Ormai avevo perso la cognizione del tempo, insieme alla mia “compagna di stanza da letto” e a tutta la crew del “Ponte rotto”: il sonno non sapevo più cosa fosse. “Gli incubi? cosa sono? saranno nuovi bicchieri dell’IKEA ordinati dal paron…”.
“Fai ombra a quello sputo di Sole, che pare essersi dimenticato di cosa sia sorgere…levati di mezzo!”.
“Finalmente sto sognando dopo 21 giorni e 22 notti…” mi dissi e, invece, le vibrazioni sonore alla Donita Sparks delle L7 non provenivano dalle cuffie, ma dal tavolino vicino: 7 bis.
Il suo tatuaggio all’altezza della giugulare non mentiva: quel fiore infuocato le donava un’aura di imperio.
“Togliti quelle cuffie, Bruce Dickinson!” continuò la ragazza dalla giugulare tatuata.
“Gli Iron Maiden, no!” e saltai giù dal bancone, dove mi ero sdraiato dopo 8 ore di continuo “cammino da criceto” avanti e indietro, pronto a vedere se quelle fiamme dall’arteria fossero arrivate a oscurarle anche il cuore sotto quello stretto top nero bitume.
“Su una cosa siamo d’accordo, Caparezza… hai filtri? quel maledetto del mio ex anche quelli si è portato via, lasciandomi il conto da pagare… la parità di genere… ah…ah… ah!”.
Così le lanciai la scatola delle Rizla sul tavolino, umido dei bicchieri, che avevano sudato come non mai in questo Giugno monsonico: “Prendi pure, sto smettendo…”
“Tu?! che in un’ora avrai approfittato di almeno dieci pause, per drummare…siete i soliti voi maschi” sottolineò.
“Sono senza speranza?” aggiunsi.
“Sì, anche quella ti avrà schifato e lasciato, oltre a un odore di roba scadente…” rincarò la dose, abbassando la mia autostima, ma proiettandomi oltre le nuvole per quella voce griffata delle cose rare ed extraterrestri.
“Siamo soli…” mi usciì dalla bocca solo questo, prima di accendermi una delle ultime cicche posate lì da Enrico, il solito smemorato cliente del Giovedì sera.
“…proprio come quell’affare che non smette di sorgere ogni giorno: vivrei la notte H24, ma non avrebbe fascino, in fondo…”
Raccoglievo carte, vassoi, bicchieri e sistemavo gli ultimi tavoli e sedie, mentre Lucy faceva cassa: “Ti chiami Stella? in fondo, la notte ha bisogno di luce per avere senso…” e prendevo gli ultimi sacchi di spazzatura, dirigendomi ai cassonetti.
“Micol, piacere, tu…Idiota, forse?” guardandomi dal basso in alto.
“American Idiot… solo per gli amici, però!”. Le bottiglie, nel frattempo, si fracassavano una dopo l’altra come metallo da un TIR incidentato.
“American…sarà il cognome, immagino”. Il suo sarcasmo era roba buona: la prima roba buona da tempo, tanto tempo: almeno da due anni, da quando varcai in direzione contraria (…alias “per sempre”) la soglia del Dipartimento di Lettere.
“Stiamo chiudendo, altrimenti avresti vinto una bevuta gratuita…il bar Fontana sarà aperto: visto che siamo soli, brilliamo… le nuvole non promettono una mattinata luminosa”.
“Poeta, ti manca l’ABC del rimorchio: intanto, beccati questa cicca smezzata. Vedo che sei già in astinenza dopo cinque minuti! Ti chiamerò American Poet…”
“In effetti, il mio secondo nome è Allen: Salvo Allen Di Carmine, per servirla, anche se… ti ho già servito mezzora fa, anzi…Vi …” e mi bloccò con un’occhiataccia di sottecchi.
“Ma che roba sei, American Poet?! un figlio della Beat Generation fuori tempo massimo?!”.
“Micol come Allen richiama la Letteratura… il Giardino dei Finzi Contini, argomento di uno dei miei esami del primo anno…” e la guardai, inarcando sorriso e occhi.
Partì un applauso dal bancone: scrosciante, a tratti, ed esilarante come una presa per i fondelli.
“Giuseppe! smettila!” era Lucy dal retrobottega, inopportuna come sempre.
“Come dovrei chiamarti allora, American Poet? dai! lo scopriremo al Bar Fontana… prendi le chiavi!” e me le lanciò. “Le ho prese in prestito dalla metà del Vi dopo che mi ha fatto la radiografia con le sue mani a casa sua…”
“Cleptomane…”
“Chi lui? non ha preso nulla se non un bacio… se intendessi me, invece, non direi, ma tutto ha un prezzo e quella moto verde fluo è il prezzo almeno per un paio di giorni per la radiografia che mi ha fatto…”
“Il conto chi lo paga, Giuseppe??” era ancora Lucy, sempre più inopportuna.
