La filosofia del treno TranEuropea non contemplava confini di sorta da Reykjavík fino a San Pietroburgo. Il suo unico limite era quello di dover seguire le rotaie e non poter sconfinare mai, come tutti i treni che si rispettino. Ogni tanto, tuttavia, accadeva che nel suo immenso tragitto sorgessero nuove città, o i fiumi straripassero o le montagne crollassero, e allora migliaia di uomini si arrotolavano le maniche, e senza quasi proferire parole risistemavano le rotaie con un bel po’ di fantasia, tanto che mappare il suo percorso era diventata un’impresa totalmente vana data la celerità del suo modificarsi. Così, a vedere il corso delle rotaie da una mongolfiera o da un aereo, si sarebbe detto che gli ingegneri fossero completamente pazzi o completamente ubriachi o forse entrambi, e allo stesso tempo che fossero stati ispirati da un’ingegnosità più che umana nel produrre tanta magnificenza. La TranEuropea era l’orgoglio della sfavillante creatività tecnologica del ventesimo secolo. Non c’era in tutto il mondo, dalle piramidi zapoteche fino ai muri della muraglia cinese, un’opera di tanto splendore e ingegno. Per costruirla erano stati necessari l’impegno, le risorse e la collaborazione di tutti gli Stati che attraversava. E nonostante il modificarsi del suo percorso, miracolo meccanico, la durata totale della traversata era sempre la stessa: la TranEuropea annunciava, con non poca vanità, di poter trasportare un viaggiatore dall’Islanda fino in Russia in soli cinquantatré giorni, quarantacinque minuti e tredici secondi, fino quasi a spaccare il secondo. E se si aveva la capacità, e la solerzia, di leggersi tutte le note del conosciuto Le regole fondamentali della TranEuropea si poteva incontrare, alla nota tredicimilaseicentododici, una piccola frase quasi sbiadita, dove si riconoscevano i supremi diritti dei viaggiatori di chiedere il rimborso qualora il treno avesse ritardato anche solo di un minuto nella sua folle corsa. Credetemi, pochi erano riusciti ad arrivare così in fondo fino alla nota tredicimilaseicentododici, tanto che se anche una sola volta avesse tardato nessuno avrebbe mai comunque chiesto il rimborso. Si dice che un tedesco, un ingegnere molto capace e pragmatico, fosse riuscito a leggere fino alla nota tredicimilacentoventinove, prima di perdere i sensi e rigurgitare nel ricamato cappellino della nobildonna seduta accanto a lui, la quale si decise a viaggiare solo in calesse da lì in poi, fino alla fine dei suoi giorni. In verità si crede anche che, se l’ingegnere tedesco di cui si è dimenticato il nome fosse stato l’unico a leggere tutte quelle note, la ragione era ben altra che l’incredibile noiosità dell’impresa. Basti considerare che gli occhi dei viaggiatori, e non c’era eccezione fosse la quinta o la prima classe, di tutte le sessantacinque carrozze, erano incollati agli enormi finestrini del treno con la bocca spalancata, dimenticandosi delle buone maniere, che se nella quinta classe non erano richieste, nella prima era tutto un altro paio di maniche. Lo scenario era al di là del descrivibile. Si era cercato di parlarne, e di scriverne, tanto che la commissione ferroviaria aveva assunto i migliori poeti, scrittori e intellettuali dell’epoca per poterne raccontare, e nonostante ciò sembrava che qualsiasi opera umana fallisse e fosse completamente priva di ispirazione, tanto era bella la creazione là fuori. Quindi che sia perdonato che qui non si tenterà tale audacia, che d’altro canto già sappiamo impossibile. Si può solo incitare a immaginare una buona porzione del pianeta passare di fronte ai passeggeri, come una diapositiva dopo l’altra: non c’è più posto nelle loro menti per minuscole meschinità e pensieri senza logica. Si vociferava che un papa salito a bordo non credesse in Dio quando era giovane, e anzi che fosse un giovanotto di molti vizi e con una reputazione alquanto discussa; pare che avesse trovato la fede, una fede inimmaginabile, così radicata da essere inviolabile di fronte a ogni ragionamento, dopo solo quarantacinque minuti a bordo del treno TranEuropea.
