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Nel lungo periodo

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Un’autobiografia, sospesa tra le scoperte dell’infanzia e dell’adolescenza e l’inquietudine della maturità.
Una giovane coppia, che vaga nel pieno dell’estate alla ricerca di qualcosa di superiore attraverso delle esperienze al limite dei propri corpi.
Un poeta isolato dal mondo, che ha scelto di sondare le profondità dell’animo piuttosto che combattere le dure leggi della società.
Un anarchico, in bilico fra filosofia e ideologia, deciso a far esplodere il Vaticano.
La poesia, che sgorga impetuosa sul foglio per svegliarci dall’apatia della cinica quotidianità.
Un caleidoscopio narrativo e sonoro in cui cinque voci si inseguono, e allo stesso tempo si rifiutano, per restituire la complessità dell’esistenza.

CAPITOLO 1

1

E allora, nostro Signore delle montagne, dei tabaccai e delle pigre sere d’agosto; nostro Signore delle gocce del tuo sacro miele nato chissà dove prima di ogni tempo, ringrazia per noi i locali dalla luce soffusa, nelle cui sere possiamo nascondere più facilmente le nostre facce. Ringrazia i baristi, che dentro ci lavorano e che ci danno da bere una penultima volta quando non abbiamo più una lira.

Signore, per noi ringrazia i macellai e le bestie che ammazzano, che vivono, che crepano e ci riempiono il frigo e la vita di avanzi. Ringrazia, nostro Signore, gli attori demenziali, perché hanno compreso il vero senso della vita. Ringrazia i papponi con i loro calli sul cuore e le loro puttane da trenta euro a botta, perché sono gli ultimi esseri umani sinceri della Terra.

E questo è ciò che disse mio nonno quando rimase orfano a undici anni. Questo è qualcosa che va spezzato controluce. Questo è l’ultimo giorno di vita del Sole. Questo è il cervello della neve.

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2

C’era una volta un bar. C’era una volta un barista e c’era la sua innamorata, ma la sua innamorata era un ubriacone che puzzava di vomito e non pagava mai il conto.

Attorno a lui, gli operai sfiniti dal lavoro ruttavano bestemmie in gregoriano. Il bar era come una biblioteca di anime e di ombre messe al muro o appoggiata al banco.

Il bar era come una chiesa, e nessuna di quelle strane creature era davvero presente. Troppo stronze, troppo indaffarate a preparare la mossa successiva che gli permettesse di chiedere: «Quant’è?» oppure «Dov’è la chiave del bagno?», e a un primo sguardo uno avrebbe detto che tutto lì dentro era morto o in attesa di una morte che non resuscita, ma se facevi attenzione e badavi a svuotare boccali, bicchieri e caraffe – ascoltando il brusio di clienti come Dio avrebbe ascoltato le notizie alla radio, con addosso i suoi mutandoni a quadri –, allora, per un breve istante, avresti potuto vedere quegli individui affiorare a uno a uno nel mondo.

Compresi il barista e la sua innamorata.

E questo è l’incubo francese di Dostoevskij. Questo è ciò che mio nonno vide riflesso nella zuppa di patate.

3

Oh, nostro Signore delle navicelle spaziali che viaggiano a velocità folle nel Tuo sentiero; nostro Signore delle sere d’agosto, canna in bocca e sole al guinzaglio, per noi ringrazia i bagarini più che onesti fuori da ogni curva di posticipo e gli spacciatori di droghe mortali per la mente.

Ringrazia per noi i tabaccai che ci fanno ancora quel minimo di credito per prendere un pacchetto di sigarette e che ci odiano senza un vero motivo. 

Ringraziali, te ne preghiamo.

4

Il barista guardava nel vuoto versando prosecchi, ma non era lui a versarli, né a tritare il ghiaccio per il tumbler o a cambiare il canale alla televisione.

La birra svanita era un tuono per le sue orecchie, un brusio di voci atlantiche. Ma lui non era davvero lì. Lavorava, senza nemmeno rendersene conto mentre pensava a cosa ne avrebbe fatto di ogni suo desiderio inespresso.

