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Irene, detta “Nene”, sa che è arrivato il Giorno del Giudizio: il giorno in cui un esame medico decreterà il suo futuro, anche se crede di non averlo più un futuro. Ma a lei, follemente felice nell’infelicità, forse va bene così. E allora Nene, squisitamente inadatta alla vita, accetta il fato e capisce di essere pronta a lasciare per sempre sua figlia, suo marito e i suoi affetti più cari. Ma se l’esame andasse bene? Se una nuova vita le piombasse inaspettatamente addosso, cosa accadrebbe? Sarebbe in grado di riprendere il suo film nell’attimo esatto in cui è stato interrotto e gestire nuove ore, nuovi giorni? Saprebbe amarsi anche in fuga, capovolta, invertita? Saprebbe amare “neNe”?

Davvero non può passare una giornata senza che ci sia un problema? Eppure, abbiamo spesso nostalgia di quelle giornate in cui tutto va liscio, in cui ti svegli al mattino rilassata (di solito è una domenica, è sempre una domenica), fai una bella colazione ricca, c’è un po’ di sole e… E che cosa? E sei felice.

Davvero sono esistite giornate così? Perché se non può passare una giornata senza che ci sia un problema allora il ragionamento non regge mica.

Quando è occorsa questa fatidica giornata perfetta? Che domenica era? La scorsa? Quella prima ancora? Quella di quando avevo nove anni e mi ero messa d’accordo con la mia amica Giulia per trascorrere la mattinata a casa sua?

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Giulia aveva sempre un gioco nuovo da mostrare, benedetta ragazza! E sua madre preparava sempre i panini al latte con la Nutella per merenda.

A casa mia la Nutella non si poteva comprare: esisteva una specie di patto non scritto, un editto emanato da un saggio re che governava sapientemente le nostre abitudini alimentari e che, perentorio, giudicava ciò che era adatto a essere introdotto nelle nostre budella e ciò che invece ci avrebbe ammazzato lentamente. La Nutella era in cima alla lista degli alimenti proibiti, la mela rossa nel giardino dell’Eden: cogliendola magari non avresti scatenato il peccato originale, ma comunque una punizione divina te la saresti meritata tutta; e zitta!

La mamma di Giulia doveva per forza essere un serpente, una specie di moderno ingannatore che spalma crema di nocciole dentro morbidi panini e te li porge con un sorriso che nasconde in verità un male infinito, una colpa atavica, e chi se ne frega se quella colpa è così dolce, se scende leggera lungo la gola e fa brillare fuochi d’artificio alla serotonina tra i tuoi neuroni.

Le mattine da Giulia erano così belle… Per questo parlavo sempre di lei in casa, lodandola come la mia amica più leale, più buona, più pura. Alla parola purezza mia madre si scioglieva come il tortino al cuore di cioccolato della zia Iole, invitandomi caldamente a non cambiare questo tipo di compagnia per nessuna ragione: “È meglio tenersele strette queste amicizie!”. E continuava: “Infatti, dovresti smetterla di stare con Arianna. Tu e Giulia state benissimo da sole. O al massimo potresti frequentarti anche con Rebecca, che mi sembra una brava ragazza…”.

Povere Arianna e Rebecca, anime candide giudicate con un metro ingiusto e crudele: la loro famiglia. Se la famiglia era buona, allora la si poteva frequentare. Come a dire: “Quell’albero ha delle belle fronde, non può che fare dei buoni frutti: ingozzati!”. Oppure: “Ma nessuno ha potato quella povera pianta? Guarda come è malmessa: tocca un solo frutto e cadrai a terra avvelenato, per forza!”.

Rebecca era un buon frutto perché la sua pianta madre – e di sua madre infatti si parlava – era agli occhi della mia una donna parca, di buon cuore, che andava a messa ogni domenica, aveva la decenza di non abbinare più di due colori nel suo vestiario e, soprattutto, parlava poco; annuiva più che altro. Il discorso nella testa di mia madre doveva essere più o meno questo: “Se questa donna così decorosa annuisce quando parlo con lei, vuol dire che la pensa come me, dunque deve per forza essere una brava persona!”. E vista la scientificamente provata proprietà transitiva dell’animo buono che, senza dubbio, attraversa la placenta arrivando dritto dritto al feto, Rebecca non poteva che divenire un essere eccelso e squisito.

Sorte opposta per la povera Arianna. Il giudizio di mia madre era inequivocabile: “Ha una madre sciatta, arcigna, proveniente da un quartiere un po’ così…”.