«C’è un grande disordine nel reale» aveva proferito uno psicoanalista molto noto ai più prima di salire a bordo, per poi scusarsi pubblicamente e ritirare tutte le ventimila copie del libro dove lo aveva scritto, andare in rovina e ritirarsi per sempre dalla vita di scrittore. E di esempi così, a migliaia. L’aurora boreale, le grandi foreste verdi in Turingia, le scogliere a strapiombo di Moher, i fiordi blu norvegesi nella zona dello Stavanger, il sole sulle Cinque Terre in Italia, i fianchi sinuosi del fiume Nemunas in Lituania, la melodia dei paesaggi litoranei di Corrubedo in Galizia, i promontori pieni di grazia immateriale nel sud di Lione, e come queste altri miliardi di immagini rubate alla perfezione della casualità naturale si potevano vedere dai finestrini. L’amenità era tanta nella sola andata che poteva bastare poi per una vita intera.
È proprio su questo treno, al cominciare di una siberiana mattina agli inizi del secolo corrente – precisamente nella quarta classe, cinquantottesima carrozza, sedile numero dodici – che sta nascendo Nomada. La madre, di cui si sa poco o nulla, se non che ha origini da zingara e occhi verde foglia, sta ancora spingendo il piccolo corpicino fuori da sé. Gli spasmi la scuotono tutta, tanto che ha la sciocca paura che a forza di spingere ancora le uscirà per sbaglio anche qualche organo; tuttavia continua a spingere, ed è un tale dolore che predica a se stessa che i piaceri del corpo non meritavano tanta fatica poi, e poi, pentendosi dei suoi pensieri pavidi come un goloso che si penta delle sue debolezze di stomaco, torna a premere. Nomada esce dal ventre di sua madre e ora è qualcosa a sé. Sporca di sangue e di placenta, Nomada piange la mancanza di quel lago pacifico, e saluta il mondo con un grido.
È così che Nomada irrompe con il suo primo vagito nel mondo, ancora prima che il sole abbia il tempo di sorgere, creando un malcontento che serpeggia fino in fondo, tanto da giungere alle orecchie del capotreno. La madre, che ha appena combattuto una fatica bestiale, ha giusto il tempo di stringerla tra le braccia e di regalarle un sorriso stralunato, prima di perdere i sensi e non tornare più. Fortunatamente, dove c’è una moglie deve esserci anche un marito. Prima di rallegrarsi, si scopre che nemmeno a lui è riservato un destino migliore. Come l’uomo viene a conoscenza che la moglie è spirata dando alla luce la loro bambina, è colto da un’emozione tanto feroce prima di amore per la nascita e poi di dolore per la dipartita della sua amata, che il suo buon cuore da gallese non ce la fa, e pur essendo un uomo imponente, di quelli con il torace largo e la barba folta, il cuore virile gli si para d’impatto, e non gli rimane più un battito da vivere. Una scena tragica, due vite prese per una che si dà, tanto che la natura sembra in questo caso calcolare male le possibilità aritmetiche di questa specie e la sua dipendenza dalla statistica. In più ora ci si preoccupa per la sorte di questa creaturina, già piena di colpa quando ancora deve posare un passo sulla terra, o per meglio dire sul pavimento del treno.
