A casa mia la Nutella non si poteva comprare: esisteva una specie di patto non scritto, un editto emanato da un saggio re che governava sapientemente le nostre abitudini alimentari e che, perentorio, giudicava ciò che era adatto ad essere introdotto nelle nostre budella e ciò che invece ci avrebbe ammazzato lentamente. La Nutella era in cima alla lista degli alimenti proibiti, la mela rossa nel giardino dell’Eden: cogliendola magari non avresti scatenato il peccato originale, ma comunque una punizione divina te la saresti meritata tutta. E zitta! Quindi la mamma di Giulia doveva per forza essere un serpente, una specie di moderno ingannatore che spalma crema di nocciole dentro morbidi panini e te li porge con un sorriso che nasconde in verità un male infinito, una colpa atavica, e chi se ne frega se quella colpa è così dolce, se scende leggera lungo la gola e fa brillare fuochi d’artificio alla serotonina trai tuoi neuroni. Per questo le mattine da Giulia erano così belle, e per questo parlavo sempre di lei in casa lodandola come la mia amica più leale, più buona, più pura. Alla parola “purezza” mia madre si scioglieva come il tortino con il cuore al cioccolato della zia Iole e mi invitava caldamente a non cambiare per nessuna ragione questo tipo di compagnia, che: «È meglio tenersele strette queste amicizie!», e continuava: «Infatti dovresti smetterla di stare con Arianna. Tu e Giulia state benissimo da sole, o al massimo potresti frequentarti anche con Rebecca, che mi sembra una brava ragazza…».
Povere Arianna e Rebecca, anime candide giudicate con un metro ingiusto e crudele: la loro famiglia. Se la famiglia era buona, allora la si poteva frequentare, come a dire: «Quell’albero ha delle belle fronde, non può che fare dei buoni frutti: ingozzati!», oppure: «Ma nessuno ha potato quella povera pianta? Guarda come è malmessa: tocca un solo frutto e cadrai a terra avvelenato, per forza!».
Rebecca era un buon frutto perché la sua pianta madre, e di sua madre infatti si parlava, era agli occhi della mia una donna parca, di buon cuore, che andava a messa ogni domenica, aveva la decenza di non abbinare più di due colori nel suo vestiario e, soprattutto, parlava poco, annuiva più che altro. Il discorso nella testa di mia madre doveva essere più o meno questo: «Se questa donna così decorosa annuisce quando parlo con lei, vuol dire che la pensa come me, dunque deve per forza essere una brava persona!». E vista la scientificamente provata proprietà transitiva dell’animo buono che indubbiamente attraversa la placenta e arriva dritto dritto al feto, Rebecca, per essersi beccata nove mesi di animo buono via cordone ombelicale, non poteva che divenire un essere eccelso e squisito. Sorte opposta per la povera Arianna. Il giudizio di mia madre era inequivocabile: «Ha una madre sciatta, arcigna, proveniente da un quartiere “un po’ così…».
“Un po’ così” è l’eloquente espressione con cui mia madre definisce ciò che non è per nulla ottimale: dunque, se un quartiere ha fama di essere poco sicuro e indubbiamente abitato per più del 50% da extracomunitari diviene un quartiere “un po’ così”, e le persone che lo abitano sono persone “un po’ così”, che hanno delle abitudini “un po’ così” e pensano e dicono cose “un po’ così”. Soprattutto, il dire cose “un po’ così” era per mia madre, ed è tutt’ora, un rospo verde che proprio non si riesce a mandare giù. Così, la discrepanza tra le due donne era evidente: da una parte la mamma di Rebecca che annuiva sorniona, dall’altra la mamma di Arianna che diceva cose “un po’ così”. Non c’era partita per quella povera creatura: nove mesi di sangue “un po’ così” conducono ad una bambina “un po’ così” che sarebbe meglio non frequentare. Invece a me Arianna piaceva. Mi piaceva anche Rebecca, per carità, ma preferivo Arianna forse proprio perché mi veniva rappresentata come qualcosa di proibito da cui stare alla larga: era un panino alla Nutella anche lei. E se non potevo passarci i pomeriggi assieme mi piaceva almeno godermela a scuola, soprattutto durante la ricreazione, quando si formano quei gruppetti animaleschi, quei branchi spietati generati direttamente dalle mani di Madre Natura che ti fanno un po’ da seconda famiglia.
Io mi ero scelta il branco delle Principesse: figuriamoci se una bambina non aspirava a essere incoronata e annoverata tra quelle splendide creature fiabesche che Walt Disney ha consacrato come esseri divini. Beh, anche Arianna, Rebecca e Giulia non volevano rinunciare alla loro corona, e a ragione pensavo io: nessuno dovrebbe rinunciarvi, per la miseria! Così ce ne stavamo lì a trasformaci chi in Belle, chi in Ariel e chi, con un’indole più selvaggia, in Pocahontas.
