Erano le sette e trenta di una uggiosa mattina settembrina, la calda estate era ormai solo uno sbiadito ricordo e il sole stentava a farsi largo nella nebbia.
Carolina, infreddolita, le mani affondate nelle tasche del cappotto, varcò la soglia del policlinico San Matteo di Pavia, la struttura ospedaliera in cui operava da molti anni. Percorse il lungo viale interno e si diresse verso il reparto in cui lavorava. Una volta entrata, l’avvolse un caldo tepore.
«Buongiorno, dottoressa» la salutò Olga, la caposala.
«Buongiorno, Olga» rispose con un sorriso e un’energia contagiosa.
Un collega, che stava sorseggiando il caffè alla macchinetta insieme ad altri, la salutò da lontano e la invitò a unirsi a lui. Carolina lo raggiunse. Inevitabilmente finirono per parlare dei figli. Lei era innamorata dei suoi ragazzi e non mancava giorno in cui non parlasse di loro. Non era stato facile crescerli ed era orgogliosa di esserci riuscita. Tanti momenti bui aveva dovuto superare, molte incomprensioni e umiliazioni, ma poi alla fine era stata premiata. La sua famiglia era meravigliosa, i colleghi la stimavano e tutto ciò l’appagava.
Il reparto si stava animando, non si poteva più indugiare. Carolina salutò i colleghi e si diresse verso il suo ufficio. Infilò il camice, pronta a cominciare una nuova impegnativa giornata: ignorava che non sarebbe stata una mattina qualsiasi.
Nei corridoi tra le tante persone in attesa, ognuna con i suoi timori, le trepidazioni, le paure, intravide due occhi neri, brillanti. No, non era possibile: non poteva essere lei.
Eppure qualcosa le diceva che quella ragazzina di colore era proprio Izuba e il giovane uomo che le sedeva accanto non poteva che essere Abel. No, di sicuro non si sbagliava.
Si erano guardati senza parlare: gli sguardi, incrociandosi, avevano parlato per loro. Quanti ricordi in quel breve attimo.
L’avevano di sicuro riconosciuta e come lei avevano preferito tacere, ne era certa. Era passato troppo tempo dal loro ultimo incontro.
Come in un film Carolina rivide il suo passato. All’epoca era una giovane neolaureata che prestava aiuto presso una ONG in un villaggio sperduto dell’Africa. Era stata una cocente delusione amorosa a spingerla a quella scelta.
Carolina
Carolina era nata a Pavia. Abitava in un austero palazzo dell’Ottocento in Strada Nuova, a pochi passi dall’università. In quell’edificio, che rientrava nel patrimonio di famiglia, c’erano le sue radici: ogni cosa rappresentava un pezzetto della sua vita.
La madre, Anna, e il padre, Francesco, erano medici. Avrebbe potuto odiare quella professione, invece l’amava. Uno dei suoi primi giochi, infatti, fu l’Allegro chirurgo. Aveva un fratello più piccolo, Roberto.
Da bambina le piaceva passeggiare in centro con la madre, percorrere le stradine medievali con il naso all’insù mentre ammirava le alte torri che si ergevano maestose nei pressi dell’università. Si sentiva piccola di fronte a quello spettacolo: nei vicoli si respirava la storia. I racconti di epoche passate la incuriosivano: la leggenda delle cento torri, in particolare, solleticava sempre la sua fantasia.
La storia narrava di una donna, una strega, che abitava in una baracca sulle rive del Ticino e usciva solo di notte per raccogliere erbe e radici con le quali preparare infusi magici. Vecchia, brutta, storpia incuteva paura eppure tutti andavano a cercarla: si diceva avesse l’elisir della felicità. Non solo giovani inesperti, donne e uomini del popolo desideravano essere felici, ma anche e soprattutto i signori. Per loro la felicità risiedeva nella potenza e per questo chiedevano consiglio per dominare la città.
La donna li riceveva tutti, li ascoltava. Dietro lauto compenso li consigliava e li imbrogliava. A tutti diceva, punzecchiando il loro ego, che il dominio sulla città e i suoi abitanti si poteva ottenere solo costruendo la torre più alta. Fu così che Pavia divenne la “città delle cento torri”.