Quando ecco che, se si allarga un po’ la scena e non ci si demoralizza, già si intravede una salvezza: seduta sulle ginocchia, tra le gambe della madre, intenta a recidere il cordone ombelicale, c’è una figura con ancora sangue e fluidi non meglio precisati sulle mani e sulle braccia e un po’ dappertutto sull’abito – che se già era vecchio, ora è proprio da buttare – e che non sembra essere distratta dalla drammatica dipartita dei due. Pare egoistico a giudicare così su due piedi, invece tutt’altro. La sua attenzione ora è tutta per questa creatura che stringe tra le mani, e che pulsa, piange, si dimena, piange ancora più forte aprendo la bocca, gridando, e che ancora non ha aperto gli occhi ma, chiedendo il latte, ha già dei desideri e delle necessità come qualsiasi altro animale maturo. La donna lascia gli altri passeggeri a occuparsi dei corpi dei genitori, nonostante loro non ne abbiano più nessun bisogno, se non per la pace eterna, non come l’esserino di cui ora sa che c’è da occuparsi e che ancora grida, e lotta con la sua nascita. Si può dire che questa donna abbia un cuore generoso, che sia una santa a prendersi cura della bambina, una donna che non si tira certo indietro, li sentiamo certi complimenti nella testa, o ancora, se ve ne fossero di più di queste donne al mondo! Niente di falso: Magdalena, questo il suo nome, è davvero ciò che comunemente si può chiamare una brava samaritana. In lei però non c’è nessuna intenzione di prendersi a carico una bambina che non è uscita dal suo ventre. Non giudicate troppo facilmente, la pazienza è la massima virtù di un buon magistrato. Magdalena ha già vissuto una vita dura, durissima, tra l’aridità di una terra quasi desertica e la gogna di essere sempre la serva di qualcuno. Scappata a filo da una vita tremenda e servile, in cui le sue idee valgono ancora meno del suo corpo, e il suo corpo è già di poco prezzo, ha goduto di ciò che si potrebbe chiamare libertà – ma libertà è un termine vago, troppo grande, di cui gli uomini sempre abusano, meglio dire emancipazione – solo per pochi giorni e ora è inciampata nella responsabilità di essere la madre surrogata di questa neonata che tiene tra le mani. Magdalena si ferma, quasi solo il tempo di un sospiro. Si dice che la nostra esistenza ci passi davanti giusto un momento prima della morte. Qui veniamo a sapere che ci sono anche casi particolari, come ora questo, dove tutto ciò che abbiamo esperito ci corre selvaggiamente di fronte agli occhi anche quando siamo prossimi a una filosofica deviazione a Y, ossia una decisione che può cambiare tutto ciò che si è immaginato del proprio futuro. Per fortuna di Nomada, questa donna, di umili origini, di fato triste e dagli occhi lucidi come se fosse sempre sul punto di piangere, che ha sempre vissuto nelle colline a nord di Bilbao fino a quando non ha deciso di lasciare tutto e andare a cercare fortuna ai confini del mondo, lasciando tutti sbalorditi giù al paese che, non a torto, con il mondo non volevano affatto avere a che fare, ha solo un attimo, anche se quasi nullo, di esitazione. Sospira rassegnata, e con questo semplice gesto sembra suggellare un accordo che cambierà la sua vita, e di nuovo la renderà serva. Del resto forse non ha nemmeno scelta, dato che è stata lasciata sola nella carrozza e nei suoi doveri di caritatevole essere umano. Gli altri si stanno ancora occupando dei corpi senza vita, e tutti sembrano essersi dimenticati, o forse se ne vogliono dimenticare, di chi ancora appartiene al mondo e ha bisogno di aiuto.
Magdalena si alza, e forse per via della sua decisione che le ha fatto guadagnare un po’ di santità ci appare molto più alta di quello che è in realtà. Questa mattina, in particolare, ha la delicatezza di un rosa opaco nonostante la pelle bruna oscurata da una vita sotto il sole, e si muove con un’eleganza che non si sa spiegare, data la sua umile condizione d’origine, come se avesse sempre paura di rompere qualcosa intorno a lei o come se lei stessa fosse di cristallo. Quando prende Nomada tra le braccia, un pezzo di cordone ombelicale è caduto a terra e là viene scordato, così come il legame della bimba con la madre zingara, e lei è di una morbidezza così decisa che la neonata smette finalmente di gemere e lamentarsi, e inizia a succhiare avidamente il latte dal tessuto imbevuto che Magdalena le offre a mo’ di seno, fino a che la sua coscienza si dilata e abbraccia il sonno.