“Scalalo dalla mia paga…” e guardando Micol Le dissi: “Tutto ha un prezzo”.
“Sei impedito anche con le moto oltre che con le ragazze? Lascia fare a me…” e mentre me lo diceva, mi guardava voltando lo sguardo luminoso di mascara in disfacimento e di tre/quarti anche la schiena che di traverso al laccetto del top aveva una scritta in spagnolo, porta di accesso a uno stargate o velo di Maya da spezzare al caso.
La moto rombava adesso, mentre un ginocchio era piegato sul pedale e le Doctor Martins erano sporche di fango: “… il sole non aspetta… io non aspetto”.
Montai su e mi aggrappai alla sua vita: avrebbe sentito il mio cuore. Il suo sembrava non esserci se non come ruscello lieve che confonde battito e respiro.
Il top sapeva di corpi velocemente consumati, di vino, gin e gioia non effimera: quell’emozione che ci tiene in vita come aggrappati a una falesia sospesi tra pericolo e adrenalina.
Le curve non sapeva nemmeno cosa fossero, tagliandole affilatamente come anche il codice della strada visto che aveva preso il ponte della Vittoria contromano.
Adrenalina, sarà il suo secondo nome.
“Peccato! ha chiuso poco fa…”
Così tirai fuori dallo zainetto la mia riserva speciale, in “ghiaccio” da 22 notti.
“Mi sa che ti scalerà l’intero mese, American Idiot…” disse, mentre si legava i capelli con un elastico rosso e mostrava due scritte sui bicipiti “My… Col”.
“…domani mi licenzio”.
“Ti te si fora come Allen Ginsberg durante la declamazione dell’Urlo…non ho dubbi ora” e si sedette sul prato laddove fino a un anno fa c’era una panchina e un grande albero.
“Spesso penso di sì, ma stando fora si respira aria buona…” e apriì le due Guiness.
“Secondo me, riesci pure a formare una rosa con la schiuma a furia di gargarismi…” disse Micol, sorridendo. Era la prima volta che la vidi leggera, incurvare le labbra per un sorriso, come libera da una gabbia.
“Per quello non mi sto allenando e, intanto, al volo…”
Sorpresa dal lancio, Micol, mancò la mira per poco e la birra si versò tra collo e spalla, scivolando sul fianco.
“Nemmeno rugbysta sei! vediamo se sei bravo come cavaliere…”
Si sfilò il top e me lo lanciò addosso. “Così siamo pari…ora tocca a te sfilarti la maglietta, Caparezza!” urlò sghignazzando.
“Ci mancherebbe! solo se…” non terminò la frase che mi vidi i polsi arpionati e bloccati e i miei occhi che non miravano più il Dolada e i monti dell’Alpago, ma il cielo nuvoloso e due nuove inaspettate stelle: i suoi occhi da cane lupo.
L’aria odorava di Guiness e Sudore, balsamo per capelli di MD e trinciato per Pipa: i suoi capelli mi incorniciavano il torace, mentre la mia maglietta si sollevava solo con la sua bocca per fermarsi sull’ombelico. Anche se mi avesse lasciato i polsi non l’avrei fermata: “American Idiot, che pensi? che scenda più giù?! eh no… Tutto ha un prezzo… fai da cavaliere e togliti quella maglietta col faccione di Michele Salvemini che ho brividi di freddo. Non montarti la testa, non sei tu la causa dei brividi!”
Le indicai con gli occhi lo zaino: avevo una felpa nello zaino. “Sei duro di comprendonio, Poeta delle cause perse, ma… la felpa è un giusto prezzo. Questo zaino è la borsa di Mary Poppins!”.
“Non ti avevo mai visto prima al bar…”.
“Sono di passaggio, come questa moto…”
“Anche io”
“Tu hai lo sguardo di uno che vuole radicarsi, che non ama viaggiare, se non con la fantasia e la mente”
Ci aveva visto giusto con quegli occhi da cane lupo: mi aveva braccato.
“Pertanto, fatti un trip…” e si tolse, come fosse una parte in commedia che conosceva bene, le Doctor Martins, la felpa, i jeans e come Venere all’inverso si restituì all’acqua correndo verso il Piave.
“Che fai, American idiot? Viaggi ancora con la mente e la fantasia?? Ricordati che soffro di freddo…”
In quel momento il gelo scese e il freddo lo avevo io.
“Come si sta dall’altro lato della notte? sbaglio o lo avevi detto tu un’ora fa? hai l’opportunità di scoprirlo…”.
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