Un po’ così è l’eloquente espressione con cui mia madre definisce ciò che non è per nulla ottimale. Se un quartiere ha fama di essere poco sicuro e abitato per più del 50% da extracomunitari diviene un po’ così, e anche le persone che lo abitano sono un po’ così, con delle abitudini un po’ così e che pensano e dicono cose un po’ così. Soprattutto, il dire cose un po’ così era per mia madre, e lo è tutt’ora, un rospo verde che proprio non riesce a mandare giù.

La discrepanza tra le due donne era evidente: da una parte la mamma di Rebecca che annuiva sorniona, dall’altra la mamma di Arianna che diceva cose un po’ così. Non c’era partita per quella povera creatura: nove mesi di sangue un po’ così conducono a una bambina un po’ così che sarebbe meglio non frequentare.

Invece a me Arianna piaceva. Mi piaceva anche Rebecca, per carità, ma preferivo Arianna, forse proprio perché mi veniva rappresentata come qualcosa di proibito da cui stare alla larga. Era un panino alla Nutella anche lei.

Se non potevo passarci i pomeriggi assieme, mi piaceva almeno godermela a scuola, soprattutto durante la ricreazione, quando si formano quei gruppetti animaleschi, quei branchi spietati generati direttamente dalle mani di Madre Natura che ti fanno un po’ da seconda famiglia.

Io mi ero scelta il branco delle Principesse: figuriamoci se una bambina non aspirava a essere incoronata e annoverata tra quelle splendide creature fiabesche che Walt Disney ha consacrato come esseri divini. Be’, anche Arianna, Rebecca e Giulia non volevano rinunciare alla loro corona, e a ragione pensavo io: nessuno dovrebbe rinunciarvi, per la miseria! Così ce ne stavamo lì a trasformarci chi in Belle, chi in Ariel e chi, con un’indole più selvaggia, in Pocahontas.

I maschi? Ma chi se li filava! Non era il tempo degli amori, per noi. Le principesse dentro le loro pellicole potevano pure perdere la testa per la Bestia, per il principe Eric sul suo veliero e per quel conquistatore di John Smith, ma noi, che una qualche matrigna cattiva aveva confinato tra i banchi della IV A, non pensavamo proprio di cadere ai piedi di un qualunque compagno di classe. Al massimo soltanto Belle avrebbe potuto, che quei ragazzi erano tutti Bestie…

A pensarci bene, neanche le mattinate a casa di Giulia erano così perfette.

 

2023-05-05

Evento

Biblioteca di Valmorea (CO), Via Roma 812 Una piccola presentazione per raccontare Nene e neNe, per raccontarmi e per incontrarci. Dice Calvino: "Scrivere è nascondere qualcosa in modo che poi venga scoperto"...e allora quale miglior modo di scoprirlo se non insieme?
2023-03-29

Aggiornamento

Cari amici, grazie! Abbiamo superato il traguardo delle 200 copie vendute e così neNe potrà prendere il suo corpo di parole e vestirlo di pagine. Ho detto "amici", sì, perché di amici si tratta quando si parla di fiducia. Mi è sempre piaciuta l'immagine, non di mia creazione, del patto di fiducia che si instaura tra scrittore e lettore. Chi legge crede. Crede che gli avvenimenti di cui sta leggendo siano reali e li vive come tali. Lo sa bene, il lettore, che non per forza ciò che è stato scritto sia vero eppure, per un accordo tacito e piacevolissimo, ci crede. E il suo corpo crede con lui, così che il respiro si fa corto, rapido e superficiale ad ogni colpo di scena, l'umore muta e si incupisce se qualcosa, nel racconto, va storto o al contrario si sorride, si sorride davvero o si ride addirittura leggendo una qualche frase comica o audace. Spero che accada tutto questo. Spero veramente che dopo aver creduto in me crediate anche a questa storia. Io, facendovi l'occhiolino, ci credo molto. Grazie.

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Pietro Guacci
Nasce ad Ancona nel 1994 e trascorre l’infanzia condividendosi tra famiglia, scautismo, mare e un pizzico di montagna. Frequentando il Liceo Classico, scopre l’amore per il teatro e la scrittura, per poi laurearsi in Medicina e trasferirsi a Varese, dove lavora come specializzando in Pediatria. Attratto da sempre 
dal comportamento umano, fa il suo esordio letterario con neNe, ritratto complesso di un animo e una mente in tumulto.
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