Nomada si addormenta nella stessa maniera per i molti anni a seguire, sempre in una carrozza traballante, tra le sottane di Magdalena e la sua minuta dolcezza in cui rifugiarsi, mentre quest’ultima cerca costantemente per lei il latte che la possa sfamare e l’accompagna negli altrimenti solitari anni infantili con incomprensibili ninne nanne spagnole. Perché Magdalena non si sia mai decisa in quegli anni a scendere dal treno è rimasto un mistero a cui non ha mai voluto rispondere. Certo, è lecito supporre, e solo a rifletterci un poco ce ne sono a palate di ragioni per così dire valide, di senso comune, che come contadina il suo legame con la terra possa significare più sottomissione che appagamento – e chi c’ha voglia di tornare a sgobbare per un tocco di pane? – o forse ha paura che non sia sicuro per una donna fresca e ancora non sposata cercare il proprio posto in città, sola con un bambina – e chi le dà torto dato che si sa come gli uomini possano essere crudeli con chi è debole – o forse ancora non si è stancata di guardare fuori dal finestrino mentre tiene Nomada stretta al petto e le canta suadente: «Duerme querida, que tu mama está en el campo. Duerme, que tu mama está en el campo, querida. Te va a traer rica fruta para ti. Te va a traer muchas cosas para ti» nonostante per lei non esistano né terra né madre. Quando Magdalena se ne sta in disparte, in silenzio, non è facile notarla. Non le piacciono le attenzioni della gente, per lo più le hanno portato guai. La sua natura mansueta si incastra precisamente al volto rotondo, che ospita la stessa espressione di gratitudine che si scorgerebbe nelle pupille di una vacca, e che non porta segni particolari, se non per una minuscola cicatrice sotto l’occhio sinistro, frutto di una malaugurata caduta da un albero di mele. Quando canta, invece, è un’altra storia. Si sente dire in giro, e si può giudicare se il commento sia iperbolico o meno solo dopo che si è ascoltata la sua voce, che quando Magdalena canta le leggi fisiche abbandonano il luogo donde la si incontra e pare che altri soli si accostino a illuminare il cielo. È verosimile, allora, che sia solo grazie alla sua voce incantatrice e alla luce ereditata degli occhi verde foglia della bambina, che le due se la stiano cavando a bordo del treno. Che sia il canto o un paio di occhi, l’abilità di un giocoliere e la parlantina di un teologo, sarebbe da sciocchi non trasformare quel poco che si è ricevuto in virtù, e poco importa che forma assume fino a che ci permette di cavarcela e di mettere in pancia qualcosa con cui sopravvivere. C’è sempre mancanza prima che ci sia ricchezza, e così è per loro. Quando Magdalena canta, e la bambina seduta sulle sue gambe si rallegra battendo le mani, i giramondo che hanno acquistato un posto a bordo del treno hanno il costume di radunarsi intorno e lasciare qualche dono, e soprattutto, sempre, Dio sia lodato, qualcosa da mettere sotto i denti. Risolta la questione di pancia, c’è anche l’opportunità per progredire le questioni della testa. Nomada è ora poco più che una bambina, con una dilagante immaginazione che lei, senza saperlo, ha ereditato dalle donne del ramo materno della sua famiglia apolide, e come sorprendersi con tutto quel viavai di stranieri! Il blaterare poliglotta ha influito enormemente sull’apprendimento linguistico di Nomada, e fin dai primi suoni articolati ha una maniera di parlare tutta sua, come se parlasse una lingua inventata ma reale, tanto che è miracolosamente in grado di capire e di farsi capire da qualunque passeggero le parli. Chiunque a bordo del treno TranEuropea è a conoscenza della capacità linguistica pressoché illimitata di questa bambina prodigio e c’è chi grida al miracolo, chi pensa sia un imbroglio perché ce n’è sempre uno che medita sia una bufala, e chi di malinconico umore lo percepisce come compendio per un’orfanella. Ciò che richiama il nostro interesse, però, non sono certo queste opinioni da popolino, quanto piuttosto l’interessamento a questo bizzarro fenomeno da parte di un passeggero in particolare, il quale, sentite le voci di questo prodigio, se ne interessa tanto da camminare fino alla cinquantottesima carrozza solo allo scopo di stanare la bambina prodigio e verificarne i fatti con metodo, come ogni scienziato anche solo decente ha il santo dovere di fare.
