Si vedono tutti i palazzi del mio paese dal punto in cui stavamo parcheggiati già da una ventina di minuti. È la meta più ambita dalle coppiette di innamorati per il panorama che offre e anche noi due avevamo scelto spesso quel posto. Le strade sono sempre illuminate di quel giallore squallido dei lampioni a quell’ora e, attraverso i buchini delle tapparelle di qualche finestra, si poteva intravedere il barbaglio emanato dalle luci che si accendevano e spegnevano freneticamente intorno ai presepi e agli alberi di Natale messi lì apposta, dietro alle vetrine, così da poter essere visti da coloro i quali avrebbero alzato gli occhi verso quei balconi.
Erano passate tre o quattro settimane da quando aveva deciso di lasciarmi. Forse anche cinque. Non saprei dirlo con esattezza. I minuti duravano quanto durano le ore. Il tempo era come quelle gocce d’acqua che si formano e si allungano pian piano in un rubinetto chiuso, senza mai staccarsi e cadere. E non lo so se in quei giorni ha piovuto o se c’era il sole adatto per una grigliata in campagna. Era ancora novembre? Il tettuccio che attonito continuavo a fissare faceva da schermo ai pensieri che la mia mente gli proiettava contro. Un film deprimente era. Un interminabile film deprimente che una fila di spilli incollati sotto agli occhi mi costringeva a guardare. Non diceva una parola, lei. Di certo io non l’avrei fatto per primo o, almeno, questo era ciò che mi ero messo in testa. Era cambiata. Avrei dovuto capirlo quando, da un giorno all’altro, decise che era giunto il momento di dare una svolta al colore dei suoi capelli. Così si fece bionda. Dovevo dirle che le stavano male. Questo avrei dovuto fare. Lei sarebbe corsa di fretta dal parrucchiere che glieli avrebbe riportati al castano chiaro originale e io avrei fermato da subito la sua trasformazione. Ma le stavano bene e non le ho mai detto una bugia.
«Sei bella.»
«Cosa?» rispose d’impulso, ma mi aveva sentito bene. Non è che stavo mettendo in atto qualche tipo di strategia per poterla riconquistare, ma era bella davvero e così glielo dissi. Mi guardò, con gli occhi imbecilliti di una che non ci stava capendo niente e, quando glielo ripetei, abbassò lo sguardo. Poi si voltò dall’altra parte. Probabilmente le faccio pena, pensai. O magari non gliene feci affatto e, per questo motivo, si dovette sentire un po’ in colpa. Che impressione averla accanto. Era tutto così sconsolatamente inverosimile. Avrei voluto tenere le mani strette sulle sue spalle e scuoterla, sbatacchiarla per bene come si fa con gli ubriachi allo scopo di poter far riprender loro conoscenza. “Cazzo, ma sono io” volevo urlarle contro. “Amore, sono io! Sono io! Sono io!”
«Le cose stanno così» mi diceva, apatica. «Non è più come prima, che posso farci?»
Nulla, piccola mia. Non potevi farci nulla.
Eppure, quando le dissi che tra non molto sarei partito, sembrò di colpo tornare in sé e la sua faccia cambiò notevolmente espressione. Non mi aspettavo potesse rimanerci tanto di stucco. «Ho già fatto il biglietto,» continuai «di sola andata.» Avrebbe voluto chiedermi se stessi dicendo la verità. Glielo lessi negli occhi. Esaminavano i miei con attenzione, sperando di poter cogliere qualche informazione da questi, ma per fortuna c’era abbastanza buio e io non dovetti neppure trattenere il fiato per non farmi sfuggire nulla. Le palle di andarmene, io, non le avevo mai avute e lei lo sapeva bene. Ne parlavamo di continuo. Così ragionai sul fatto che, quella, potesse essere una buona occasione per potermi mettere alle strette. A quel punto non potevo che mantenere quanto detto, essendo inciampato di proposito nella mia stessa trappola. Lei abbozzò un sorriso per metà rammaricato e per metà fiero. Credo avesse capito cosa stessi cercando di fare. Annuì, poi tornammo a osservare in silenzio i palazzi gialli là di fronte. Più tardi sarei tornato a casa, avrei svuotato i cassetti e riempito una grossa valigia.
In piedi sul bordo della portiera aperta
di un elicottero
a quattromila metri di quota
con indosso il paracadute
mi tenevo forte alle pareti di ferro
gelide e grigiastre
con entrambe le braccia tese
e mi sporgevo
quel poco che bastava a un cacasotto quale ero
per guardare
in giù
e altro non vedevo che
nuvole
c’erano solo quelle
un ammasso infinito di vapori sospesi nell’aria
tra me e il suolo
velato
sul quale volevo poggiare
il prima possibile i miei piedi
trepidi.
E mai avrei saltato
se qualcuno non m’avesse spinto da dietro.
«Ho già fatto il biglietto, di sola andata.»
Lontano
era il suolo
ma si riusciva a vedere
e il vento
mi tagliava la faccia.
2017
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