2
C’era una volta un bar. C’era una volta un barista.
C’era una volta la sua innamorata, ma la sua innamorata era un ubriacone che puzzava di vomito e non pagava mai il conto.
Attorno, gli operai usciti stanchi da lavorare, ruttavano bestemmie in gregoriano. Il bar, come una biblioteca di anime e di ombre messe al muro o appoggiata al banco.
Il bar come una chiesa, e nessuna, di quelle strane creature, che fosse davvero presente nel locale. Troppo stronze, troppo indaffarate a preparare la mossa successiva che gli permettesse
di chiedere
«Quant’é?»
Oppure
«Dov’è la chiave del bagno?»
Che ad un primo sguardo, uno avrebbe detto che tutto lì dentro era morto o in attesa di una morte che non resuscita, ma se facevi attenzione, allora, e badavi a svuotare boccali, bicchieri e caraffe, ascoltando il brusio di clienti come Dio avrebbe ascoltato le notizie alla radio con addosso i suoi mutandoni a quadri, allora, per un breve istante, le avresti potute vedere una ad una affiorare nel mondo.
Compresi il barista e la sua innamorata.
E questo è l’incubo francese di Dostoevskij. Questo è ciò che mio nonno vide riflesso nella zuppa di patate.
3
Oh Nostro Signore, Signore delle navicelle che viaggiano a velocità folle nel Tuo sentiero e delle serene sere d’agosto canna in bocca e Sole al guinzaglio, per noi ringrazia i bagarini più che onesti fuori da ogni curva di posticipo, e gli spacciatori di droghe mortali per la mente. Ringrazia davvero, per noi, i tabaccai che ci fanno ancora segnare le sigarette e che ci odiano senza un vero motivo. Ringraziali, te ne prego.
4
Il barista, guardava nel vuoto versando prosecchi, ma non era lui a servirli, nè a tritare il ghiaccio per il tumbler o a cambiare il canale alla televisione.
La birra svanita, era un tuono per le sue orecchie di giunchi, un crepitio di voci atlantiche. Ma lui non era lì. Lui, pensava a cosa ne avrebbe fatto di ogni suo desiderio inespresso.
Non c’era un umano, là dentro, che ordinasse qualcosa di umano. Solo il barista resisteva, sempre.
Guardandolo, avresti addirittura potuto incominciare a credere nell’Uomo, a capire la natura di alcune tigri nascoste nel dormiveglia, la meraviglia, di certe giocate estrose fatte a tressette…
5
Ed eravamo stati a vendemmiare, io e Maria, nelle colline tra Siena e l’Eterno, ed ora lei mi diceva che se volevamo potevamo andarcene in Danimarca, dove stava per cominciare la raccolta delle fragole. Così presi il mio zaino e ci infilai dentro quel poco di camicie e di poesie che ero riuscito a scrivere tra una sbornia e l’altra, pronto a partire verso un Nord qualunque. Lei, per via delle poesie, insisteva a dirmi che ero un genio, io, avevo paura di essere un mentecatto, e mi limitavo a ghignare e a sudare freddo, birra e terrore, sperando che nessuno avrebbe mai scoperto chi ero in realtà.
Poi, come al solito, lei prendeva l’iniziativa, mentre io ero troppo occupato a sudarmi l’anima con la birra, e finivamo per scopare e tutte le cazzate sull’arte e sulla patria si seccavano da qualche parte assieme al mio sperma.
6
Ed ora ricordo, e ad essere sincero, non so più da quanto tempo la mia stanza sopporti il canto scalzo dei miei piedi. Far scorrere l’acqua del lavandino e tra le dita come fosse la vita ad andarsene. Cambiare la bombola del gas avvicinando la fiamma per verificare che non ci siano perdite. Trattenere i muri tra i respiri caldi di un’altra stagione che non ti dice un cazzo: ha tutte le sembianze di un uovo che si schiude sotto la cenere, questo mese di fumo che sale verso il cielo.
Il mio corvo grigio si rallegra per la sua mimetica indicando la via degli ultimi fiori. La discesa è sempre più breve della salita e le sigarette nazionali aumentano di tre centesimi per ogni nuvola che mi cade nel bicchiere. Bene, e questo non ha nulla a che vedere con la tristezza o con la malattia del sonno. È solo un modo un po’ ingenuo di dare al tempo il tempo di rammendare.
Ti perdi per le strade abbandonate dove la marea lenta di fantasmi scuote il ramo dei lampioni sospesi come isole in un lampo che galleggiano sopra le nebbie alcoliche. Attendi una ragazza grande quanto basta per dormire in una scatola armonica. Ti riscaldi al fuoco di una castagna.
E già lo sapevo che d’Ottobre il vino è sempre più buono chiuso com’è nelle buccia di legno di un corpo appartenuto un tempo alla foresta.