I maschi? Ma chi se li filava! Non era il tempo per noi degli amori: le principesse dentro le loro pellicole potevano pure perdere la testa per la Bestia, per il principe Eric sul suo veliero e per quel conquistatore di John Smith ma noi, che una qualche matrigna cattiva aveva confinato trai banchi della quarta A, non pensavamo proprio di cadere ai piedi di un qualunque compagno di classe. Al massimo, soltanto Belle avrebbe potuto, che quei ragazzi erano tutti Bestie…
Comunque, neanche le mattinate a nove anni a casa di Giulia passate a ingozzarsi di panini al latte pieni di Nutella alla fine erano così perfette. Il fratello di Giulia spesso e volentieri ci faceva dispetti. In futuro quel ragazzo mi avrebbe fatto perdere la testa come Ariel per Eric, è vero, ma in quelle giornate lo temevo, temevo i vermi che correva a prendere dentro i vasi dei gerani che trionfavano fieri sul balcone, per poi rincorrerci minacciando di infilarceli dentro le magliette, e temevo gli agguati che teneva dietro le porte quando percepiva che una di noi sarebbe andata al bagno e, lupo cattivo, si nascondeva lungo quel bosco che era il corridoio e saltava fuori ululando selvaggiamente, terrorizzando la sventurata Cappuccetto Rosso di turno.
Per questa bella storia ho imparato a trattenere la pipì fino al momento più critico, quando la vescica guarda in su e dice al cervello: «Senti bello mio, o dici a questa scema di correre in bagno o io qui sgancio la bomba e le faccio fare una figura di merda davanti a tutti! Chiaro?». Il dottore dice che ho la vescica “sfiancata” e che in futuro potrebbe darmi problemi: grazie tante fratello bello di Giulia, lo sai che ne ho una sola di vescica? E ora fa pure schifo.
Quindi no, le mattinate perfette che ci ricordiamo in realtà non le abbiamo mai vissute. Ci fanno solo credere di averle vissute, Loro! I complottisti (tra cui a volte mi annovero perché ammetto che ogni tanto piace anche a me crogiolarmi nel caldo abbraccio di una realtà che è così brutta solo perché Loro hanno deciso così, e tante grazie!) imputano tutti i peccati del mondo ad un gruppetto più o meno ristretto di teste calde, dei burattinai buontemponi e miliardari a cui le cose vanno bene fin tanto che il mondo rimane governato dai loro sottili e invisibili fili di soldi e potere. Loro quindi, per imbambolarci tutti, si rifanno al buon vecchio panem et circenses ma, poiché a volte il panem manca e quella della moltiplicazione dei pani è una storia già sentita, utilizzano solo i circenses passando, ovviamente, attraverso quei neri strumenti di potere che sono i televisori, i cellulari e i computer. Da questi, dice il complottista, fuoriescono immagini e contenuti mostruosi, gli idoli di una realtà grottescamente alterata e adulterata con sprazzi di perfezione che non appartengono a nessuno. In poche parole, tutto quello che ci viene proposto è spazzatura per tenerci buoni. La famiglia felice della colazione nel mulino? Tutto finto! Il soldato che torna a casa e fa una sorpresa alla moglie che lo pensava saltato in aria sopra una mina antiuomo? Tutto sapientemente costruito! Il Gabibbo che fa passare per divertente la frattura scomposta della terza vertebra toracica che si è procurato quel povero Cristo rovinato a terra scivolando sulle scale bagnate in mezzo alle risate degli amici che riprendevano goliardici la scena? Giustissimo! In ogni caso, pare proprio che non si possa avere, fuori dal televisore, una giornata senza problemi.
Penso questo mentre raccolgo le foglie di tè verde himalayano che mia figlia Claudia ha deciso si seminare sul pavimento della cucina.
«Evitiamo di spargere per terra il tè per favore?» Dico in tono piatto e così a bassa a voce che Claudia, al di là della casa, con lo scaldabagno acceso perché è dicembre e fa freddo – ma si può uscire con le caviglie scoperte e le maniche a tre quarti – e il cellulare che urla una canzone con accento latino-americano, non può proprio sentire.
Mi volto e vedo la scopa nell’angolo della cucina. Questa mi guarda con fare sconsolato, come a volermi dire “Che vuoi farci vecchia mia, non lo sapevi? Non lo sapevi che le adolescenti sono così? Dai forza, ti aiuto a raccogliere quella roba! A proposito: ma adesso tutte le mattine il tè dell’Himalaya? No, perché fino a poco tempo fa ero abituata a raccogliere le tisane artigianali che produce quell’erboristeria in centro. Non mi lamento, sia chiaro: quelle si attaccavano alle setole e dovevi tirarmele via con la forza. Un male! Il tè himalayano invece viene via più facilmente…”. L’afferro senza troppe cerimonie, tiro su il tè e lo ammucchio nell’angolo, ci penserò stasera a buttarlo: ora ho bisogno di un caffè.
