ricordato o che mi viene fuori da chissadove allora sarei contento. E sempre da questo chissadove arriva una voce che mi sussurra piano piano
Si scrive sulo
pe’ chiagnere
o pe’ ‘mpressiuna’
a chi te sente,
spiezza ‘sta penna;
a chi vuò ‘ncanta’.
Fatte ‘na resata,
e nun sfottere ‘a gente
cu ‘sti malatie.
LUNGO VIAGGIO DI UN GIORNO SOLO: PASSENGERS
Lo strepitare della signora, che vorrebbe passare col biglietto non valido i fornelli accoglie il mio arrivo alla stazione. Intanto la signora “controllora” per farsi rispettare urla ancor di più, è un attimo e si sfiora ‘o strascino, senza elencare gli epiteti snocciolati dalle due gentildonne sotto lo sguardo impietrito di una coppia nipponica. Mentre echeggiano le urla, oblitero il biglietto e mi avvio al bar, ma mentre sto per dire “un caffè amaro in vetro, grazie”, un tizio si fionda alla cassa e ordina un caffè, aggiungendo “jamme bello ca vaco ‘e pressa!”, e già, io no eh? Facendomi morire in bocca le parole. Poi si gira e mi guarda come a scusarsi, ma parandosi avanti, e così il compagno che lo seguiva, subito, tendendo un cinquantone, dice alla cassiera ” faciteme ‘nu cafè pure a me, ca pure je vaco ‘e pressa”. Lei prende la banconota, la gira e la rigira, poi fa: “Chesta nun è bona!”. Ma il tizio ribatte con un laconico “ma quanto maie, so’ ‘e cinquanta euro mîe!” (come se questo fosse sinonimo di garanzia), inizia la tiritera e io seccato me ne vado, senza me piglia’ ‘o cafè, per non perdere il treno, e canticchiando una vecchia canzone di Edoardo Bennato, “Ma che bella città “…
Vabbe’.
Arrivo alla stazione, in testa al binario due addetti delle pulizie parlottano attorno al carrello attrezzato per il loro lavoro, intanto due ragazze, una bionda e l’altra bruna, sguardo alto, vestiti estivi e carnagione abbronzata, cercano di decifrare il display parlottando tra loro. In quel momento il più rapace dei due tipi con la maglietta verde, si impettisce, accenna ad una posa da gran seduttore, mostra interesse e sollecita il compagno più attempato che invece da’ le spalle alla scena e traffica con gli spray.
– “Ooohhh, e cheste so’ straniere”
– “Mmm”
– “E guarda!”
– (girandosi) “Mmm”
– “Però nun ‘e capisco, parlano straniero”
– “Ma qua straniere, so’ napulitane, nun ‘e vi’ ca parlano corsivo?!”
– “So’ napulitane??!!”
– “E so’ pure piccerelle, jamme bello spicciammece a fatica’ primma ca’ te metteno ‘ngalera”.
Per fortuna almeno il treno è in orario. Mentre mi sistemo nella carrozza incrocio una donna dai tratti andini che parla in modo concitato a telefono: “…no, no, escuchame, perché si lo hago como dici tu no está bien, è troppo lungo, se faccio in altra maniera no está bien, perché dice che è troppo corto…e che sfaccimma!”
Adoro.
Questa è la vera integrazione, penso. Al suo opposto invece ci sono i quattro pendolari che occupano il gruppo di sedili dalla parte opposta del corridoio. Hanno l’aria di chi si ritrova sempre sul quel treno, magari sempre stesso vagone e stessi posti. Durante la marcia mi offrono una serie interminabile di chicche. Nella testa mi è rimasta l’ultima:
“Giuva’ ma po’ ‘a gnora toia è morta?”
“Eeehhh”
“E nun avite acchiappato ‘na cosa ‘e sorde?”
“Ma qua’ sorde?! Ce ‘o dicette a muglierema.”
“Uah, e ‘O Cardillo?”
“Sta a lutto!”
“Che tipo che è Totonno ‘O Cardillo, quante avettemo chella occasione cu ‘a mugliera ‘e Peppe, se tiraie areto.”
“Overo?!”
“Ce ‘o dicetto, Cardì sta ‘o viento in poppa, t’é menà? E chillo dicette, nooo, cierti cose nun ‘e faccio sono evangelico. ‘O Cardì, tu daje ‘e denare co’ ‘nteresse, mo te ne jesce ca si’ evangelico?”.
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