Solo sei erano rimaste a testimonianza di quegli anni gloriosi: alcune facevano parte di qualche vecchio palazzo; altre erano cadute, consumate dal tempo.
***
Passavano gli anni e Carolina diventava sempre più bella. A sedici anni, quando frequentava il liceo, i ridicoli calzettoni e le improponibili gonne a quadri tanto care alla madre erano stati sostituiti dai jeans.
Fu in quel periodo che imparò ad apprezzare la sua Pavia, consapevole di vivere in una città in cui ogni pietra riportava al passato: il Duomo, risalente alla fine del Quattrocento; il Broletto; la basilica di San Michele; il Castello Visconteo dove soggiornò Petrarca, ospite di Gian Galeazzo Visconti.
I primi anni Novanta furono intensi e passarono in un batter di ciglio tra studio e divertimenti: le festicciole, le cotte, il primo grande amore e, alle soglie dell’esame di maturità, anche una delusione amorosa.
Servì determinazione per superare il difficile momento e ci riuscì. Affrontò la commissione d’esame con grinta e ottenne anche un discreto risultato. Dopo tutto quello stress arrivarono le meritate vacanze al mare ospite di Claudia, l’amica del cuore.
Era diventata una piacevole consuetudine incontrare gli amici, passare con loro serate frizzanti nelle discoteche alla moda, indossando abiti eleganti e atteggiandosi a diva.
Quell’estate si avvertiva qualcosa di diverso nell’aria. Qualcuno era alle prese con alcune materie da riparare, qualcun altro piangeva un amore perduto.
Poi c’era chi, innamorato perso, trascorreva lunghe ore al telefono e chi, come lei e Claudia, studiava per l’ammissione all’università.
Quell’anno in valigia erano stati aggiunti anche i libri, tantissimi libri. Ore e ore sottratte ai divertimenti e alla fine di quell’estate memorabile furono ammesse alla facoltà di Medicina.
Le attendevano anni difficili, avrebbero dovuto studiare con il massimo impegno. Per loro si apriva un nuovo mondo.
Le due amiche si sentivano grandi e non accettavano più di vivere in famiglia: desideravano la libertà, volevano essere indipendenti. Quando Carolina comunicò di voler affittare un appartamento con Claudia, i suoi genitori non la presero molto bene.
Soprattutto la madre non approvava quella decisione: da buona chioccia avrebbe voluto tenerla ancora vicina.
«Non capisco. Perché voler vivere da sola?» le chiedeva in continuazione.
La decisione era stata già presa.
Programmavano la fuga da mesi. Avevano già trovato un piccolo rifugio senza pretese: niente di particolare, ma a loro piaceva tanto. Volevano abbandonare le case lussuose con tranquillità e vivere nuove esperienze: quelle quattro mura erano il luogo perfetto dove rifugiarsi.
Ottenuto il consenso e soprattutto il finanziamento per sopperire alle spese, si erano trasferite nella nuova casa. Con il gruzzoletto a disposizione avrebbero dovuto pagare l’affitto, sostenere le spese per vivere e magari concedersi anche il lusso di qualche piccolo divertimento. Quella sarebbe stata una vera scuola di vita.
***
L’alloggio, al quale si accedeva attraverso una ripida scala in pietra, era veramente piccolo. Veniva chiamato mansarda, ma risultava un sottotetto abilmente adattato ad abitazione. Nell’insieme però era molto carino: aveva finestrelle con tendine bianche arricciate, pavimenti con mattonelle in cotto e pareti tinteggiate di fresco.
Prima dell’inizio dell’anno accademico si erano organizzate. Ognuna saccheggiò casa e con pochi interventi ben calibrati resero l’appartamento decisamente accogliente. Non mancava nulla; c’erano anche radio, giradischi e un piccolo televisore, qualche poster alle pareti e gli inseparabili peluche sui letti.