Hai visto un’altra estate passare tra le fiamme come un Dea nuda sopra ad un cavallo cieco, e tu eri con lei. La crisi non ti tocca. La fame nera delle città immigrate non ti crea imbarazzo. La morte non da troppi pensieri più di quanti non ne diano le ore del giorno. La stagione della caccia al colombo è appena cominciata. Cammini cercando di non svegliare i defunti sul giardino delle foglie secche col passo intelligente di qualche antico barbaro. Respiri un po’ di vento di Nord-Est. Canti sottovoce una canzone che parla della pioggia. Ringrazi e vivi.
7
La prima volta che me ne andai di casa avevo tredici anni. Adesso ne ho trenta, e una voce dallo stomaco mi dice che sto per morire. E non rimpiango nulla di quello che ho avuto. E questo è l’Inferno che riscuote. E questo confessa. E questo stupra. Questo è l’Inferno che sbatte le ciglia.
Questo è il fondo del pozzo dove giace l’anima di un cialtrone e nient‘altro.
Anche lei, aveva tredici anni e anche una grande ambizione che chiamava vita. Io già mi ubriacavo per la maggior parte del tempo e il sapore della sua fica era nuovo e forte. Si chiamava Chiara. Era ricca, o almeno la sua famiglia lo era, e quando decidemmo di andarcene per sempre, lei rubò due milioni di lire dalla cassaforte del padre e mi chiamò dicendomi che mi voleva bene e che aveva preso i soldi.
Pensai a come avrei dovuto proteggerla dalle insidie del mondo e mi sentii forte e fiero e vidi gli uomini che avrei dovuto uccidere per sopravvivere e la morte negli occhi magrebini di mio padre. Così svuotai lo zaino dai libri e dai quaderni di scuola e lo riempii di mutande e maglie e calzini e pantaloni alla pescatora. Preparai due panini col tonno e la maionese, pienai una bottiglia di coca cola con del vino rosso e uscii di casa, ghignando all’alba, io, l’ultimo discendente della dinastia dei Samuel Bellamy, un pirata senza ferite che stava per prendere il largo mare della sua esistenza.
E la nave salpava dal porto di Livorno la sera alle nove e non ci furono problemi per acquistare i biglietti poiché il padre di lei era un uomo che aveva investito nel mare e il mare lo aveva reso molto ricco e il suo nome era conosciuto lungo tutta la costa ligure e tirrenica.
Comprammo due biglietti d’andata per Barcellona,
poi da lì avremmo attraversato la Spagna e il Portogallo
fino a Lisbona dove saremmo nuovamente salpati per l’America e l’Atlantico.
Stavamo fumando sigarette e aspettando su una panchina che la nave facesse scendere le auto e i camion e i passeggeri per poi imbarcarne di nuovi e stavo per prendere il vino dallo zaino e per dare uno dei panini col tonno e la maionese a Chiara, quando due poliziotti ci si piantarono davanti coi loro accenti napoletani e pieni di vento e ci chiesero chi fossimo.
La famiglia di lei aveva denunciato la sua scomparsa.
In breve capirono che si trattava proprio della figlia del famoso uomo d’affari che aveva scommesso sul mare e
ci condussero fuori dal porto e ci fecero salire sulla loro auto dicendoci che le nostre famiglie erano state in pena per noi e che eravamo solo dei bambocci.
La mia famiglia, pensai. Babbo, mamma, il vento, il corvo.
Trascorsi la notte nella grande casa della famiglia di Chiara, un ex-albergo, e sentii il suono delle mani del padre su quello delle sue guance rosse e poi dormimmo separati e tristi e soli e il giorno dopo era un Inverno cinico e luminoso.
Il padre di Chiara mi disse di non farmi più rivedere. La cercai invano per i giorni che vennero ma non la vidi più.
Poi la Vita.
CAPITOLO II
1
Amami, mi dici. Amami con le labbra, con gli occhi, col cervello. Amami di polline e di sperma. Amami col viso magro e la faccia sconosciuta.
Amami in piedi oppure di lato. Amami con il bacio nel latte,
il braccio nella carne, amami in un posticino appartato sulle stelle dove nessuno bussa mai alla porta.
Ma “amami”, amica mia, è una qualità del cuore che non vale una parola spesa. Non l’odio, non l’amore, ma il tempo infinito ci distrugge.
Amami, mi dici, come un taglio di manzo preso al banco della carne. Già…
La vita è un bel gioco se è giocato in due, ma è comunque da soli che si vive e si muore.
2
Incomprensibile.
Compresivo.
Irrompeva dalla grandine
e il tuono guardava ruttando, bufera di Maggio.
Gli tolse la vita senza vendetta.
Il dovere.
Il dovere.
Il dovere.