L’uomo si presenta con il suo fare da signore, ammaliante e determinato, e inchinandosi di fronte a Magdalena recita il suo curioso nome tutto per intero, descrivendosi come un oftalmologo polacco di origini ebraiche appassionato di lingue straniere. Magdalena fa buon viso a cattivo gioco mentre se ne sta a pensare a che diavolo significherà mai oftalmologo, e sembra masticare la parola complessa e rigirarla con la lingua per assicurarsi di averla gustata bene e forse di conoscerne il gusto, ma niente, non se ne fa niente. Ciò che si è chiamato qui uomo per i suoi modi composti è in realtà solo un ragazzo fresco di laurea che, con una pazienza leggendaria e con una voce chiara e pacata che rassicura gli animi, si apporta da solo qualche anno di più. È ancora un’epoca in cui la vecchiaia e l’esperienza valgono più della novità. Come dargli torto se è completamente affascinato da quella scalmanata bambina con la sua parlantina babilonese, del resto fa presto a intravedere le lodi e i riconoscimenti quando tornerà alle sue aule e, riflettendoci sopra, con i suoi taccuini e la sua pazienza, butterà giù un saggio che gli altri studenti, fino a poco prima colleghi suoi, avranno il tremendo compito di studiare al fine di passare una certa materia. Badate che tale giovane non è mai stato ambizioso, serio certamente, geniale anche, ma ambizioso mai. Eppure ora c’è una luce che non si era mai riflessa nei suoi occhi, una luce generata da un uomo che sta sognando a occhi aperti i suoi momenti di gloria. Si vede precisamente, con una corona di alloro in testa e la sua mano che ne stringe altre, timorate dalla sua e piene di venerazione. Come può essere selvaggia la fantasia umana quando si celebra il proprio ego futuro. Sono già passate un paio di settimane, e Ludovico sembra che non si sia mai spostato dalla sua postazione, matita dietro l’orecchio e taccuino in mano, mentre fissa come spiritato la bocca di Nomada che ingurgita e sputa parole in tutte le lingue che hanno senso e in nessuna conosciuta. Nomada non sembra badarci, ora ha già cinque anni o giù di lì, quindi anche se miracolata è comunque ancora una bambina, e le parole non sono per lei che un gioco, come dicono sia giusto che sia alla sua età. E chissà se i bambini siano tanto puri e beati perché hanno ancora poco da prendersi sul serio. E intanto Nomada parla, parla e parla e parla. E dal canto suo Ludovico annota, annota e annota e annota. Che Magdalena sia insospettita da tanta attenzione di un letterato per una bambina non è da fargliene un cruccio, che sia singolare è fuori discussione. Quindi se per pazienza, sogni di gloria e passione scientifica Ludovico se ne sta là, seduto, con il didietro che duole, anche Magdalena non lascia mai la carrozza e veglia come un pastore la sua pecorella, non certo per mancanza di fede, quanto piuttosto per irremovibile temperamento morale. Magdalena è forse troppo innocente per rendersi conto che la malafede è tanto più forte quanto più peccatore è il giudice che valuta. Quello che invece può stupire, è che in tutto questo tempo ancora non si sa su che cosa esattamente Ludovico stia conducendo la sua ricerca. Magdalena non è istruita, si sa, ma cretina nemmeno. Ciò che la ferma da indagare è, come a tutti accade chi più chi meno a seconda del carattere e delle vicissitudini, la paura. Una paura matta di non capire che cosa le verrà spiegato, e non senza ragione, dato che ancora deve venire a capo di che cosa sia un dannato oftalmologo! Essendo di carattere ruvido e semplice, si indispettisce con se stessa, fino a che le parole non le escono dalla bocca senza controllo.