Erano fiere del loro lavoro da arredatrici improvvisate. Era necessaria la supervisione dei genitori, ma dopo un’attenta ispezione diedero il consenso anche se a malincuore. Bisognava solo fare le valigie e traslocare.
Carolina fremeva per quella nuova esperienza, ma fu difficile abbandonare casa: le sembrò di recidere il cordone ombelicale che la legava alla famiglia.
Un bacio frettoloso ai genitori per non far trasparire il turbinio di sentimenti che le stava attanagliando la gola e via per la nuova strada.
Anche Claudia, nel momento dei saluti, si sentì persa proprio come Carolina.
Mancavano soltanto pochi giorni all’inizio dell’anno accademico e da perfette padrone di casa invitarono gli amici per l’inaugurazione.
***
Arrivò la mattina dell’inizio delle lezioni.
Il giorno precedente Claudia e Carolina erano state sottoposte a goliardici riti di iniziazione da parte di alcuni amici anziani per conquistare il lasciapassare, il documento che doveva possedere ogni matricola. Ottenere quel foglietto era importante: significava avere libero accesso all’università con la certezza di non subire prepotenze dai gruppi che si accanivano sulle matricole. Le due ragazze, da pavesi, avevano vissuto la goliardia da sempre. Conoscevano l’importanza di quel “pezzettino di carta”, pur non avendolo mai visto.
Finalmente in possesso del documento, lo guardavano incuriosite: non era niente di che. Solo un semplice foglio di quaderno bucato ai quattro angoli e al centro da una sigaretta accesa.
Era sottoscritto dagli anziani e diversi bolli, accanto a ogni firma, corrispondevano agli anni di frequenza.
Compresero l’utilità quando, esibendolo quella mattina, attraversarono indenni l’ingresso dell’ateneo. Chi non lo possedeva era sottoposto a riti di iniziazione quasi al limite del sadismo.
Superata la dogana, si diressero nell’aula ad anfiteatro in cui avrebbero assistito alla prima lezione. Aveva soffitti affrescati e scalini in legno che scricchiolavano a ogni passo.
Erano intimidite e si guardavano intorno estasiate: di fronte a loro il santuario della medicina. Chissà quanti insigni medici le avevano precedute, quali cattedratici avevano occupato in passato quei posti a sedere. Insieme a loro tanti aspiranti medici desiderosi di apprendere.
Nell’attesa del docente un brusio generale riempiva l’aula. Poi eccolo entrare con passo deciso. Si avvicinò alla lavagna luminosa e dopo essersi presentato, iniziò la lezione.
***
Avevano fissato la spesa per il sabato. Le pulizie erano stabilite secondo un rigoroso calendario.
Spesso Carolina si regalava qualche giornata in famiglia per assaporare le prelibatezze preparate dalla madre.
Raramente, quando le finanze lo permettevano, cinema o ristorante.
C’era spazio anche per cenette in casa con amici con la costante presenza di Federico, l’amico di sempre. Lui e Claudia si conoscevano da tempo. Tra loro non c’era mai stato nulla al di là della semplice amicizia, ma le cose stavano cambiando: era evidente che si piacessero.
Fu proprio lui, eternamente presente, che un giorno suggerì alle amiche di provare il ristorante di uno chef emergente di cui tanto si parlava in città.
«Domani ci diamo una botta di vita. Voglio provare una vera cucina» disse, guadagnandosi un’amichevole pacca sulla spalla da Carolina.
Così la sera seguente, indossati gli abiti eleganti, i tre si diressero verso il ristorante.
Nel locale, bello e accogliente, era stato riservato loro un grazioso tavolo in un angolo appartato.
alberto.gallo (proprietario verificato)
Questo libro dimostra come un bel racconto coinvolgente e delicato si può scrivere anche senza far ricorso ad un linguaggio violento e volgare. Una bella storia che si intreccia tra una piccola ed un po’ pettegola città di provincia, Pavia, ed un paese africano nel Burundi dove tra enormi disagi, povertà e malattie, si capiscono i veri valori della vita. Una dolce melodia fra i tanti suoni e frastuoni che ci vengono quotidianamente propinati. Alberto Gallo