Non c’era motivo.
Spiegare vano.
Contro tutti, tutto.
Erano stati giorni particolarmente duri per Giulio. Fuori, erano dieci gradi sotto zero ormai da più di una settimana e non aveva più legna per la stufa tranne qualche ramo secco che, sapeva, non avrebbe fatto fuoco per più di mezzora e che non sarebbe stato comunque sufficiente a scaldarsi neanche le dita dei piedi, ma che era comunque stato tentato di bruciare.
Erano stati giorni duri e notti ancora più lunghe. Quando aveva vent’anni, si ricordava, una ragazza gli aveva detto che aveva in sè lo spirito di un poeta, e nelle notti come quella, quella visione tornava a scaldarlo, a fargli in qualche modo dimenticare del gelo. Quando se lo ricordava, si sforzava di scrivere, anche quella sera, ma le parole non venivano mai fuori come avrebbe voluto, ed anche se in alcuni momenti si convinceva che tutto quelle frasi incomprensibili rivelassero un significato profondo di cui il mondo un giorno sarebbe venuto a conoscenza, in altri sentiva di non essere mai stato buono ad esprimere proprio un bel niente. Ma perchè la ragazza gli aveva detto quelle cose, allora? Forse, quella sera lei era ubriaca ed il mattino seguente non se ne era nemmeno ricordata di avergli detto che aveva lo spirito di un poeta. Forse era lui ad essere stato ubriaco, e l’unica cosa che riusciva a ricordare adesso era quella o più semplicemente perchè era una delle poche cose belle che gli avessero mai detto.
Guardò il foglio, lo rilesse per l’ennesima volta, come per trovare in qualche modo qualcosa di nuovo, qualcosa che non aveva ancora visto che lo convincesse della bontà di quelle parole, ma arrivò alla fine della poesia con la stesso senso di vuoto delle altre volte. Pensò che forse non era il momento adatto, che il giorno dopo sarebbe stato più bello, che altri grandi poeti si erano ritrovati in quella condizione: infreddoliti e affamati a dubitare della propria arte. Si disse che era meglio provare a dormire, e appoggiò il foglio accanto alla stufa spenta, dove una volta c’era stata la legna, e se ne andò verso la camera da letto. Si buttò sotto alcune coperte, coprendosi la testa fin sopra ai capelli con una coperta più leggera che gli permettesse di respirare bene. Quando chiuse gli occhi, vide ancora le parole che aveva scritto. Eppure, erano buone, pensò, dovevano, essere buone, e per un istante fu tentano di alzarsi dal letto e di andare a rilleggerle per levarsi quel dubbio di testa. Ma poi si ricordò di quanto freddo facesse e decise di restare lì dov’era.
Incomprensibile. Compresivo. Irrompeva dalla grandine…
Cominciò a recitarle a memoria.
E il tuono guardava ruttando, bufera di Maggio. Gli tolse la vita senza vendetta…
Dopo pochi minuti, si addormentò. In fondo, non erano poi così male, si disse.
3
La mia maestra di Storia alle elementari era una donna perfetta. Era una rossa con il naso alla francese e la bocca di un rosa trasparente e due orecchie leggermente pronunciate verso l’esterno, che indossava sempre una gonna, larga, che le arrivava alle ginocchia.
Un’altra maestra, quell’anno, che per me era l’anno di terza elementare, forse per invidia o per vendetta, mise in giro la voce che la maestra di Storia non portava le mutandine e quella voce era presto arrivata ai nostri genitori ed anche a noi piccoli soldati della democrazia.
Da lì, a provare con i nostri occhi se quel fatto fosse vero non passò molto, e il più intraprendente e anche più stupido dei bambini della mia classe, una mattina tirò una gomma da cancellare a terra, vicino alla cattedra, e una volta acquattatosi a terra strisciò fino ad avere una buona visuale delle gambe della maestra che erano spalancate, vive e libere sotto quel tavolo di legno dal quale ci diceva chi erano Giulio Cesare e
chi Napoleone.
A ricreazione, ci facemmo tutti attorno all’eroe che aveva compiuto quell’impresa per farci raccontare cosa avesse visto.
«Avete presente i ragni quando stanno sulle ragnatele?» Ci chiese il nostro eroe, quando ebbe l’attenzione di tutti.
«Si.»
«Si…» rispose qualcuno, non capendo il perché di quella domanda.
«Beh» disse «sembra un grosso ragno nero in mezzo a una ragnatela. Un ragno a forma di fiore in mezzo a una ragnatela.»
«Cazzate cazzate. Quindi non porta le mutande?» disse ancora uno dei bambini, che non voleva credere a quella descrizione.
«No, niente mutande. Se non ci credi, domani prova te a vedere.»
«Un ragno a forma di fiore?»
«Proprio così.»
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.