Claudia entra in cucina, guarda la scopa e il mucchietto di tè e mi sorride colpevole. Devo volerle molto bene. Sì è così, lo sento. Se non altro, da quel travaglio di otto ore è uscita questa splendida creatura. Lì per lì non lo avrei immaginato, anzi, avrei preso quell’essere che mi stava lacerando da dentro, che per l’affitto di nove mesi mi pagava facendomi aumentare la pressione e minacciando un aborto, e gli avrei detto che poteva scegliersi l’utero di un’altra, che io al contrario di quello che stava facendo lei ero venuta al mondo in modo pacifico e tranquillo, non l’avevo mica angosciata così, mia madre: un giorno mi sono rigirata nel pancione e qualche ora dopo ero fuori a fare il mio pianto senza che nessun medico abbia dovuto darmi la sculacciata di benvenuto. Ho pianto da me e me lo sono subito guadagnato da sola quell’ossigeno. Invece Claudia ha fatto l’entrata in grande stile: “preeclampsia” l’hanno definita i medici, una brutta storia che mette a repentaglio la vita di madre e bambino. Ma ora siamo qui, quindi è andato tutto bene.
Claudia profuma. Profuma sempre perché se ne spruzza litri di profumo, ma avrebbe un buon odore anche se non lo facesse. Conosco l’odore di mia figlia: miele di castagno, secondo me. Ha il naso un po’ grosso ma io lo ritengo un pregio. A lei non piace e dice che quando avrà i soldi andrà da un chirurgo plastico che ci passerà una pialla sopra e lo renderà piccolo e appuntito come quello delle attrici di Hollywood. Io rispondo sempre «Si, vabbè!», un po’ perché non voglio crederci che voglia cambiare per assomigliare a qualcun altro, un po’ perché la conosco e so che sviene per l’ago del vaccino… figuriamoci se deve andare sotto i ferri!
Ha tagliato da poco i capelli e le stanno molto bene, ma quei felponi, sempre quei felponi! Alla sua età a noi ragazze piaceva vestirci carine, un po’ come bambole da curare. Oggi invece va di moda questa cosa dello sciatto. Claudia non è per niente sciatta, vuole solo apparire tale. Afferra una fetta biscottata.
«C’è ancora la marmellata di mirtilli in frigo? Quella della montagna?» Dice con fretta.
«No, l’hai finita ieri, cara. Ma c’è quella alle fragole se ti va…» Conosco già la risposta.
«Che schifo! No, vabbè, allora ci metto la Nutella! Ma perché continuiamo a comprare la marmellata alle fragole? A me piacciono le fragole come frutto, ma detesto le cose al gusto di fragola. Tipo le gomme da masticare alla fragola, il gelato alla fragola, lo sciroppo per la tosse alla fragola…»
«Guarda che la marmellata di fragole non è “al gusto di fragole”, sono effettivamente fragole con lo zucchero e qualche colorante o conservante, insomma uno di quei numeri che seguono la lettera “E”… tipo E252, che è un modo di chiamare il nitrato di potassio. Alla gente fa meno brutto mangiarsi una cucchiaiata di E252 piuttosto che di nitrato di potassio. Li fa sentire meno colpevoli e più al sicuro » sentenzia icasticamente Riccardo entrando in cucina.
Riccardo è mio marito.
«Si, vabbè…» risponde Claudia spalmandosi una generosa cucchiaiata di Nutella sulla fetta biscottata.
In casa mia non manca mai. Io ne ho patito l’assenza da giovane ed ora, anche se la tocco molto raramente, mi consola e mi rassicura sapere che un barattolo di quell’oro marrone, di quella felicità spalmabile, è a portata di credenza. Però glielo dico sempre, a Claudia, di non esagerare. E anche oggi: «Non esagerare!» sbiascico buttando giù una sorsata di caffè, «Che poi è inutile che ti compri quella roba là, come si chiama? L’acqua luminosa, il liquido fluorescente…»
«La Luce Liquida» mi corregge asciutta.
«Sì esatto, quella pozione antibrufoli che costa quanto un rene al mercato nero».
«E tu che ne sai di quanto costa un rene al mercato nero?» se la ride Riccardo mischiando al latte intero una polvere magica: un intruglio della peggior specie composto da aminoacidi ramificati, proteine complesse della soia, carnitina e, ovviamente, aloe vera.
«Perché mi sono cominciata ad informare proprio quando hai iniziato a fare colazione con quella roba» rispondo sardonica. «Mi sono detta: cara Nene, un giorno ti chiameranno dall’ospedale per dirti che tuo marito è attaccato ad una macchina che gli pulisce il sangue, un emodializzatore…».
«Un emodializzatore?» Ride confuso, ma io un po’ scherzo e un po’ no.
«Sì sì, hai sentito benissimo: un emodializzatore! È una specie di gigantesca pompa che ti prende il sangue da una parte, lo pulisce e te lo schiaffa dentro nuovamente lindo e pinto! E sai cosa? Non ce ne sarebbe bisogno in realtà, dell’emodializzatore. Quante persone conosci che lo usano? Su, dimmi!»
Riccardo alza gli occhi al cielo mentre mescola le sue polveri magiche al latte caldo. Un intenso odore di vaniglia artificiale, sicuramente uno di quegli E283 o similare, riempie la cucina.
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