Lo aveva scoperto per caso su un canale di freestylers su Youtube ai tempi di Section.80, un album così tanto hip hop che non sembrava il disco di esordio di un ragazzo poco più che ventenne. Decise, così, di seguire attentamente tutti i suoi movimenti (nonostante non fosse tanto facile, visto che Instagram non era ancora così diffuso in Europa), fino all’album che lo presentò alla scena mondiale come il giovane Messia dell’hip hop americano, quello che avrebbe riportato il rap al suo stato originale, il bravo bambino a Los Angeles: Good Kid, M.A.A.D City, un album che Mario ha ascoltato all’infinito senza saltare mai nemmeno una traccia. Qualche anno dopo arrivò To Pimp a Butterfly, un prodotto ancora più maturo, un concept album dove, tra una traccia e l’altra, viene recitata una poesia, una dedica, un’ode a Tupac; una scelta rischiosa, ma riuscita, per chi deve consacrarsi nell’Olimpo del rap.
Il ragazzo di Compton divenne una stella mondiale, a ventisette anni aveva vinto tutti i premi possibili, venduto milioni di dischi con testi conscious e beat di spessore, mettendo d’accordo puristi dell’hip hop e nuove leve della trap, idolatrato dai fan e rispettato dai colleghi. Un successo planetario. Fino a quando uscì con DAMN, disco ancora più maturo (anche se personalmente preferisco i due precedenti) che lo ergeva ancora di più a star planetaria, permettendogli di vincere addirittura il Premio Pulitzer per la narrativa, onorificenza di cui mai nessun musicista prima di allora era stato insignito.
Quando uscì questo disco, Mario stava attraversando un periodo un po’ particolare, solitario, veniva da una separazione dolorosa, e non ancora ben digerita, dall’ex compagna con la quale viveva insieme da tre anni; era tornato a vivere con altri inquilini, ospite del suo amico Valerio in una fredda mansarda di una casa a tre piani a Phibsboro, quartiere residenziale a venti minuti a piedi dal centro di Dublino. Era una po’ nostalgico, quasi deluso, gli sembrava di aver fatto un passo indietro nel suo percorso di crescita. Insomma, fino a sei mesi prima parlava di matrimonio e figli e subito dopo si ritrovava a vivere di nuovo come uno studente in Erasmus con un lavoro che, per quanto non particolarmente emozionante, ai tempi regalava grandi gioie economiche, ma soprattutto era l’unica certezza in mezzo a uno stile di vita scapigliato, vizi prepotentemente riemersi e compagni di viaggio improvvisati e insicuri almeno quanto lui.
Ed era proprio quella frase che veniva spesso ripetuta durante l’intera riproduzione dell’album ad averlo colpito: “Ain’t nobody prayin’ for me”, nessuno prega per me. Mentre ascoltava per la prima volta il disco disteso su quel letto scassato in mansarda, un venerdì pomeriggio, Mario pensava a come la musica fosse in grado di capirti e accompagnarti in ogni istante. In quei mesi così intensi e tormentati, nessuno era riuscito a dedicargli una frase di sollievo, un gesto di supporto; per carità, non che Valerio non lo avesse aiutato, ma in quel periodo erano tutti presi dalle loro vite e completamente travolti da quel vortice impazzito che era la Dublin nightlife.
Quella frase invece aveva colpito Mario in pieno, “Ain’t nobody prayin’ for me”, come se il suo rapper preferito, in un colpo solo, gli avesse restituito tutto ciò che in quegli anni Mario gli aveva dato in termini di passione/supporto/download/ascolti dicendogli queste semplici parole: “Mario, svegliati, che qua nessuno prega per te, rialzati e capisci cosa vuoi dalla tua vita, fermati un attimo a pensare, scendi dalla giostra, prenditi un turno di riposo, hai bisogno di pensare a te stesso, di trattarti bene, mangiare bene, non spaccarti”. E così, quel venerdì Mario se ne restò a casa da solo tra lo stupore e la preoccupazione di amici e conoscenti, che lo chiamarono fino a mezzanotte invitandolo all’ennesima serata di eccessi.
L’artista in questione è Kendrick Lamar Duckworth, uno dei più influenti dei nostri giorni, ma non è di lui che vi voglio parlare. Nossignore, lui e il suo grandioso concerto alla O2 Arena sono solo lo sfondo, la scenografia di ben altro.
Ma procediamo per passi.
Mario era in salotto che si girava una sigaretta di Amber Leaf, tabacco che tutti consideravano una merda perché umido e fastidiosissimo da fumare, ma per Mario era il meno peggio. Lui, abituato a fumare Marlboro Lights, a Dublino le aveva onestamente sostituite con quel tabacco bagnato per una mera questione di costi-benefici, perché in Irlanda è impossibile per un italiano essere fumatore di sigarette: se vieni da cinque euro a pacchetto e poi te ne chiedono undici per lo stesso e non guadagni duemila euro al mese, ripieghi sul tabacco, qualunque esso sia. Mario sorrideva quando amici e conoscenti disquisivano su quale tabacco fosse migliore, “quello è troppo umido”, “quello è troppo secco”, e pensava: Perché non dite la verità, che non volete spendere soldi per fumare Marlboro o Camel che costano dieci/undici euro a pacchetto invece di fare gli esperti di tabacco, che quando eravate al liceo non lo avreste fatto fumare neanche al cane?
Comunque, Mario aspettava Karim. E Karim come al solito era in ritardo. Karim è una di quelle persone a cui dai un appuntamento mentendo sull’orario, nel senso che gli dici mezz’ora prima quando invece lo aspetti per mezz’ora dopo, ma Karim è nel gotha dei ritardatari, cioè quelli che sanno di essere ritardatari e sono considerati tali, per cui non solo immagina che gli sia stata detta una determinata ora a causa del suo status di king dei ritardatari ma a quel punto recupera quella mezz’ora di scarto e si presenta mezz’ora più tardi: in pratica gli dici le sei, lo aspetti per le sei e trenta e si presenta alle sette. Inappuntabile, no?
Così arrivarono le sette e Karim era fuori casa di Mario, puntualissimo secondo i suoi standard: aspettava in macchina tranquillo e sorridente, intento a buttare likes qua e là su foto di profili Instagram di giovani attrici da serie Netflix (per lui era sempre tutto così, tranquillo e sotto controllo). Fumava la sua Marlboro rossa con il braccio fuori dal finestrino, occhiali da sole a mascherina, capelli all’indietro ingellati, jeans strappati sulle ginocchia, stivali camperos e una camicia bianca con una stampa di soli gialli accecanti. Karim era un cultore delle camicie improbabili, ne aveva tantissime e una più introvabile dell’altra: era il Pacho Herrera delle camicie improbabili. Aveva uno stile quasi buffo e fuori dal tempo ma ti affascinava proprio per il suo essere fuori dalle mode, per gli abbinamenti incoscienti e gli indumenti che vedevi solo addosso a lui, che poi chissà dove cazzo li comprava.
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