«E cosa staresti mai cercando in una bambina?» e Ludovico non ha un attimo di timore nel rispondere prontamente: «La Lingwe Universala!»
Magdalena inclina la testa e si indispettisce ancora di più con se stessa, perché si ostina a fare domande a quel sapientone e alla fine non solo non ne ha cavato un ragno dal buco; ora, oltre a oftalmologo, si è appena maledetta da sola a spendere le sue prossime giornate a scervellarsi su che cosa diavolo sia mai la “Lingwe Universala”.
«Maledetta linguaccia», si allontana borbottando mentre lascia i due alle loro interminabili chiacchierate in una lingua senza senso. In seguito, specialmente durante le notti di brina quando il solo freddo fa desiderare un po’ di compagnia anche solo per quel calore concesso dalla vicinanza di un altro corpo, dentro la carrozza, mentre Nomada dorme beata tra le braccia di Magdalena e Ludovico si massaggia le tempie stanco del tanto pensare, i due si compiacciono, talvolta parlando, talvolta tacendo, della reciproca compagnia. Certe nottate le passano a discutere, scaldati dalle ammuffite coperte da quarta classe, delle ricerche dello studente e dei paesaggi che hanno incantato lei. È durante queste notti che Magdalena, senza che si permetta di chiedere di più di ciò che sta bene, fa un po’ più luce almeno su ciò che il giovane va cercando in quel blaterare femminile che normalmente i più, specialmente gli uomini, rifuggono. Ludovico ritiene che nel giro di poco tempo, chissà venti o forse trent’anni – che in termini evoluzionisti, anche per quanto riguarda una lingua non è che una pipa di tabacco – si possa creare una lingua artificiale, qualcosa che non si è mai udito prima; non perché la lingua in sé debba essere grammaticalmente più fluida, non per la bellezza della sintassi né per un’armonia semiotica: ciò che il giovane va cercando è una lingua artificiale che non appartenga a una cultura precisa, che non sia frutto della storia di un popolo, ma che vada, obliquamente, trasversalmente e diagonalmente a insinuarsi nella gola di tutti gli uomini. I tempi della torre di Babele devono ancora estinguersi! Quando ne parla, Ludovico subisce una trasformazione tale che si direbbe che i suoi tratti siano mutati, e che da studente si sia fatto santone, per come è trasportato dal suo farneticare; con Magdalena che ascolta e che se gli concede un minimo di credibilità è solo per amicizia, e non come lui crede fermamente, per l’appetibilità delle sue idee. Parla e continua a blaterare di come con la sua lingua artificiale genti di tutte le terre avranno da intendersi e finalmente riconoscersi reciprocamente come persone invece di considerarsi estranei, o ancora peggio, diversi. Ludovico è un sognatore, e per quanto ambizioso ancora disciplinato. Semplicemente, in momenti come questo ora tutto il criterio e tutta la disciplina che lo accompagnano durante il giorno si perdono, e quando trova buone orecchie per ascoltare come quelle di Magdalena si sente persino esagerarsi: l’attenzione ricevuta lo fa andare a briglia sciolta. Quindi non è poi tanto strano che non si fermi a elogiare le derivazione di una lingua universale, ma senza tante remore ne rivela anche l’intimità, come se alzasse per gioco la gonna della sua donna in fronte a un paio di amici al bar. Ludovico si alza in piedi, questa sera è un poco alticcio, e in vino veritas le racconta di come sia fermamente convinto che un dialogo sia più potente di qualsiasi torto, e che se gli uomini potessero comunicare apertamente non ci sarebbero mai litigi, e men che meno guerre. Che la mancanza di chiarimento sia origine della guerra è tutt’altro che sicuro a dire il vero, quando anche la stupidità potrebbe giocare la sua parte, e chissà anche l’ingordigia, o forse solo la bramosia di medaglie e d’onore, se non che questo non è il tempo e né il terreno per incitare a pericolose discussioni politiche. Magdalena aspetta che Ludovico si sieda di nuovo, prima di fargli una domanda, che questo starsene in piedi a predicare la fa sentire totalmente a disagio. È un treno, pensa lei, mica una chiesa o una piazza o un comizio politico. E con un’arguzia che non sapeva di avere, Magdalena induce timidamente un suo dubbio: «E come mai allora se ne fanno di guerre, anche tra chi ha una lingua comune e si capisce, che ne so tipo tra americani e inglesi?»