Non c’era un umano, là dentro, che ordinasse qualcosa di umano. Solo il barista resisteva, sempre, con gli occhi puntati su un altro pianeta.

Guardandolo, avresti addirittura potuto incominciare a credere nell’uomo, a capire la natura di alcune tigri nascoste nel dormiveglia, la meraviglia di certe giocate estrose a tressette…

5

Ed eravamo stati a vendemmiare, io e Maria, nelle colline tra Siena e l’eterno. 

Ora lei mi diceva che se volevamo potevamo andarcene in Danimarca, dove stava per cominciare la raccolta delle fragole. Così presi il mio zaino e ci infilai dentro quel poco di camicie e di poesie che ero riuscito a scrivere tra una sbornia e l’altra, pronto a partire verso un qualunque nord. 

Lei, per via delle poesie, insisteva nel dirmi che ero un genio; io avevo paura di essere un mentecatto e mi limitavo a ghignare e a sudare freddo, birra e terrore, sperando che nessuno avrebbe mai scoperto chi fossi in realtà.

Poi, come al solito, lei prendeva l’iniziativa, mentre io ero troppo occupato a sudarmi l’anima con la birra, e finivamo per scopare e tutte le cazzate sull’arte e sulla patria si seccavano da qualche parte assieme al mio sperma.

6

13 Ottobre 

E ora ricordo e, a essere sincero, non so più da quanto tempo la mia stanza sopporti il canto scalzo dei miei piedi. Far scorrere l’acqua nel lavandino e tra le dita, lasciarla fluire come la vita. Cambiare la bombola del gas avvicinando la fiamma per verificare che non ci siano perdite. Trattenere i muri tra i respiri di un’altra stagione che non ti dice un cazzo: ha tutte le sembianze di un uovo che si schiude sotto la cenere, questo mese di fumo che sale verso il cielo.

Il mio corvo grigio si rallegra per la sua mimetica indicando la via degli ultimi fiori. La discesa è sempre più breve della salita e le sigarette nazionali aumentano di tre centesimi per ogni nuvola che mi cade nel bicchiere. Bene, e questo non ha nulla a che vedere con la tristezza o con la malattia del sonno. È solo un modo un po’ ingenuo di dare al tempo il tempo di rammendare.

Ti perdi per le strade abbandonate dove la marea lenta di fantasmi scuote il ramo dei lampioni sospesi come isole in un lampo che galleggiano sopra le nebbie alcoliche. Attendi una ragazza grande quanto basta per dormire in una scatola armonica. Ti riscaldi al fuoco di una castagna.

E già sapevo che d’ottobre il vino è sempre più buono, chiuso com’è nella buccia di legno di un corpo appartenuto un tempo alla foresta.

Hai visto un’altra estate passare tra le fiamme come una dea nuda sopra un cavallo cieco, e tu eri con lei. La crisi non ti tocca. La fame nera non ti crea imbarazzo. La morte non dà troppi pensieri, non più di quanti ne diano le ore del giorno. La stagione della caccia al colombo è appena cominciata. Cammini cercando di non svegliare i defunti sul giardino delle foglie secche col passo intelligente di qualche antico barbaro. Respiri un po’ di vento di nord-est. Intoni sottovoce una canzone che parla della pioggia. Ringrazi e vivi.

2021-11-30

Aggiornamento

Obbiettivo 200 copie raggiunto e in un tempo che non avrei mai creduto potesse essere così breve. Grazie a tutti voi che avete ordinato il mio libro, adesso sguardo in avanti per puntare all'obbiettivo delle 250 copie!

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Alberto Lettori
Nasce il 19 settembre del 1989 a Cutigliano, sulla Montagna pistoiese, dove vive attualmente. Con la casa editrice Temperino rosso edizioni ha pubblicato la raccolta di poesie “Stazioni” (2016) e i romanzi “Se passi butta un fiore” (2017) e “Una ballata d’inverno” (2018), mentre la raccolta di racconti “La via dei 4 passi. Piccola guida narrata” (2021) è edita da Pacini editore. All’attività di scrittore unisce quella di cantautore: scrive canzoni per il gruppo musicale ÈKU, per il quale è anche interprete.
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