È uno schiaffo in faccia a Ludovico. Non si sa se per la buona argomentazione nella loro disputa o per essere stato messo in dubbio. Certo è che ha pronta una risposta, è sempre stata là nella sua testa, anzi sulla punta della lingua, e tuttavia, non l’ha mai fatta uscire fino a ora: «Se si prende l’esempio dell’inglese non può funzionare perché in quel caso non è una lingua che accumuna, solo un’intermediaria. Non crea nessuna familiarità con l’altro parlante dato il percorso, per quanto breve, separato.» Negli occhi di Magdalena si legge chiaramente come pensi che, nonostante tutte le risposte che riceva, Ludovico sia poco più di un sognatore indisciplinato, un poco ingenuo pure, e nonostante questo, o forse proprio per questo, lo ammira molto con i suoi ideali molto coscienziosi e così infantili di mutare radicalmente la natura umana. O forse solo perché oltre a essere gentile è anche un bel figliolo. Ecco però avvicinarsi la stazione, in questo caso destinazione finale dello studente polacco. Non è poi così complicato intuire, con l’ultimo abbraccio un po’ più stretto del dovuto da parte di Ludovico e quelle due lacrime nascoste dalle dita veloci di Magdalena e il suo fiato corto, che dalle loro conversazioni fino a tarda notte sia pacatamente nato qualcosa che ha preso le distanze da un’amicizia. Lui ha le valigie in mano, se ne va come è arrivato, e per coincidenza – anche se qualcuno un po’ più savio direbbe che non esiste niente di simile alle coincidenze – oggi indossa gli stessi abiti del giorno in cui si è presentato. Lui si tortura notando come lei, che comunque potrebbe avere la stessa età di sua madre o almeno di sua zia e in fondo a chi gliene importa giacché finora se si può chiamarlo amore è solo stato platonico, sia radiosa; lei cerca nei tratti di lui i più squallidi, giusto per farselo mancare un po’ di meno nelle notti che verranno. Le donne sanno essere sempre più argute nel momento del bisogno, nei momenti dell’addio. Rimane ora forse un minuto, nel quale si spalanca l’abisso delle cose non dette e delle carezze non date. Magdalena si sporge un po’ e, timidamente, così vicino come non sono mai stati, si morde un labbro e, con coraggio, tenta tutto: «Che cosa sarebbe comunque un oftalmologo?» Di anni ne sono passati, i ricordi invece si sono ancorati alla terra fertile che c’è dentro il petto. Magdalena è seduta nella sua poltrona, la stessa che ha scaldato durante le sue chiacchierate con Ludovico. Comoda, legge il giornale locale, che insieme al pane le arriva la domenica mattina, anche quello fresco, ma di notizie. E oggi, come allora, lo vede di nuovo. Non in carne e ossa, no, non le è riservata tanta fortuna, a questa donna dal fato triste e dagli occhi lucidi. Ben piantato, in una foto che sembra coprire tutto lo spazio della pagina di carta, ci sta Ludovico, sorridente, certe mani timorate stringono riverenti la sua, di mano. Il trafiletto del giornale nazionale, proprio sotto la sua foto, le comunica che il suo caro amico idealista è nuovamente candidato alla categoria Pace per il premio Nobel, e non per la prima, bensì per la dodicesima volta! C’è da dire che Magdalena ora tiene molto a cuore gli ideali altrui, con una particolare predilezione per i più folli.
Chiaretta24
Un libro bellissimo, scritto da una penna consapevole e sorprendente. Una vera chiccha, consigliatissimo!